Disfunzioni del mercato del lavoro italiano; differenze con i modelli europei e prospettive di riforma
Sommario: 1. Introduzione sul mercato del lavoro e sul concetto di flexisecurity – 2. Il mercato del lavoro in Italia delineato dal d.lgs. n. 150/2015 in poi – 2.1. Le modalità di presa in carico dei soggetti disoccupati – 2.2. Le novità introdotte con il d.l. n. 4/2019 – 3. Distopie con il reale mercato del lavoro vigente dal lato dei lavoratori… – 3.1. …e dal lato delle aziende – 4. Il mercato del lavoro in ottica comparata nei principali Paesi europei – 5. Quale il miglior modello da applicare al mercato del lavoro italiano? – 6. In conclusione: il fallimento italiano della flexisecurity?
1. Introduzione sul mercato del lavoro e sul concetto di flexisecurity
Prima di introdurre il presente lavoro, appare fondamentale chiarire quale sia il significato dell’espressione “mercato del lavoro” da un punto di vista giuridico, economico ed anche sociologico. Trattasi, invero, di un’espressione che ricorrerà sovente lungo tutto l’arco della trattazione ed è quanto mai opportuno inquadrarla concettualmente al fine di attribuirgli una precisa identità tecnico-scientifica, differente dalle categorie dogmatiche di uso quotidiano largamente utilizzate.
Dal punto di vista giuridico, è importante accennare al fatto che in dottrina si è parlato della nascita di un “diritto al mercato del lavoro”[1], come quarto genus ricompreso all’interno della macro-area del diritto del lavoro, accanto al settore della disciplina del rapporto di lavoro individuale, del diritto sindacale e della disciplina previdenziale.
Il concetto inteso in senso giuridico è necessariamente intriso del suo significato economico, a mente del quale, invece, prevalgono le teorie relative ai tassi di occupazione, secondo cui il mercato è visto come quel luogo ideale in cui la domanda delle imprese e l’offerta dei prestatori di lavoro si incontrano e generano un incrocio volto a colmare una vacancy, ossia un posto vacante. Le teorie economiche, dunque, girano attorno ai modelli macroeconomici che sono alla base del funzionamento dell’occupazione, il cui incremento rappresenta l’obiettivo a cui puntare per accrescere il benessere sociale di una nazione intera.
Osservare, inoltre, il mercato del lavoro anche dal punto di vista sociologico è altresì utile per la qualità delle informazioni che si mettono in rilievo; anzi, per come si noterà, l’aspetto sociologico costituisce la base fondante di ogni ragionamento giuridico che ricorrerà in modo costante nel corso della presente trattazione. Non si può, infatti, ambire ad un migliore mercato del lavoro se prima non si osservano attentamente quali sono i fenomeni sociologici che spingono verso il cambiamento; inoltre, proprio lo studio di tali fenomeni impone l’adozione di correttivi per quanto concerne i giovani, le donne e i disabili, il tutto in nome di un mercato del lavoro che sia più inclusivo e non più ad appannaggio di pochi lavoratori. Proprio il concetto degli outsider, adottato con riferimento a queste ultime tipologie di lavoratori, è divenuto predominante nel linguaggio odierno ed è utilizzato per far riferimento a coloro che sono collocati al di fuori del mercato, in quanto privi di occupazione, in netta contrapposizione invece alla categoria degli insider[2].
Al fine per cercare di risolvere la dicotomia esistente tra insider ed outsider si è sviluppata la strategia dell’Unione Europea di creare politiche sul lavoro improntate alla flexisecurity, o alla flessicurezza per come viene perlopiù tradotto, termine che esprime la crasi tra due distinti elementi: quello della flessibilità (nei rapporti individuali di lavoro) e quello della sicurezza (nel mercato del lavoro). Come a dire che la nuova formula alla luce della quale deve essere riscritto il nuovo mercato del lavoro è la seguente: promuovere un passaggio costante da un rapporto di lavoro all’altro secondo l’elemento della flessibilità, ma, al contempo, garantire la sicurezza di trovare sempre una nuova occupazione.
Invero, con la comunicazione del 27.06.2007, la Commissione europea si esprimeva affermando che l’obiettivo da raggiungere da parte degli Stati membri era quello di creare un maggior numero di posti di lavoro grazie al nuovo meccanismo generato dall’incontro dei due elementi ora citati; così, in seguito, si sarebbe venuto a creare quel fondamentale cambio di rotta per cui dalla sicurezza del posto di lavoro si sarebbe passati alla sicurezza all’occupazione, ossia a che si avesse la consapevolezza che comunque il mercato del lavoro avrebbe offerto sempre un’occasione di lavoro adatta alle capacità dei lavoratori in cerca di occupazione.
Ciò che ci chiedeva e ci chiede l’Europa[3] è, dunque, una maggiore adattabilità da parte dei lavoratori, i quali sono chiamati continuamente ad innovarsi nelle competenze per non restare indietro di fronte alle esigenze delle imprese, in quanto queste ultime sono tenute a fronteggiare sfide globali e, pertanto, ad esercitare grande competitività tra di loro.
Dunque, quattro sono i principi attorno a cui ruota la suddetta strategia europea[4]: creare delle nuove formule contrattuali ispirate al principio della flessibilità; istituire la “formazione continua” lungo tutto l’arco della vita del lavoratore; creare delle nuove politiche attive per supportare il lavoratore nel passaggio da un’occupazione ad un’altra; istituire dei sistemi di sicurezza sociale, a partire dalle indennità di sostegno al reddito e a finire con quelle relative alla cura familiare.
A tali nuove esigenze la disciplina vigente in tema di mercato del lavoro, inaugurata con il d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150, ha provato ad offrire una valida soluzione approntando nuovi sistemi di politiche attive sul lavoro in raccordo alla nuova gamma di ammortizzatori sociali di cui al d.lgs. 14 settembre 2015, n. 148, a fronte di una riduzione sulle tutele alla conservazione del posto di lavoro con il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23[5].
La presente trattazione cercherà, pertanto, in virtù della premessa ora esposta, di seguire il seguente percorso: si proverà ad offrire una trattazione organica su quali sono le norme che regolano il corrente mercato del lavoro; se ne analizzeranno i difetti e le eventuali discromie applicative, specialmente dopo i primi sei anni dall’entrata in vigore del nuovo sistema normativo; si cercherà di analizzare i punti di forza degli altri Paesi europei per, poi, infine cercare di comprendere se vi sia un qualche modello già sperimentato nel contesto europeo da applicare anche al nostro Paese.
Si proverà, da ultimo, a rispondere, altresì, alla domanda finale: in Italia la flexisecurity è fallita? È un modello che può veramente andar bene per il nostro Paese? Non è facile fornire una risposta univoca a tale interrogativo perché la riforma europea, per quanto progressista e all’avanguardia, è stata comunque elaborata prendendo ispirazione dai Paesi che sono patria della flexisecurity e proprio di ciò si dovrà tener conto: si dovrà, perciò, capire se il legislatore italiano abbia cercato di attuare la strategia europea tout court o se, piuttosto, abbia applicato dei correttivi sulla base delle peculiarità del mercato del lavoro italiano e se sia, quindi, riuscito a rendere efficace tale modello anche nel nostro Paese.
2. Il mercato del lavoro in Italia delineato dal d.lgs. n. 150/2015 in poi
Il quadro attuale dei servizi per l’impiego e, in generale, del funzionamento del mercato del lavoro, si colloca nell’alveo del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150, emesso in attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183.
Essenziale appare, allora, esaminare il contesto normativo[6] nell’ambito del quale l’emanazione di tale decreto legislativo è attuato, atteso che l’epigrafe di tale decreto fa proprio riferimento ad una serie di disposizioni attinenti al “riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive”. Vi è, pertanto, da individuare le norme che regolano il funzionamento degli attuali servizi per l’impiego; si dovrà, invece, in seguito, valutare che impatto abbiano avuto le suddette disposizioni in fase applicativa, al fine di definire se eventuali distorsioni si sono verificate.
In materia dei servizi essenziali delle prestazioni da offrire su tutto il panorama nazionale per quanto riguarda i servizi per l’impiego, nonché in materia di politiche attive sul lavoro, l’art. 1, commi 3 e 4, della legge delega n. 183/2014, era stato chiaro nelle intenzioni. Si era, difatti, palesemente enunciato che il Governo, nell’emanazione dei decreti legislativi in attuazione dei principi e criteri direttivi della legge delega, dovesse provvedere, secondo l’ordine che in tale trattazione vi si attribuisce per priorità, all’introduzione di nuovi principi di politiche attive sul lavoro volti a favorire la corrispondenza tra le misure di sostegno al reddito (c.d. politiche passive) e le misure di reinserimento del soggetto inoccupato o disoccupato[7] (c.d. politiche attive), con la creazione di appositi accordi di ricollocazione che vedessero come parte attive le agenzie per il lavoro e gli altri soggetti privati accreditati e prevedendo come contromisura remunerazioni adeguate alla difficoltà impiegata per la ricollocazione dell’inoccupato/disoccupato interessato (art. 1, comma 4, lett. p). Conseguentemente, che il Governo si occupasse del rafforzamento dei rapporti tra gli operatori pubblici (quali, i Centri per l’Impiego) e gli operatori privati (quali le agenzie per il lavoro e gli altri soggetti accreditati), nonché creasse una maggiore sinergia dei servizi per l’impiego con gli enti di formazione e di istruzione secondaria e universitaria, il tutto al fine di creare un potenziamento dei servizi IDO, di incrocio domanda-offerta di lavoro (art. 1, comma 4, lett. n); ancora, che il Governo si occupasse della definizione, a livello nazionale, dei criteri di accreditamento per gli operatori privati e dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, da garantire su tutto il territorio italiano (art. 1, comma 4, lett. n), e che provvedesse all’istituzione di un sistema di vigilanza in capo al Ministero del Lavoro al fine di verificare l’applicazione effettiva di tali LEP in modo unitario da parte delle Regioni e Province autonome (art. 1, comma 4, lett. t); che, altresì, provvedesse alla creazione di un’apposita «Agenzia nazionale per l’occupazione», partecipata dallo Stato e dalle Regioni e Province Autonome e, persino, dalle parti sociali per la definizione delle sue linee guida di operatività, nonché vigilata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la cui formazione dovesse avvenire mediante un riordino delle risorse impiegate dagli uffici del Ministero del Lavoro e con compiti, tra gli altri, di gestione dei servizi per l’impiego, delle politiche attive e dell’ASpI (art. 1, comma 4, lett. c), d), e), f); che l’Esecutivo procedesse alla razionalizzazione delle procedure inerenti il collocamento mirato di cui alla L. 12 marzo 1999, n. 68 per favorire l’inclusività e la valorizzazione delle persone affette da quelle menomazioni a cui tale legge si riferisce (art. 1, comma 4, lett. g); che si creasse un sistema di raccordo tra l’Agenzia[8], ora vista, e l’I.N.P.S., al fine di coordinare l’erogazione dei sussidi monetari (di competenza dell’Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale) e l’erogazione dei servizi attivi per l’impiego (di competenza dell’ANPAL), (art. 1, comma 4, lett. r); che si valorizzasse il comportamento attivo del soggetto in cerca di lavoro e che si incentivasse il comportamento attivo di quest’ultimo per il raggiungimento dell’obiettivo occupazionale (art. 1, comma 4, lett. v); che, infine, si rafforzassero le strumentazioni telematiche al fine di semplificare la fruizione delle PAL da parte dei soggetti che vi si rivolgono, garantendo la comunicabilità dei sistemi informatici tra operatori pubblici e privati e privilegiando le informazioni del collocamento mirato e dei programmi di rioccupazione/riqualificazione assegnati ai disoccupati ed inoccupati (art. 1, comma 4, lett. z), aa), bb).
Il tutto nell’ambito di un riparto delle competenze tra Stato, Regioni e Province Autonome che mantenesse intatto l’assetto costituzionale delineato dall’art. 117 Cost., comma 3. Alla stregua dell’interpretazione che in prevalenza ne è stata fatta[9], anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 50/2005[10], alle Regioni è attribuita la competenza concorrente in materia di mercato del lavoro in quanto rientrante nella nozione di «tutela e sicurezza del lavoro», in cui va senz’altro ricompresa la tutela dell’occupazione. Viceversa, si noti fin da ora, che le Regioni, invece, hanno competenza esclusiva in tema di istruzione e formazione professionale, in quanto materia non espressamente attribuita alle competenze esclusive dello Stato di cui all’art. 117 Cost., comma 4.
Il suddetto riparto viene chiaramente confermato dall’esaminanda legge delega n. 183/2014, ove all’art. 1, comma 4, lett. u), dispone il «mantenimento in capo alle regioni e alle province autonome delle competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro». Rispetto alla suddetta espressione si ritiene che l’intenzione un po’ maldestra del legislatore sia stata quella di arginare in parte i problemi scaturiti da un regionalismo esasperato in tema di politiche attive, stabilendo, poi, con il successivo decreto delegato n. 150/2015 che il principio centrale del nuovo mercato del lavoro è costituito dalla creazione di una «Rete Nazionale dei servizi per le politiche del lavoro» di cui all’art. 1 decreto in esame. La suddetta Rete dovrebbe, pertanto, in maniera non troppo celata, provare a ristabilire un po’ di quel centralismo statale che aveva caratterizzato il passato mercato del lavoro, senza tuttavia disorientare le Regioni e Province Autonome in merito al mantenimento della loro quota di competenza concorrente faticosamente conquistata con la riforma del Titolo V della Costituzione. Si potrebbe dire che siamo di fronte ad un centralismo statale moderato da un regionalismo comunque più attenuato che rispetto a quello del passato.
Quanto alle finalità, si ritiene che essa abbia lo scopo di superare le disomogeneità dei servizi regionali, proprio per garantire un’attuazione unitaria dei LEP sul territorio italiano[11]. Diverse, invece, sono le opinioni[12] di chi ritiene che il decreto delegato abbia ottenuto un risultato favorevole, ossia quello di contemperare tra gli interessi in gioco, quali lo Stato, soprattutto interessato a mantenere i servizi unitari su tutto il territorio nazionale, e le Regioni, dall’altro lato, interessate a declinare le prestazioni dei servizi per l’impiego ciascuna secondo le proprie programmazioni.
In tale Rete, che dovrebbe rappresentare la novità più dirompente di questa nuova riforma, perché volta a creare un rafforzato coordinamento tra tutti quegli attori istituzionali che partecipano all’erogazione di politiche attive e passive nel nostro Paese, confluiscono diversi soggetti, sia pubblici che privati e, tra questi: la neo-nata ANPAL; le strutture regionali per le politiche attive del lavoro, per come istituite dall’art. 11 del medesimo decreto in esame; l’INPS, per ciò che concerne la sua competenza nell’erogazione dei sussidi in favore delle persone in età da lavoro (disoccupati e/o inoccupati); l’INAIL, per quanto riguarda l’erogazione di percorsi di reinserimento delle persone affette da disabilità; le Agenzie interinali del lavoro e gli enti autorizzati a svolgere intermediazione sul mercato del lavoro, entrambe ai sensi del d.lgs. n. 276/2003, nonché gli altri enti privati accreditati a svolgere servizi per il lavoro ai sensi dell’art. 12 del d. lgs. n. 150/2015; i fondi interprofessionali per la formazione continua di cui all’art. 118 della L. n. 388/2000; i fondi bilaterali di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 276/2003, già citato; l’ISFOL (oggi INAPP) e Italia Lavoro S.p.A. (oggi Anpal Servizi S.p.A); le C.C.C.I.A. e le scuole secondarie di secondo grado.
La partecipazione di tutti questi soggetti avviene sotto l’egida del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il quale è l’unico ad avere il compito di dettare le linee di indirizzo politico secondo una programmazione triennale delle politiche per il lavoro e la fissazione degli obiettivi annuali che le Regioni devono rispettare.
L’intento del legislatore è stato, con la creazione di questa Rete Nazionale, quello di favorire il raccordo tra tutti questi enti che, per come predisposta, restano, però, autonomi e indipendenti, anche se è previsto che dovrebbero puntualmente rapportarsi tra di loro e, ovviamente, coordinarsi con l’ente superiore che è il Ministero del Lavoro.
Volendo tracciare le macro aree a cui questi enti appartengono è possibile individuarne quattro: da un lato, vi sono gli enti che si occupano sistematicamente di favorire l’incrocio domanda-offerta, anche con particolare attenzione al mondo del collocamento obbligatorio di cui alla L. n. 68/99; dall’altro vi sono quelli deputati ad erogare la formazione e, infine, vi sono gli enti che erogano le politiche attive e quelli che, al contrario si limitano ad erogare i sussidi monetari. Nel panorama dottrinario non sono mancate opinioni favorevoli in merito alla commistione degli enti così delineata, specialmente per ciò che riguarda la dimostrata apertura del legislatore nel voler lasciare agli enti stessi la definizione più esatta dei compiti specifici di ciascuno di essi nell’ambito di questo raccordo istituzionale[13]; raccordo che, invece, proprio perché non definito, mostra, sommessamente agli occhi di chi scrive, la tendenza tutta italiana di voler moltiplicare e sovrapporre attività e funzioni che potrebbero essere ridotti a due, o al massimo a tre enti, uno per l’erogazione delle politiche attive, uno per l’erogazione delle politiche passive e uno per l’erogazione della formazione, ma pur sempre enti unici su tutto il territorio.
L’unione di tutte queste competenze istituzionali dovrebbe favorire l’incrocio domanda-offerta attraverso la seguente modalità: il lavoratore che perde la propria occupazione perché licenziato, perché dimessosi o perché il rapporto di lavoro si è concluso per scadenza naturale del termine, è titolare ab origine di un proprio bagaglio di competenze e di esperienza professionale che rappresenta il punto di partenza con cui accedere al mercato del lavoro. Il punto di arrivo, invece, è ovviamente rappresentato dall’occupazione in azienda (o eventualmente anche dall’avvio di un percorso di imprenditorialità). Per raggiungere il punto finale, il lavoratore dovrebbe essere accompagnato dai servizi per l’impiego, ossia dai Centri per l’Impiego regionali, passando attraverso un percorso di crescita personale che lo conduca verso il punto di approdo. In altre parole, l’incrocio (rectius: l’incontro della domanda con l’offerta) si ha solo quando le competenze in termini di formazione e le esperienze professionali del lavoratore vengano a combaciare con il know-howrichiesto dalle aziende. Fintanto che perdura un gap tra il lavoratore e le imprese italiane, i due soggetti continueranno ad allontanarsi tra di loro rendendo sempre più basso il livello di occupabilità dei lavoratori italiani, quest’ultimo oggi espresso dal c.d. indice di profiling.
Dalla fotografia di questa realtà nasce l’intento legislativo di creare la Rete Nazionale che permetta ai lavoratori di essere presi in carico da servizi per l’impiego e accompagnati verso le aziende attraverso percorsi di formazione ad hoc. I servizi per l’impiego si pongono, in altre parole, a metà strada tra il lavoratore e le imprese, offrendo nel mezzo percorsi di riqualificazione dei lavoratori privi di occupazione.
Vi è da dire che attraverso questa modalità si dovrebbe altresì ridurre il numero delle persone inattive, ossia di quelle che non studiano e non cercano lavoro[14]. Viceversa, nei periodi in cui il lavoratore non è occupato, queste persone, sempre secondo il nuovo modello di mercato del lavoro, dovrebbero dedicarsi all’accrescimento delle proprie competenze professionali, così da essere in grado di essere rioccupati più velocemente, riducendo drasticamente i lunghi periodi di disoccupazione.
Di un tale sistema beneficerebbero anche le imprese le quali, grazie al ricambio continuo di lavoratori che entrano ed escono dal mercato del lavoro, godrebbero di lavoratori più competenti e preparati, perché la concorrenza tra questi nel mercato del lavoro porterebbe, in modo del tutto naturale, a favorire le persone più preparate secondo le specifiche esigenze delle imprese. In ciò, si noti, sta essenzialmente il modello della flexisecurity per come elaborato dal legislatore italiano.
Si aggiunga fin da ora che il ricambio continuo dei lavoratori, che almeno nell’intenzione della riforma sarebbe dovuto avvenire con una certa facilità promuovendo il passaggio da un’occupazione ad un’altra, si è reso possibile piuttosto grazie alla nuova disciplina sui contratti a tempo determinato di cui al d.lgs. n. 81/2015 e all’introduzione dei contratti a tutele crescenti relativamente a quelli a tempo indeterminato di cui al d.lgs. n. 23/2015. Con riferimento ai primi, il legislatore, benché abbia reintrodotto la causalità dei contratti a termine, non è riuscito a contenere l’uso smodato di tali tipi di contratto da parte delle imprese, dato che esse preferiscono ampiamente utilizzarlo come espediente per non trovarsi di fronte all’eventualità, ben più articolata e costosa, di dover licenziare il lavoratore. Con riferimento alla seconda tipologia, invece, la nuova disciplina che oggi prevede la corresponsione di un’indennità per gli anni di anzianità[15], anziché la reintegrazione sul posto di lavoro, nel caso di licenziamento illegittimo, espone del pari tutti i lavoratori licenziati alla grave scure della disoccupazione.
Relativamente a quanto si stava dicendo con riferimento alla Rete, vi è da aggiungere che l’intero coordinamento degli enti che ne fanno parte spetta all’ANPAL, anch’essa posta sotto la vigilanza del Ministero del Lavoro. All’ANPAL, dunque, viene affidato il compito delicato di gestire ed assicurare l’erogazione uniforme delle politiche attive del lavoro da parte delle Regioni (ma non le passive che, per come si è detto, sono di competenza dell’INPS), così come di garantire la partecipazione di tutti i soggetti della Rete alle politiche attive erogate e, infine, di monitorare i risultati ottenuti.
L’ANPAL si pone, dunque, come una sorta di grosso “contenitore” delle politiche attive in cui convergono, tra i principali compiti, funzioni di coordinamento in qualità di ente super partes delle politiche attive sul collocamento ordinario e su quello mirato ex L. n. 68/99; la funzione di determinazione dell’ammontare dell’assegno di ricollocazione e delle forme di coinvolgimento da parte degli enti privati accreditati; la funzione di coordinamento della rete EURES; la definizione delle modalità di profilazione degli utenti (in relazione agli standard di occupabilità europei ed internazionali), nonché di sviluppo del sistema informativo unitario delle politiche del lavoro (c.d. SIUPL) di cui all’art. 13 del decreto in esame.
Secondo taluni[16], l’ANPAL avrebbe la funzione di riequilibrare la partecipazione tra i vari soggetti istituzionali e, soprattutto, di porsi quale garante dei LEP, al di sopra delle Regioni, e di verificare che siano osservate ovunque le prestazioni minime essenziali in tutti i territori regionali.
L’art. 11 del decreto legislativo in esame è, poi, determinante per comprendere quale sia il riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni (e le Province Autonome) e per comprendere quali siano le basi dell’odierno funzionamento del mercato del lavoro italiano. La citata norma stabilisce che per mezzo di uno particolare strumento, ossia per mezzo delle convenzioni, Stato, Regioni e Province Autonome si accordano tra di loro per stabilire, in sostanza, le modalità di erogazione delle misure delle politiche attive individuate a livello statale (e quindi uniche su tutto il territorio nazionale) da parte delle Regioni (vale a dire, dai Centri per l’Impiego): alle Regioni viene lasciata la decisione sulle concrete modalità di erogazione, quanto ad organizzazione, impiego del personale, dotazione di uffici, ecc. Le Regioni devono, inoltre, assicurare l’esecutività del principio di condizionalità, ossia l’erogazione delle sanzioni nei confronti di quell’utenza che non rispetti gli incontri al Centro per l’Impiego o il piano di formazione condiviso, proprio in virtù della percezione di quel sussidio economico che oggi non è più meramente “passivo”, ma che, appunto, implica una serie di “attività” da parte del beneficiario dell’ammortizzatore sociale.
Le predette convenzioni – sia concessa una particolare opinione a chi scrive – sembrano essere uno strumento compatibile rispetto al sistema delineato dal decreto in esame, in quanto consentono di attuare delle scelte sicuramente condivise, ma allo stesso tempo costituiscono uno strumento rischioso poiché attestano le Regioni sullo stesso livello di contrattazione dello Stato (quando, invece, dovrebbero assumere una posizione di evidente inferiorità gerarchica, in virtù della competenza concorrente di cui godono) ed espongono quest’ultimo alla mercé delle rivendicazioni delle funzioni amministrative tanto contese da parte delle Regioni. O, peggio ancora, si rischia di ritardare l’azione amministrativa, a causa della difficoltà oggettiva di raggiungere una disciplina comune sugli aspetti del riparto delle competenze che, per come detto, sono in generale aspramente rivendicate dalle Regioni stesse.
2.1. Le modalità di presa in carico dei soggetti disoccupati
Non si è ancora parlato di quali sono, in concreto, i servizi e le politiche attive che devono essere erogate dai Centri per l’Impiego. È l’art. 18 del d. lgs. n. 150/2015 ad individuare, attraverso un apposito elenco, quali sono le prestazioni offerte dagli operatori pubblici dei servizi per l’impiego.
Innanzitutto, giova notare che la platea dei soggetti beneficiari dei servizi per l’impiego è adesso aumentata, venendo a ricomprendere non più e non soltanto i soggetti disoccupati tout court, di cui peraltro il decreto in esame ne fornisce una nuova definizione, sostituita poi più in là da quella stabilita dal d.l. n. 4/2019, conv. nella L. n. 26/2019[17], ma si contemplano anche i soggetti percettori di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro e coloro che sono a rischio di perdere la propria occupazione[18]. A ben vedere, si tratta di soggetti interessati da situazioni diverse tra di loro, in particolar modo perché le ultime due categorie rappresentano soggetti che sono per il momento ancora pur sempre titolari di un rapporto di lavoro, a differenza di quella di dis-occupati che, per definizione, un lavoro lo hanno già perduto. In ciò, invero, non vi sono da muovere critiche nei confronti del decreto in esame, dato che anche le due categorie da ultimo menzionate meritano comunque un’assistenza specialistica volta ad evitare che le persone ritornino ad essere definitivamente disoccupate. Difatti, l’obiettivo della suddetta riforma era proprio quello di ridurre il più possibile i tempi della disoccupazione, evitando, se possibile, che il lavoratore uscisse dal mercato del lavoro posizionandosi nella platea dei lavoratori “quiescenti”, in attesa di una nuova occupazione.
Le attività che dovrebbero essere realizzate nei confronti di tali soggetti prevedono una personalizzazione dell’intervento pubblico che comincia, per tutti gli utenti dei Centri per l’Impiego, con un orientamento di base (art. 18, comma 1, lett. a), del decreto in esame), volto, essenzialmente, a profilare il soggetto, ossia a individuarne le sue caratteristiche per titolo di studio, età, sesso, esperienze formative e professionali e tutti gli altri elementi utili a comporre il c.d. bilancio delle competenze, per un preciso inquadramento dell’utente all’interno di un settore economico del mercato del lavoro.
In tal senso, le capacità relazionali degli operatori dei Centri per l’Impiego dovrebbero implicare, invero, anche importanti dosi di empatia nei confronti dell’utenza, oltre che competenze settoriali di conoscenza dell’andamento del mercato del lavoro, al fine di acquisire tutte le informazioni utili relative alla persona interessata. Informazioni che dunque vengono a comporre, nel fascicolo telematico del lavoratore, la c.d. SAP (Scheda Anagrafica Professionale), ossia quella che, in base al costituendo sistema informativo unico, dovrebbe essere resa accessibile in modo unitario da tutti i Centri per l’Impiego italiani.
Dall’orientamento di base, si dovrebbe passare poi ad un orientamento specialistico, ossia ad una assistenza intensiva da parte degli operatori, che dovrebbero prendere in carico in modo approfondito l’utente cercando di individuare la causadella sua disoccupazione, ossia se dovuta ad un gap formativo o ad un gap esperienziale: nel primo caso, il raccordo tra i vari attori della Rete di cui all’art. 1 del presente decreto dovrebbe far sì che l’operatore dei servizi per l’impiego possa offrire un catalogo formativo regionale in grado di colmare le eventuali lacune del disoccupato; nel secondo caso, invece, si dovrebbe piuttosto offrire all’utente un percorso di tirocinio o di stage presso le aziende in partenariato con i vari Centri per l’Impiego, così che il lavoratore sia avvicinato alle specifiche esigenze delle aziende, riducendo il divario tra le imprese ed i lavoratori.
Il suddetto accompagnamento al lavoro, personalizzato in base alle peculiari problematiche del lavoratore, potrebbe, in realtà, non per forza implicare il ricorso all’assegno di ricollocazione di cui all’art. 23 del decreto in esame, dato che il problema relativo all’assenza di lavoro potrebbe trovare pronta soluzione anche nel corso dei percorsi assistenziali forniti al lavoratore, almeno secondo l’idea originaria della riforma in esame.
Da precisare che le predette attività dei Centri per l’Impiego sono svolte in regime di concorrenza con gli operatori privati accreditati, i quali, autorizzati a svolgere le stesse attività, possono essere liberamente scelti dagli utenti per i medesimi percorsi di accompagnamento al lavoro (art. 18, comma 2, d.lgs. n. 150/2015).
Il momento topico[19], centrale, ma essenzialmente burocratico della presa in carico degli utenti del Centro per l’Impiego è la sottoscrizione del Patto di Servizio, di cui all’art. 20 del d. lgs. n. 150/2015 che, al pari di ogni altro patto o accordo giuridico[20], deve essere accettato e firmato dall’utente, da un lato, e da un operatore con potere di delega, dall’altro.
Un accordo che, ancora oggi non può assumere la nuova nomenclatura e le innovate caratteristiche del più completo Patto per il Lavoro[21], ma che già vincola le parti sottoscrittrici a rispettare gli impegni in essi assunti, questi ultimi con particolare riferimento agli «atti di ricerca attiva» che devono essere compiuti dall’utente e la tempistica con cui devono essere realizzati (art. 20, comma 2, lett. c), del decreto in esame), così come le modalità con cui ogni utente deve dare prova di aver effettuato la suddetta ricerca attiva (art. 20, comma 2, lett. e), del decreto citato), nonché l’impegno a partecipare a laboratori, ossia a quei momenti formativi che si pongono come momento di aiuto concreto per tutti coloro che non hanno mai, ad es., preparato un curriculum vitae o non conoscono le tecniche di presentazione ai colloqui di lavoro (le c.d. tecniche di soft skills), nonché a partecipare ai percorsi di riqualificazione proposti dal Centro per l’Impiego in base all’esigenza dell’utente e, altresì, ad accettare offerte congrue, secondo la definizione dell’art. 25 del decreto in esame (art. 20, comma 3, lett. a), b) e c).
Il Patto di cui trattasi assumerebbe, pertanto, la funzione giuridica costitutiva dello status di disoccupato di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 150/2015: difatti, se la DID resa telematicamente non viene subito “confermata” dalla sottoscrizione del patto di servizio, l’utente decade dai benefici connessi al suddetto status[22].
In altre parole, tale Patto rappresenta un documento di sintesi dove l’utente, a fronte della richiesta di essere preso in carico dal Centro per l’Impiego, si impegna a svolgere una serie di attività volte a “ricompensare” l’accompagnamento al lavoro e consistenti nella manifestazione continua di quella proattività che costituisce il concetto pregnante di tutto il decreto in parola.
Il Patto di Servizio è dunque «personalizzato», secondo l’epigrafe dell’art. 20 dell’esaminando decreto, perché dovrebbe essere elaborato d’accordo con l’utente, inserendo al suo interno tutte quelle attività viste come più opportune al fine di raggiungere l’obiettivo occupazionale. Peraltro, proprio il termine “patto” vorrebbe evocare una nuova dimensione relazionale tra il CpI e l’utente, in una nuova veste fatta di leale e reciproca collaborazione[23].
2.2. Le novità introdotte con il d.l. n. 4/2019
Con il successivo d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla L. 28 marzo 2019, n. 26, il mercato del lavoro italiano ha acquisito poche ulteriori specificazioni, mentre si può dire che ha perlopiù mantenuto intatto il sistema delineato dal d.lgs. n. 150/2015.
Basterà soltanto accennare al fatto che l’istituzione del Reddito di Cittadinanza, avvenuta con il decreto anzidetto, ha rappresentato una delle più importati riforme in tema di ammortizzatori sociali degli ultimi anni tanto che, secondo la definizione fornita dalla legge stessa, rappresenta una «misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro» (art. 1, comma 1, d.l. n. 4/2019). Ossia, di una misura di politica attiva che, analogamente a quanto prevedeva il precedente Reddito di Inclusione (ReI)[24], coinvolge tutto il nucleo familiare, al fine di analizzare in toto le difficoltà della famiglia. Difficoltà che, talvolta, non riguardano esclusivamente l’assenza di occupazione, ma anche bisogni multidisciplinari[25] e che, pertanto, richiedono l’intervento più specifico dei servizi sociali comunali. Per questa ragione, il RdC nasce con l’intento di far propria l’esperienza della precedente misura ReI, mirando ad implementare quei servizi di politica attiva in cui essa aveva fallito, essendo il ReI venuto a classificarsi sostanzialmente come politica passiva di sostegno al reddito.
Invero, per come è stata organizzata la misura del RdC, anche quest’ultima presenta dei profili di matrice essenzialmente assistenzialistica in quanto è stabilito, che in sede di primo colloquio da parte del Centro per l’Impiego, l’operatore individui eventuali cause[26] di esonero o di esclusione che hanno l’effetto, rispettivamente, di sospendere o interromperela presa in carico da parte dei servizi per l’impiego; con la conseguenza che il beneficiario continuerà in modo del tutto passivo a percepire il sussidio economico senza impegnarsi nella ricerca attiva di una nuova occupazione.
A ben vedere, a sommesso parere di chi scrive, a giudicare dalle cause che la legge indica come condizione di esonero o esclusione, si può ritenere che, per un principio di giustizia sociale, per una piccola quota di popolazione destinataria di tale ammortizzatore sociale, lo Stato conceda la possibilità di percepire il sussidio senza pretendere null’altro in cambio, esattamente come accadeva per il ReI prima; vero è, però, che le predette cause di esonero od esclusione non devono essere considerate come una scusante, tipicamente italiana, per ampliare le casistiche di disattivazione dei servizi per l’impiego. L’impegno legislativo dovrebbe essere quello di contenere le suddette ipotesi in una parentesi circoscritta e non facilmente ampliabile, e neppure modificabili a piacimento delle forze politiche di volta in volta al Governo del nostro Paese.
In ciò, comunque, si può ravvisare una novità rispetto al passato: l’RdC può definirsi come una misura più completa rispetto a quelle precedenti che deve essere pur sempre attentamente monitorata nei suoi risvolti sociali, onde evitare che la componente passiva ed assistenzialistica prenda il sopravvento sulla componente attiva su cui, invece, sono riposte ampie aspettative in termini di successi occupazionali.
Giova notare che con la riforma per il RdC è stato compiuto un qualche passo in avanti anche nell’ambito della digitalizzazione dei servizi informatici. È stato, infatti, istituito un duplice sistema informativo con due differenti poli telematici: il primo relativo al coordinamento dei servizi per l’impiego e facente capo all’ANPAL; il secondo, relativo ai bisogni multidisciplinari dei percettori e facenti capo ai servizi comunali. Entrambe le piattaforme sono, poi, unificate dal Sistema Informativo per il Reddito di Cittadinanza, gestito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Si è, pertanto, compiuto uno sforzo ulteriore nella digitalizzazione dei servizi per il lavoro, e ciò in quanto con il decreto in esame si è stabilito un applicativo per la cooperazione informatica tra la piattaforma per il RdC ora citata e i vari applicativi informatici regionali, così che a questi ultimi possano essere trasferiti i dati sui percettori del RdC provenienti da INPS e Ministero del Lavoro. Si tratta di un importante approdo in termini di cooperazione applicativa che non potrà che essere implementata e, soprattutto, ampliata a tutti i settori del mercato del lavoro, in modo unico su tutto il territorio nazionale.
Al decreto-legge istitutivo sul Reddito di Cittadinanza può, infine, essere riconosciuto un altro ulteriore merito, vale a dire quello di aver innalzato il livello della cooperazione tra gli enti locali e, in particolare, con i Comuni. Questi ultimi, infatti, vengono interessati non solo per i già citati servizi sociali comunali, ma anche perché sono tenuti a coinvolgere i beneficiari percettori dell’RdC attraverso l’istituzione di Progetti di Utilità Collettiva (c.d. PUC) ex art. 5, comma 15, del decreto in esame. Tali progetti prevedono la partecipazione dei beneficiari RdC che, avviati dai Centri per l’Impiego ad un percorso di inserimento lavorativo, verranno impiegati per progetti sociali per un monte ore settimanale oscillante tra le otto e le sedici ore complessive. Con ciò si dovrebbe rafforzare la proattività dei beneficiari, oltre che sostenere i comuni nello svolgimento di una serie di attività in passato svolta dalla categoria degli LSU.
Si è intenzionalmente omesso, da ultimo, di trattare dell’assegno di ricollocazione nella presente trattazione e ciò per due ordini di ragioni: innanzitutto, il d.l. n. 4/2019 ha esteso lo strumento di assistenza alla ricerca intensiva a tutti i percettori di RdC, escludendo inspiegabilmente quelli percettori della NaSpi. Con riferimento a quest’ultimo punto, è bene chiarire, poi, che le suddette misure, sebbene differenti quanto a presupposti e finalità, risultano pure compatibili tra loro e quindi percepibili in contemporanea; tuttavia, non sono, com’è logico intuire, tra di loro sempre coincidenti perché non è detto che chi percepisca l’indennità da disoccupazione involontaria si trovi ad avere i requisiti reddituali e patrimoniali idonei per fare richiesta di erogazione del RdC.
Orbene, questa premessa conduce al successivo assunto per cui l’istituto dell’assegno di ricollocazione, che nel suo impianto non è stato modificato dal decreto-legge sul RdC, non è ancora pienamente entrato in funzione in tutte le Regioni italiane; sicché, si rinvia ogni valutazione relativa alla sua concreta applicazione ad un momento successivo, in quanto ad oggi non è possibile fare pronostici sulla qualità dei risultati attesi, posto che la platea dei beneficiari RdC è molto più estesa numericamente rispetto a quella percettrice della NaSpi e, comunque, porta con sé tutti i problemi anzidetti relativi all’assenza di piani effettivi per la riqualificazione dei lavoratori. In altre parole, si pone il problema per cui l’assegno di ricollocazione, erogato in favore degli utenti RdC, rischi di non essere né efficace e né efficiente se prima non verranno create nuove strutture di sostegno per i lavoratori.
3. Distopie con il reale mercato del lavoro vigente dal lato dei lavoratori…
Ambiziosa può, pertanto definirsi il cambiamento delineato nell’ambito del pacchetto di riforme del Jobs Act. È necessario, però, interrogarsi di quanti di quegli intenti che la legge delega del 2014 aveva enunciato hanno, poi, trovato reale applicazione e quali le ragioni che abbiano potuto provocare eventuali distorsioni.
Il fatto che in Italia il mercato del lavoro non stia funzionando come avrebbe dovuto è evidenziato quasi giornalmente dalle statistiche rilevate[27], le cui cause si possono provare a spiegare, in sintesi, con almeno diverse distinte ragioni riguardanti sia i lavoratori che le aziende.
In primis, partendo dal lato dei lavoratori, si può affermare come manchino degli effettivi programmi di reinserimento e/o di riqualificazione dei lavoratori. Ciò in quanto le Regioni non riescono a programmare con efficacia le politiche sul lavoro in grado di condurre a risultati concreti.
Una simile mancanza può essere spiegata partendo dall’introduzione delle due seguenti ragioni: da un lato, è necessario investire in funzionari specializzati nel campo delle politiche attive e, dall’altro lato, è altresì doveroso investire ingenti capitali sul personale dei Centri per l’Impiego. Difatti, da quest’ultimo punto di vista, risulta evidente che il canale dei Centri per l’Impiego, come luogo di incontro della domanda e dell’offerta, fatichi a favorire tale incrocio perché sottodimensionati nel personale e perché ridotti ad operare come centri di lavorazione delle pratiche amministrative.
Si pensi, del resto, al fatto che anche il Patto di Servizio si è oramai ridotto ad un mero adempimento burocratico e amministrativo[28], o addirittura notarile[29], e ciò proprio in quanto il sottodimensionamento dei CpI non consente agli operatori di dare seguito a tutte quelle attività che dovrebbero essere declinate nei confronti dell’utente. Tali attività, finiscono, in sostanza, per rimanere sulla carta e tutta la stragrande maggioranza delle attività dei Centri per l’Impiego si arrestano proprio alla preparazione e alla sottoscrizione del suddetto patto.
Orbene, se, come appare evidente, le Regioni non riescono a sostenere una programmazione ed un’attuazione efficace delle politiche attive, forse queste ultime dovrebbero essere riviste proprio a partire dal riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni. Tanto è vero che, proprio a causa dell’attuale federalismo regionale, il mercato del lavoro italiano non è unico, ma è essenzialmente frammentato secondo i vari modelli di funzionamento delle venti Regioni italiane.
A ciò si aggiunga, con riferimento alla mancata creazione del SIUPL (Sistema Informativo Unico delle Politiche del Lavoro) di cui all’art. 13 del d. lgs. n. 150/2015, come l’Italia, che già paga lo scotto di un sistema costituzionale a base regionalistica, è ulteriormente penalizzata dal fatto di non poter mettere in comunicazione i venti sistemi informativi regionali. Ciò comporta, a ben vedere, che un lavoratore si trovi imbrigliato nel proprio sistema regionale senza sapere quali siano le opportunità esistenti nelle altre regioni anche in tema di organizzazione dei percorsi di reinserimento/riqualificazione[30]; si ha, del pari, che gli operatori dei centri per l’impiego non siano in grado di offrire all’utenza offerte di lavoro esistenti in altre Regioni d’Italia. Si ha, in concreto, una “chiusura” del sistema del mercato del lavoro regionale che porta a non far dialogare tra loro le diverse Regioni, ampliando le differenze, poi, tra quelle “virtuose”, che comunque riescono ad offrire un apprezzabile standard di servizi per l’impiego e quelle che stigmatizzano l’offerta delle proprie prestazioni ad un livello molto più basso. Si ha, chiaramente, una disparità di trattamento tra i lavoratori disoccupati italiani.
Si può, pertanto, affermare che è proprio nel nuovo modello delineato dal Jobs Act, ossia in quello di un neo-centralismo contemperato dalla partecipazione concorrente delle Regioni a Province Autonome, che deve ravvisarsi una delle principali difficoltà di funzionamento del nostro mercato del lavoro.
Anche perché nella pratica si finisce per assistere quasi ad un’inversione dell’impianto costituzionale del riparto delle competenze. Appare chiaro, infatti, che sono le Regioni a trainare le politiche attive e non lo Stato centrale. E ciò, non in quanto vi sia una violazione formale dell’art. 117 Cost., ma in quanto le Regioni, che non riescono a programmare le politiche attive e a metterle veramente in atto nei propri CpI, sostanzialmente finiscono per provocare una paralisi dell’attività dello Stato che, dunque, non può far altro che limitarsi a monitorare i pessimi risultati conseguiti in termini di occupazione. Si dovrebbe, piuttosto, auspicare il ritorno ad un centralismo forte, con uno spostamento della competenza sul mercato del lavoro da quella concorrente attuale, a quella esclusiva dello Stato, come nel passato.
Altro annoso problema collegato allo scollamento attuale tra domanda ed offerta di lavoro riguarda la formazione dei giovani. Questi ultimi, non sono accompagnati nelle proprie scelte formative in corrispondenza delle reali esigenze del mercato del lavoro e questo finisce per tradursi, da un lato, in un’elevata dispersione scolastica che è un fenomeno sociale assolutamente da contrastare; in secondo luogo, si traduce anche nel fatto che i percorsi formativi intrapresi dai giovani sono privi di ogni collegamento con il successivo mercato del lavoro in cui saranno chiamati ad operare, con la conseguenza che le aziende non riescono ad oggi a trovare le figure professionali di proprio interesse.
Un’eccezione, in tal senso, è costituita, invero, dagli ITS, ossia dagli Istituti Tecnici Superiori che si pongono come percorso alternativo alle università e, dunque, sono validi per chi ha già conseguito un diploma. Questi Istituti, presentando l’indubbio vantaggio di essere costituiti da fondazioni o comunque da aggregati di imprese che investono sulla formazione dei giovani in settore altamente tecnici e specializzati, provocano un impatto positivo sull’occupazione. Essi rappresentano il concreto accompagnamento al lavoro che sui giovani dovrebbe essere effettuato fin dalle scuole secondarie superiori per evitare l’abbandono scolastico.
Da ultimo, non si può tacere il fatto che il regime della condizionalità, seppur valore centrale del decreto in esame[31], inteso come contraltare della proattività dell’utente beneficiario di ammortizzatori sociali, non abbia ancora oggi trovato piena attuazione, anche a causa dell’inerzia delle Regioni che sono responsabili della sua messa in esecuzione. In generale, si può notare una certa ritrosia ad attuarlo e di tale apparente difficoltà non vi sono ragioni ancora chiare sul punto. Certo è che l’applicazione rigorosa di un siffatto principio potrebbe avere anche una finalità educativa[32] su coloro i quali percepiscono i sussidi monetari in modo totalmente passivo e non proattivo. Come si è giustamente affermato[33], con il d.lgs. n. 150/2015 il cittadino ha assunto la duplice veste di titolare di diritti e di doveri nei confronti del mercato del lavoro, anche se, ad oggi, duole ammettere che sembra essere titolare piuttosto soltanto di diritti, ma non di obblighi.
Invero, a parere di chi scrive, la tendenza a far sì che l’utente italiano si passivizzi di fronte alla ricerca attiva del lavoro quando percepisce sussidi statali, va spiegata con un fattore puramente culturale e non nella ragione pura e semplice di godere di un aiuto economico[34] che realmente è sostegno alla povertà assoluta in moltissimi casi; piuttosto, la condizionalità dovrebbe essere intesa nel duplice senso di controbilanciare il diritto all’erogazione di un sussidio con il dovere di ricompensare tale entrata “gratuita” con una ricerca fattiva dal lavoro; dall’altro lato, però, dovrebbe essergli riconosciuta una finalità spiccatamente sanzionatoria e, quindi, educativa, nei confronti della platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali.
Sempre con riferimento al tema della condizionalità, per come oggi dovrebbe essere applicata alla luce del d.l. n. 4/2019 sul RdC in relazione al rifiuto dell’offerta congrua, è bene narrare qual è l’ulteriore distopia che allo stato si sta verificando. In base alla normativa sul RdC, si stabilisce che è possibile rifiutare al massimo fino alla seconda offerta di lavoro congrua; la terza, invece, deve essere accettata, pena la decadenza dal beneficio. Ebbene, ciò che oggi si realizza è che i criteri stabiliti per la formulazione di un’offerta congrua di cui all’art. 25 del d.lgs. n. 150/2015 (per come modificato ed integrato dall’art. 4, comma 9, del d.l. n. 4/2019), appaiono eccessivamente ambiziosi[35] rispetto all’attualità del mercato del lavoro. In altre parole, nella maggior parte dei casi non si riesce a formulare un’offerta che possa definirsi veramente congrua rispetto alle fonti citate, con la conseguenza che le altre offerte di lavoro proposte possono essere liberamente rifiutate dal disoccupato senza alcuna conseguenza sul piano della condizionalità. Viene, di fatto, a mancare il reale strumento deterrente che, nella cultura lavoristica italiana, si rende purtroppo necessario per evitare che i disoccupati percettori di ammortizzatori sociali si allontanino dalla ricerca attiva del lavoro.
Merita anche di essere sottolineato il reale ruolo oggi rivestito dall’ANPAL. Quest’ultima, invero, non riesce a superare effettivamente l’egemonia delle Regioni e si trova allo stesso livello di tali istituzioni, anziché al livello superiore di coordinatrice. La stessa ANPAL non riesce ad affermarsi quale ente super partes garante dei LEP, perché è la stessa Agenzia a doversi coordinare con le Regioni per accedere ai controlli sui sistemi di funzionamento regionale e non il contrario. Invero, le funzioni di tale Agenzia si qualificano come deboli[36], perché, a ben vedere, tale è l’assetto che gli è stato configurato con il decreto delegato in esame e che poteva già all’epoca immaginarsi come tale.
3.1. …e dal lato delle aziende
Un altro problema gravoso che affligge il mercato del lavoro riguarda il mondo delle imprese.
Innanzitutto, emerge già da diverso tempo che le aziende richiedono sempre più frequentemente figure altamente specializzate che, invero, non riescono ad assumere a causa del fatto che le competenze dei lavoratori disoccupati italiani non corrispondono generalmente alla qualità della formazione di cui le imprese necessitano.
Inoltre, e sempre con riferimento alle imprese, si tenga conto del fatto che i salari italiani si stanno rivelando non in grado di sostenere il reale costo della vita e sono soprattutto messi in crisi dalla misura del Reddito di Cittadinanza, che ha provocato l’ulteriore effetto di innalzare il minimo vitale alla soglia massima erogata dal sussidio statale.
A ben vedere, l’inadeguatezza dei salari italiani non dipenderebbe tout court da una tendenza capitalistica ed egemonistica dei datori di lavoro nei confronti dei lavoratori, ma dalle oggettive difficoltà economiche che investono gli operatori economici di questo periodo storico, soffocati dall’eccessivo costo del lavoro. Gravi sono, pertanto, i danni all’economia: in primis, ne subisce svantaggio il lavoratore, perché effettivamente questi finisce per godere di un potere di spesa ben più basso del potere di cui potrebbe disporre se gli venisse corrisposta una retribuzione di valore prossima a quella del salario lordo; in secundis, anche le aziende non ne sono avvantaggiate perché sarebbero più agevolmente messe nelle condizioni di assumere nuovi lavoratori e, di conseguenza, di ampliare la produzione, se potessero permettersi di pagare meno per ogni lavoratore assunto.
In tal senso, la vasta gamma degli incentivi esistenti in Italia (in particolar modo diretti a favorire l’assunzione dei disoccupati del mezzogiorno, delle donne e dei giovani tramite una decontribuzione sugli oneri INPS, ma non sui premi INAIL), non riesce a risollevare il numero delle assunzioni. Di certo, rappresentano un’agevolazione favorevolmente accolta[37] dagli imprenditori, ma che non può diventare il vero motore delle assunzioni sul lavoro perché, di fatto, una volta esaurite le mensilità per legge previste per la fruizione dell’incentivo, l’imprenditore riprende pur sempre a dover sopportare per intero il costo del lavoro dei suoi dipendenti.
Da qui, peraltro, la conseguenza inevitabile di preferire i contratti a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato, i quali sono stati resi molto più fruibili dagli imprenditori a seguito della riforma del Jobs Act e che vengono molto più utilizzati a causa dell’incidenza generalmente più bassa del costo del lavoro. Attraverso questi strumenti, invero, l’imprenditore può gestire meglio i periodi di crisi economica programmando periodi più brevi delle prestazioni lavorative, senza incorrere nel rischio di dover sostenere l’ulteriore costo dell’eventuale licenziamento. Senza sottacere neppure che, d’altro canto, un ricambio continuo di lavoratori non consente di mantenere stabilità all’assetto produttivo, non solo perché ogni nuovo lavoratore deve essere inserito in azienda e fintanto che questi diventa produttivo trascorre un periodo di tempo più o meno lungo per via del normale avviamento del capitale umano; ma anche perché il mercato del lavoro italiano, per come detto, non offre lavoratori in linea con le esigenze delle imprese. Sicché, una volta venuti meno i lavoratori iniziali, l’azienda non è in grado di sostituirli immediatamente con altri lavoratori e neppure può riassumere quelli precedenti perché il Jobs Act lo impedisce espressamente[38]. Si tratta, pertanto, di un triste e infruttuoso circolo vizioso che dovrà essere immediatamente interrotto dal legislatore di prossimo intervento sul mercato del lavoro.
Si sottolinei, inoltre, che il principio della flexisecurity che, di fatto, ha reso in gran parte utilizzabili i contratti di lavoro a tempo determinato, ha provocato uno sfalsamento dei dati sull’occupazione italiana. Invero, i dati mostrano in genere che la maggior parte del numero dei contratti di ultima stipulazione sono tutti riconducibili alla tipologia dei contratti a termine[39]. Si tratta, per la verità, di un effetto positivo del tutto temporaneo ed evanescente, che non potrà riuscire a fondare la vera ripresa economica italiana perché, come noto, il contratto a termine si traduce, per il lavoratore a tempo determinato, in instabilità e nell’assenza di adeguati investimenti personali, a causa del timore della successiva disoccupazione.
4. Il mercato del lavoro in ottica comparata nei principali Paesi europei
Il mercato del lavoro nei Paesi europei più sviluppati ha un denominatore unico ed è rappresentato dalle Agenzie tecniche per il servizi per il lavoro. Ogni Paese europeo risulta dotato di una propria Agenzia “forte”, modello al quale anche l’Italia, come si è visto, voleva avvicinarsi con la creazione dell’ANPAL.
Appare opportuno, pertanto, esaminare il ruolo rivestito da codeste Agenzie; subito dopo si dovrà, invece, analizzare la qualità e la tipologia dei servizi per l’impiego erogati ai cittadini. Soccorreranno in questa esperienza comparata i documenti[40] della linea Studi e Ricerche offerti da Anpal Servizi s.p.a. all’interno della propria sezione di Banca Documentale del Lavoro.
Nel Belgio, il federalismo regionale del Paese si è riflettuto sul riparto delle competenze in tema di politiche per il lavoro[41]. Difatti, le istituzioni che operano nel campo delle suddette politiche sono tre e cioè, innanzitutto lo Stato che è competente ad erogare i sussidi delle politiche passive; seguono le Regioni che, a differenza dell’Italia, sono solamente tre e sono competenti ad erogare le politiche attive; infine, vi sono le Comunità linguistiche tenute ad erogare la formazione. Ebbene, in tale Paese, le Agenzie sono tre, una per ogni territorio regionale[42] e sono rese operative dalla stipulazione dei c.d. contratti di gestione con i propri Ministeri regionali. Trattasi di un equivalente delle nostre convenzioni, stipulate tra Stato e Regioni per assicurare il funzionamento delle nostre PAL in modo coordinato con i principi dello Stato, anche se trattasi, nel nostro caso, di uno strumento meno forte, considerata la nostra forma di governo a base regionalistica e non federalistica come nel caso del Belgio. La caratteristica di tali Agenzie è che esse operano ciascuna come degli enormi Centri per l’Impiego italiani, tuttavia anche con compiti di coordinamento delle altre strutture periferiche.
In altre parole, siamo di fronte ad un sistema che non si è fondato su quello dello sportello unico (one-stop shop) a causa dell’evidente frammentarietà che caratterizza il Belgio; pur tuttavia, le politiche attive funzionano grazie ad un riparto delle competenze che vede nel Servizio Federale per l’Occupazione (paragonabile al nostro Ministero del Lavoro) l’istituzione deputata a programmare unitariamente le politiche per il lavoro, mentre le tre Agenzie riuniscono in sé tutti i poteri necessari per la gestione delle sole politiche attive. L’erogazione di quelle passive spetta, infatti, ad un terzo ente che è l’ONEM (Office national de l’emploi).
In ciò si coglie subito la differenza rispetto all’Italia che pure si caratterizza per un’evidente frammentarietà dei propri sistemi regionali, ma che viene penalizzata proprio a causa della mancanza di un’agenzia che gestisca in modo accentrato tutto il sistema.
Le tre Agenzie, comunque, erogano servizi di accompagnamento al lavoro ed alla formazione, spesso caratterizzati anche dall’erogazione di servizi non convenzionali, come la distribuzione di strumentazioni informatiche per le persone meno abbienti o l’accesso agli asili nido per coloro che sono alla ricerca attiva di lavoro.
In Francia, invece, assistiamo ad una forma di gestione dei servizi per l’impiego che è all’opposto, in quanto fondata sul centralismo[43] di un’unica Agenzia operativa su tutto il territorio nazionale, rappresentata dal Pôle Emploi (PE). La caratteristica più lampante è che essa non solo racchiude in sé tutti i poteri di gestione delle politiche attive, ma anche di quelle passive, proprio perché nata del 2008 dalla fusione tra l’ANPE (Agenzia Nazionale per l’Impiego) e l’ASSEDIC (l’equivalente del nostro INPS)[44]. Il PE, con i suoi 50.000 addetti distribuiti su tutto il territorio nazionale, è, dunque, responsabile dell’organizzazione complessiva relativa all’erogazione di tutte le politiche per il lavoro.
Nell’esperienza francese, i servizi per l’impiego si caratterizzano oltre che per una serie di servizi analoghi a quelli previsti nel nostro Paese (accompagnamento al lavoro, assistenza intensiva, percorsi di formazione, ecc.) anche per l’offerta di supporti psicologici adeguati per chi ne abbia bisogno lungo tutto il percorso di disoccupazione.
Giova notare che in Francia l’erogazione del sussidio statale alla disoccupazione fa generare automaticamente la presa in carico da parte del PE che incomincia con la somministrazione di apposite interviste.
Analogamente, anche in Germania, Stato federale composto dai Land, ritroviamo il modello unico ed accentrato dell’Agenzia BA, che convoglia al suo interno sia servizi di politiche attive, che di erogazione dei sussidi in corrispondenza ai vari ammortizzatori sociali. Trattasi di un ente di diritto pubblico autonomo che attua le politiche per il lavoro nell’ambito dei criteri guida espressi dal Governo federale.
La Germania ha fondato il suo sistema delle politiche dei servizi per l’impiego su due pilastri: la formazione dei giovani, che viene supportata attraverso dei programmi specifici, e la responsabilizzazione di coloro i quali percepiscono il sussidio statale alla proattività nella ricerca del lavoro. Per attuare quest’ultimo principio, la Germania ha rafforzato la qualità dei servizi erogabili dagli operatori, che toccano quasi la soglia di 120.000 dipendenti, prevedendo, ad esempio, che il rapporto one-to-one (operatore-utente) duri ininterrottamente per cinque anni dalla presa in carico, con una proporzione che vede un operatore impegnato ogni 75 giovani disoccupati (under 25) oppure ogni 150 lavoratori di tutte le altre categorie.
Nei Paesi Bassi, il modello di gestione frammentato dei servizi per l’impiego ritorna in auge, perché siamo di fronte ad un’organizzazione a rete caratterizzata dalla presenza di Agenzie locali. Tuttavia, il modello in esame presenta aspetti anche comuni rispetto alle esperienza europee sopra viste: difatti, nel 2009, con la fusione di CWI (Centri per l’Impiego e per il Reddito) e UWV (l’Agenzia di Previdenza Sociale) si è ottenuta la divisione principale che si occupa dei servizi per l’impiego, ossia la UWV WERKbedriif (PES), anch’essa, pertanto, caratterizzata dall’unione tra politiche attive e passive in un unico ente.
L’obiettivo dei Paesi Bassi è quello di far ottenere alle persone disoccupate un lavoro nel più breve tempo possibile e comunque non oltre i sei mesi. Peraltro, l’indennità di disoccupazione non è aperta a tutti, ma occorre aver lavorato almeno 26 settimane nelle 36 settimane precedenti il giorno di disoccupazione. Il sussidio è stato pensato per essere usufruito in un tempo molto breve ed anche il suo ammontare è particolarmente basso, proprio per disincentivare i disoccupati a fare affidamento sull’entrata pubblica.
Nel Regno Unito, invece, rappresentante assoluto del modello del c.d. one stop-shop, ossia dello sportello unico, si ha la presenza di un’Agenzia, il Jobcentre plus, che, ancora una volta, vede ricomprendere sia la funzione di erogatore delle politiche attive che di quelle passive. Si noti, tuttavia, che dal 2011 ha cessato di esistere come Agenzia indipendente ed è confluita in un’area del Dipartimento del Lavoro e delle Pensioni (DWP, l’equivalente del nostro Ministero del Lavoro), soluzione che si vorrebbe adottare attualmente anche per la nostra ANPAL.
Nel Regno Unito, dunque, l’ideologia di fondo è quella che il miglior welfare si ottenga garantendo a tutti un lavoro e non attraverso la percezione dell’indennità di disoccupazione. Si ha, pertanto, la figura del Personal Adviser che segue il disoccupato nell’accompagnamento al lavoro attraverso un percorso personalizzato fatto di incontri e di interviste. Trattasi di quasi 78.000 unità preposte a tale compito in tutto il Paese.
Lo sportello unico inglese si caratterizza per la presenza di due diversi canali tramite cui poter accedere ai suoi servizi: via telefono, il cui strumento si rende necessario per la prenotazione di un appuntamento dal vivo che si ottiene nell’arco massimo di quattro giorni; via web, dove è possibile registrarsi al portale per consulare tutte le offerte di posti vacanti disponibili.
Al termine dell’intervista, si stipula un accordo simile al nostro Patto di Servizio, ossia il Jobseeker’s Agreementfinalizzato all’assunzione degli obblighi specifici da ambo le parti. In tale documento sono altresì calendarizzati gli incontri che devono avere una cadenza quindicinale: l’incontro è volto a verificare le azioni di ricerca attiva del lavoro intraprese dal disoccupato e verificare con il proprio Personal Adviser l’esistenza di posti di lavoro disponibili.
In Spagna, Paese che più di ogni altro assomiglia all’Italia per la presenza delle Regioni, i servizi per il lavoro sono erogati attraverso un sistema misto tra Stato e Regioni, dove il primo è rappresentato dal SEPE (Servizio Pubblico Statale per l’Impiego) e le seconde dalle Comunità Autonome. Il sistema di decentramento multi-livello prevede la partecipazione, anzitutto, del Ministero del Lavoro che è responsabile dell’emanazione delle linee guida nei temi più rilevanti sulle politiche del lavoro; il livello inferiore è rappresentato dal SNE (Servizio nazionale per l’impiego) che ha il compito di gestire in modo unitario i servizi erogati dallo SPEE o SEPE (Servizio pubblico nazionale per l’impiego) e dalle Comunità Autonome.
La Spagna, esperienza che merita di essere osservata con attenzione per la vicinanza al nostro mercato del lavoro, ha trasferito negli ultimi anni ingenti quantità di risorse agli enti locali. Sono state rafforzate, in particolare, le modalità per il favorimento dell’incrocio tra la domanda e l’offerta attraverso la creazione di un polo apposito, il Punto de Encuentro de Empleo, un portale gratuito dove il cittadino può consultare le offerte disponibili che gli vengono anche comunicate per sms non appena se ne aggiungono di nuove. Si sottolinei, tuttavia, come anche in Spagna, al pari dell’Italia con i suoi 9.000 addetti, non vi sia un numero adeguato di operatori, con una cifra che supera di poco le 10.000 unità, a fronte di una popolazione di quasi 47 milioni di persone.
Peculiare è, poi, l’esperienza svedese, che esprime massimamente il principio europeo di flexisecurity per il tramite della sua Agenzia nazionale, la Arbetsförmedlingen, in quanto l’obiettivo primario che persegue è quello di far sì che tutti abbiano un’occupazione. In ragione di tale politica, gli operatori di tale Agenzia lavorano costantemente per la ricerca di posti vacanti, in specie quelli non evidenziati dai datori di lavoro con cui comunque l’Agenzia intesse i propri rapporti costantemente. A tal fine sono promosse fiere per il reclutamento, anche a livello internazionale.
In sé, tale Agenzia ha l’ulteriore vantaggio di offrire anche percorsi di formazione che possono, pertanto, essere messi subito a disposizione dell’utenza. Peraltro, colpisce notevolmente che in Svezia l’utente sia supportato dall’operatore che realmente lo prende in carico e gli offre assistenza, anche per telefono, persino nei weekend e nelle ore serali.
Il punto in comune tra tutti i Paesi analizzati, è che, a prescindere dal modello utilizzato (di centralismo o di decentramento delle funzioni amministrative), comunque hanno deciso di istituire un’Agenzia “forte” a cui fare riferimento per l’erogazione delle politiche attive. Generalmente si può notare anche l’unione tra le politiche attive e quelle passive, anche se ciò non costituisce una regola unica e non sembra essere il fattore determinante caratterizzante l’effettivo funzionamento del mercato del lavoro, per come tipicamente avviene in Belgio, che si caratterizza sia per le tre Agenzie che per l’affidamento delle politiche passive ad un altro differente ente pubblico.
5. Quale il miglior modello da applicare al mercato del lavoro italiano?
Alla luce di tale analisi comparata con il funzionamento del mercato del lavoro negli altri Paesi europei, è ora possibile cercare di tracciare una sintesi, provando ad individuare a quale modello l’Italia potrebbe ispirarsi per un ulteriore intervento migliorativo sul tema delle politiche attive del lavoro.
Vi è da porre molta attenzione al tema del modello più adattabile al nostro Paese, dato che, per come giustamente osservato[45], sebbene quello più utilizzato nei Paesi europei più virtuosi è tipicamente quello della “struttura nazionale a rete”, si è già visto come essa non sia appropriata per il nostro federalismo regionale. Invero, se il decentramento delle funzioni amministrative può essere una valida soluzione per quei Paesi con uffici periferici efficienti, non può invece ritenersi parimenti efficace rispetto ad altri tipi di Paesi meno strutturati nelle periferie[46].
Si può dire che questo è proprio il caso dell’Italia: essa ha dal 2001, con la riforma del Titolo V della Costituzione, sperimentato la via del federalismo su base regionale e si è visto che tale frazionamento provoca inefficienze in alcune Regioni, accentuando il divario tra Nord e Sud e provocando scompensi nella fruizione di diritti tra i cittadini italiani.
Vi è da dire che nel 2015 si è forse persa l’occasione di adibire l’ANPAL con una identità e una funzione molto più forte di quella rivestita attualmente, potendo potenzialmente la stessa arrivare ad acquisire la forma del modello a sportello unico, c.d. one-stop shop, già utilizzato dagli altri Paesi europei, per come una certa dottrina aveva ritenuto[47].
Non vi è dubbio che quanto esposto finora dovrebbe portare a concludere necessariamente che un mercato del lavoro frazionato tra le venti regioni italiane e per nulla coordinato sotto l’egida di ANPAL e del Ministero del Lavoro dovrebbe far propendere per un ritorno al modello centrale delle politiche attive e passive, eventualmente convogliando queste ultime in un unico modello di governance, come si è visto accadere per quei Paesi europei dove le PAL sono più sviluppate.
Comunque, a latere delle discussioni su un riparto più efficace delle competenze tra enti istituzionali centrali e regionali, non ci si dovrebbe dimenticare che il mercato del lavoro è un flusso di intermediazione che deve incentrarsi sulla cura della persona[48]. La vera presa in carico delle persone deve essere fatta anche attraverso un coinvolgimento attivo dell’individuo il quale va, dunque, sostenuto anche nella sua sofferenza psicologica causata dall’assenza di lavoro; assenza che, come è tristemente noto, in Italia spesso si protrae per lunghissimi anni e che per di più passa attraverso la piaga del lavoro nero. Del resto, la cura psicologica della persona si è vista praticare sia in Belgio che in Francia.
Quel che sembra più che evidente, inoltre, a parere di chi scrive, è che agli utenti italiani serva semplificare le procedure amministrative e serva avere chiaro a quale ente fare riferimento nella propria ricerca del lavoro. Sicchè, sarebbe opportuno ridurre tutti quegli enti che, a vario titolo, partecipano alla Rete e condensare le diverse funzioni che pure sono ben rappresentate (accompagnamento al lavoro; formazione; erogazione della politica passiva; ecc.) all’interno di un unico ente (analogamente ai modelli europei), ordinatamente organizzato su vari dipartimenti amministrativi, ciascuno con un proprio vertice dirigenziale. In tal modo, sembrerebbe raggiungibile un più efficace coordinamento tra i settori che compongono i molteplici ambiti di intervento. Inoltre, attraverso questa struttura non si porrebbe neppure il problema della condivisione di informazioni relative al fascicolo personalizzato del lavoratore, dato che titolare del trattamento sulla privacy sarebbe sempre e solo un ente, superando, altresì, quelle oggettive difficoltà in merito alla digitalizzazione che il nostro Paese continuamente incontra e che solo la pandemia sembra avere parzialmente arginato.
In altre parole, i problemi, tipicamente italiani, da dover superare per ambire a risultati migliori nelle politiche attive italiane dei prossimi anni dovrebbero essere i seguenti: innanzitutto, e per come già detto, diminuire i processi burocratici, ma anche e soprattutto, smettere di impostare le politiche attive a partire dalla compilazione di moduli e carte in attività essenzialmente amministrative, fine a se stesse; da qui, tornare a mettere al centro la persona, con i suoi reali bisogni, garantendole quella personalizzazione del percorso di crescita che ad oggi viene sostituito da calcoli automatizzati del profiling qualitativo.
In secondo luogo, migliorare la capacità della gestione della cosa pubblica[49], ponendo al vertice degli enti persone sempre più preparate ad affrontare la macchina amministrativa che, al contempo, deve essere resa efficace ed efficiente con strumenti più semplici ed adeguati alla sfida che l’Italia si deve apprestare a compiere.
La soluzione finale potrebbe, dunque, consistere nel riscrivere totalmente le funzioni dell’ANPAL per condurla al modello di Agenzia “forte”, unica ed accentrata nella gestione delle politiche attive, come avviene negli altri Paesi europei; tutto il contrario, dunque, dell’attuale progetto di riforma che vorrebbe condurre l’ANPAL al di sotto del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per sopprimerne l’autonomia a causa dei risultati non soddisfacenti. Giustamente, già all’epoca dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 150/2015, era stata sostenuta[50] l’inadeguatezza dell’ANPAL per come predisposta e la necessità di attrarre nelle sue attribuzioni anche le competenze regionali in termini di formazione, così come l’erogazione del sussidio economico, oggi di competenza dell’INPS.
Ciò che allo stato va segnalato è che dovrà subito essere affrontato il tema del sottodimensionamento dei Centri per l’Impiego, dovendo sviscerare, a parere di chi scrive, due distinte questioni: la prima è quella di capire che fine farà la governance dei CpI, ossia di valutare se essi dovranno restare sotto la regia delle Regioni o se, piuttosto, sia possibile ipotizzare, come sarebbe preferibile, che essi vengano trasformati in uffici periferici del Ministero del Lavoro. Un ritorno al centralismo statale delle politiche attive sarebbe auspicabile, dato che le Regioni hanno dato prova di procedere ognuna a velocità diverse e di non offrire su tutto il territorio nazionale una qualità accettabile dei servizi. Tuttavia, si dovrebbe provare a far tesoro dell’esperienza privata che ha caratterizzato questi ultimi anni, cercando di integrare la loro partecipazione con modelli sicuramente più competitivi rispetto ai servizi statali, ma favorendo un parternariato[51] dove vi sia uno scambio continuo di informazioni e di schemi di erogazione delle politiche attive più adeguati. Dunque, ipotizzare un sistema accentrato nelle mani dello Stato, interamente pubblico, ma comunque integrato dalla partecipazione dei privati sarebbe la soluzione preferibile. A questi ultimi, peraltro, si dovrebbero demandare le uniche e sole competenze ad essi riconoscibile: l’intermediazione e il favorimento dell’incrocio domanda-offerta di lavoro e l’approntamento di corsi di formazione integrativi.
È, altresì, essenziale fortificare il servizio IDO, quello di incrocio tra la domanda e l’offerta di lavoro e ciò potrà esser fatto attraverso delle campagne ad hoc di attrazione verso coloro che rappresentano il vero motore dell’economia, ossia le imprese. Senza un contatto costante, proficuo e collaborativo con le imprese, i CpI continueranno sempre e solo a limitarsi a profilazioni dei beneficiari, ma senza offire in cambio delle offerte di lavoro.
Da qui, si palesa l’ulteriore necessità di impiegare all’interno dei CpI del personale che si occupi esclusivamente delle imprese, dedicando loro costante attenzione, sia relativamente per ciò che concerne l’andamento del mercato del lavoro sulle ultime tendenze dei profili professionali più richiesti, sia per ciò che concerne il supporto ad un risparmio di spesa sui costi del lavoro, realizzabile sia attraverso la proposizione di incentivi ad hoc (elaborati in coerenza con gli ammortizzatori sociali), sia in relazione alle formule contrattuali più indicate.
Non si dovrebbe dimenticare anche l’aspetto formativo che pure, ad oggi, va implementato attraverso del personale qualificato che si occupi di curare ed organizzare l’offerta formativa tanto pubblica (delle università, dei corsi regionali, dei CPIA, ecc.), quanto privata (da parte delle agenzie interinali o degli ITS). Parallelamente ad un rafforzamento di tale servizio nei CpI, lo Stato dovrebbe mettere in campo una strategia di riallineamento delle offerte formative statali (di scuole ed università) con il mercato del lavoro, così che al termine del percorso di istruzione la persona sia già messa in grado di operare delle scelte consapevoli sulla propria carriera; ai CpI, del resto, non può essere chiesto lo sforzo, veramente immane, di sopperire alle grosse lacune formative che oggi si riscontrano nel bacino dei disoccupati.
Tutti questi servizi potenziati, infine, dovrebbero essere messi in comunicazione all’interno dello stesso ufficio, il Centro per l’Impiego, in una veste completamente ridisegnata. In una visione ideale delle PAL, i Centri per l’Impiego dovrebbero essere messi in grado di prendere realmente in carico le esigenze dei lavoratori, proponendo a tal fine la creazione di vere e proprie equipe multidisciplinari che riuniscano in sé un rappresentante dei vari settori anzidetti al fine di individuare i bisogni dei lavoratori e di proporre le soluzioni più efficaci. Un servizio più completo e razionale che dovrà, inevitabilmente, essere affiancato a quello reso dai privati, a causa dell’evidente sforzo di non poter trattare in modo accurato la platea dei disoccupati che si è enormemente accumulata negli anni.
6. In conclusione: il fallimento italiano della flexisecurity?
A sei anni dall’introduzione del decreto delegato n. 150/2015 e a seguito del periodo pandemico che ha ancora più messo in crisi il mercato del lavoro italiano, è possibile trarre delle conclusioni rispetto al principio di provenienza europea, quello della flexisecurity, che ha ispirato l’intero pacchetto di riforme del Jobs Act nel 2015.
Che il principio della flexisecurity sia, invero, un principio da riqualificare o da reinventare non v’è dubbio e di questo se n’è dato ampio riscontro lungo tutto l’arco della trattazione.
La sintesi più evidente di quanto finora esposto è che il tentativo di dare attuazione, nel nostro Paese, al principio della flexisecurity ha finito per creare un eccessivo squilibrio all’interno del mercato del lavoro[52]. Come giustamente è stato notato[53], in Italia, con l’introduzione della suddetta strategia si è assistito ad una trasmigrazione dal principio di job protection, incentrato sulle tutele riservate al lavoratore di cui questi ne godeva in modo del tutto passivo, a quello di flexisecurity, dove le tutele giuslavoristiche (intese anche come accompagnamento al lavoro) vengono garantite, ma in cambio richiedono un comportamento proattivo del lavoratore. In altre parole, con l’introduzione del concetto in parola si è accentuato il rischio che la flexisecurity all’italiana si potesse tradurre in quel favor volto ad aumentare, certamente, le tutele nel mercato del lavoro, ma, per converso, a ridurre i diritti contrattuali dei lavoratori[54], sol perché ci si è avvalsi del pretesto di dover aumentare la flessibilità dei lavoratori nel mercato.
Il mutato quadro dei diritti dei lavoratori al mantenimento del lavoro a tempo indeterminato (in specie per ciò che concerne la diversa disciplina del recesso) ha comunque reso favorevole l’introduzione del principio di matrice europeistica, in quanto destinato a sostituire, nell’ottica del legislatore europeo, proprio il concetto di immobilismo dei lavoratori e a garantire un’uscita ed un ingresso continuo – e, appunto, flessibile – nel mercato del lavoro[55].
Tuttavia, per come si è potuto notare, il Jobs Act è stato piuttosto efficace nel creare una disciplina ad hoc per ridurre le tutele alla conservazione del posto di lavoro, mentre non ha controbilanciato la riduzione delle tutele sul contratto individuale con la creazione di un mercato del lavoro più forte. Pertanto, in Italia assistiamo, in questo momento, ad un completo sbilanciamento tutto a sfavore dei lavoratori, i quali se perdono il proprio posto di lavoro (perché si esaurisce il termine fissato inizialmente e/o se non vi è alcuna proroga o, ancora, se vengono licenziati senza reintegrazione del posto di lavoro), non sono messi nelle condizioni di passare ad una nuova occupazione. Pertanto, può affermarsi che una riduzione delle tutele del rapporto di lavoro individuale, senza un miglioramento del mercato del lavoro, rappresenta evidentemente un fallimento della riforma del 2015.
Se di totale fallimento della flexisecurity si deve parlare, allora si deve anche prendere in considerazione l’ulteriore errore di valutazione di questa strategia relativamente alla mancata tutela nei confronti delle imprese. Ma – si badi bene – questa è una critica rivolta esclusivamente al modo in cui il legislatore italiano ha trasmigrato questa strategia di occupazione nel nostro Paese, non all’iniziativa europea in sé. In Italia, invero, a sommesso parere di chi scrive, non si può parlare di potenziamento dell’occupazione se prima non si parte dalle fondamenta e, cioè, se prima non si riduce il drammatico costo del lavoro che attanaglia gli imprenditori. Questi costi sono oramai delle vere e proprie piaghe sociali che non consentono alle imprese di effettuare gli opportuni investimenti per ampliare il proprio processo produttivo; né, ovviamente, consentono di investire sul capitale umano, creando nuovi posti di lavoro.
Una tutela realmente efficace del diritto all’occupazione dovrebbe, pertanto, partite, a monte, dalla tutela primaria di coloro che i posti di lavoro li devono offrire. Nella strategia di flexisecurity per come attuata dal legislatore italiano, invece, si è omesso di considerare l’aspetto del costo del lavoro. Ci si è concentrati solo sul creare un sistema di riduzione delle tutele in uscita dal mercato del lavoro, senza poi considerare gli incentivi alle imprese ed una riduzione del loro costo del lavoro per favorire il reingresso nel mercato.
In definitiva, la flexisecurity italiana dovrà, probabilmente, essere rivalutata alla luce dell’attuale andamento del mercato del lavoro. Ci si attende che le risorse stanziate dal recovery plan[56] possano rappresentare il fondamentale cambio di rotta affinché si cominci a pensare che gli investimenti sulle politiche attive del lavoro debbano costituire il futuro dell’economia del Paese.
[1] Cfr. Casano L., La riforma del mercato del lavoro nel contesto della “nuova geografia del lavoro”, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc. 3, 1 settembre 2017, p. 634; cfr. Valente L., La riforma dei servizi per il mercato del lavoro, Milano, Giuffré Editore, 2016, pp. 216-218.
[2] Cfr. la Comunicazione della Commissione europea del 27.06.2007 di cui d’appresso si dirà.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. Casano L., op. cit.
[6] L’odierno mercato del lavoro è frutto di una lunga evoluzione avviata a partire dal secondo dopoguerra con la L. 29 aprile 1949, n. 264, che accentrava nello Stato tutti i poteri relativi al collocamento pubblico; si è passati, poi, attraverso una fase intermedia di totale affidamento alle Regioni delle suddette funzioni pubbliche nel periodo che va dal d.lgs. 23 dicembre 1997, n. 469 fino al d.lgs. n. 10 settembre 2003, n. 276; per poi, infine, con il d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150, attenuare il decentramento delle funzioni e conciliare tutte le attività e funzioni inerenti all’occupazione in un sistema a partecipazione degli enti sia centrale, che periferica, sia pubblica che privata. La ricostruzione a tre tappe dell’evoluzione del mercato del lavoro è merito di Sartori A., Commento al D.Lgs. n. 150/2015, in Codice commentato del Lavoro, Wolters Kluwer, Milano, 2020, p. 3028 e ss.
[7] Si definisce il soggetto inoccupato colui che «senza aver precedentemente svolto un’attività lavorativa, siano alla ricerca di un’occupazione da più di dodici mesi o da più di sei mesi se giovani» di cui all’art. 1, comma 2, lett. e), del d.lgs. 21 aprile 2000, n. 81. In concreto, rientra in tale definizione chiunque non abbia mai avuto un lavoro e si badi bene che, agli occhi dei servizi per l’impiego, per tale si intende anche chi non ha mai avuto un lavoro regolare con contratto.
Invece, per la nozione di disoccupazione si veda l’art. 19 del d.lgs. n. 150/2015, di cui più in avanti si dirà.
[8] Trattasi dell’ANPAL, Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, secondo la denominazione che assumerà nel successivo decreto delegato n. 150/2015, già citato, all’art. 1, comma 2, lett. a).
[9] Cfr. Pirrone S., Sestito P., Mercato del lavoro, sistemi di protezione sociale, libertà di iniziativa economica privata. Dal collocamento pubblico ai servizi per l’impiego: dieci anni di evoluzione normativa per una riforma incompiuta, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc.3, 2006, pag. 611.
[10] La citata sentenza ha portato ai seguenti approdi in termini di esegesi costituzionali: secondo la Corte, lo Stato ha, innanzitutto, competenza esclusiva in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» di cui all’art. 117 Cost., comma 2, lett. m); così come, la definizione della disciplina del rapporto di lavoro individuale pure rientrerebbe nella competenza esclusiva dello Stato in quanto attinente alle materie de «l’ordinamento civile» di cui all’art. 117 Cost., comma 2, lett. l). Precisa la Corte, poi, che la disciplina del mercato del lavoro, su cui le Regioni hanno competenza concorrente, va coordinata con i principi e criteri direttivi dello Stato tra cui, senz’altro, vi rientrano la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che sono, invece, competenza esclusiva dello Stato, cfr. per un più ampio commento alla sentenza in esame, Ferraresi M., Lavoro e federalismo: il confronto tra Stato e regioni dopo la sentenza 50/2005, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc.4, 2005, pag. 1064.
[11] Cfr. Valente L., op. cit., p. 54.
[12] Cfr. Vergari S., Verso il sistema unitario dei servizi per il lavoro, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.3, 1 settembre 2017, pag. 477.
[13] Ibidem.
[14] Si tratta dei c.d. NEET: “neither in employment or in education or in training”.
[15] Si precisa che l’indennità di anzianità deve essere oggi calcolata alla luce dei criteri opportunamente individuati dalla sentenza della Corte costituzionale dell’8 novembre 2018, n. 194.
[16] Ibidem.
[17] Ai sensi dell’art. 19, comma 1, del decreto in esame «sono considerati disoccupati i soggetti privi di impiego che dichiarano, in forma telematica, al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro di cui all’articolo 13, la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego». In altre parole, essenziale per acquisire lo status di disoccupato è che l’utente renda la c.d. DID, la Dichiarazione di Immediata Disponibilità, con cui dichiara di essere attualmente privo di impiego e di essere, altresì, disponibile ad occuparsi fin da subito in caso di eventuali offerte di lavoro da parte del Centro per l’Impiego (cfr. anche Circolare Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 23/12/2015 – n. 34).
Lo status di disoccupato resta, invece, sospeso in caso di rapporto di lavoro fino a sei mesi (art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 150/2015), il che significa che in caso di cessazione del rapporto di lavoro prima di tale termine, lo status predetto si “rispande”; nell’arco dei sei mesi, invece, tale status si “conserva”, con evidente beneficio in termini di “anzianità” della disoccupazione, anche se, ovviamente, durante il termine di sospensione non sarà possibile esercitare i diritti connessi a tale status.
Con il decreto istitutivo del Reddito di Cittadinanza, invece, lo status di disoccupato si evolve ai fini del decreto sul Rdc e per ogni altro fine, definitivamente coincidendo anche con quei lavoratori «il cui reddito da lavoro dipendente o autonomo corrisponde a un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’articolo 13 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917», ex art. 4, comma 15-quater, del decreto legge in esame. Ciò significa che allo status delineato dall’art. 19 del d.lgs. n. 150/2015, si aggiunge quello ora definito dal decreto-legge istitutivo del RdC. In definitiva, disoccupato è sia colui che, privo di impiego, rende la DID ai servizi telematici e sia colui che, pur lavorando, sia titolare di un rapporto sotto-soglia in quanto guadagni una retribuzione lorda inferiore ad euro 8.145,00 per i rapporti subordinati a tempo indeterminato/determinato, ovvero guadagni al di sotto di euro 4.800,00 per i lavori autonomi.
Per un inquadramento più preciso dello status di disoccupato e della relativa conservazione, si veda la circolare Anpal n. 1/2019 che, attraverso l’uso di esempi esplicativi, ha chiarito le modalità di mantenimento dello stato di disoccupazione in riferimento alle varie tipologie di occupazione rinvenibili oggi nella legislazione giuslavoristica, siano esse di tipo subordinate che autonome.
Il nuovo status di disoccupato, si noti, viene sostanzialmente a coincidere con quello della L. n. 181/2000, oggi abrogata, ed è, a parere di chi scrive, ampiamente preferibile rispetto a quello delineato in modo più semplicistico dal d. lgs. n. 150/2015. Invero, non soltanto coloro che non hanno mai lavorato con contratto regolare o che sono privi di impiego meritano la giusta attenzione da parte dei servizi per l’impiego, ma anche coloro che sono titolari di rapporti di lavoro sotto-soglia i cui redditi sono stati già legittimamente presi in considerazione dal decreto sul Reddito di Cittadinanza, che, peraltro, integra le entrate familiari a concorrenza del raggiungimento della soglia ISEE di euro 9.360,00.
[18] Si pensi, ad esempio, che, al fine di arginare il rischio di rimanere senza occupazione, per coloro che ricevono la lettera di preavviso di licenziamento possono già anticipare la propria presa in carico da parte dei servizi per l’impiego rendendo la DID e acquisendo immediatamente lo status di disoccupato (art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 150/2015). Si badi bene, però, che manca nella disposizione normativa il riferimento a tutti coloro che si trovano in prossimità della scadenza del termine nei contratti a tempo determinato, che pure andrebbero assimilati a coloro che si trovano a rischio di perdere la propria occupazione. Invero, anche a questi soggetti viene corrisposta la NASPi perché sono considerati lavoratori che hanno perso il proprio rapporto di lavoro per ragioni non dipendenti dalla loro volontà. Non si capisce, pertanto, perché anche a questa platea di utenza non dovrebbe essere esteso il vantaggio ora descritto dalla norma in esame.
[19] Il patto di servizio è stato definito come la «porta d’accesso alle politiche attive», in Valente L., op. cit., p. 120.
[20] Giustamente in dottrina è stato fatto notare che trattasi di un patto che ha solo la veste formale di un “contratto”, mentre è sostanzialmente uno strumento autoritativo che sottrae all’utente ogni possibilità di negoziare il suo contenuto, cfr. Valente L., op. cit., pp. 120-124.
[21] Il Patto per il Lavoro è il nuovo accordo che deve essere sottoscritto dagli utenti e dai Centri per l’Impiego in base all’art. 4, comma 7, del D.L. n. 4/2019. Rispetto al Patto di Servizio se ne differenzia non tanto per il contenuto, dato che anche la norma ora citata espressamente afferma che esso equivale al patto di servizio personalizzato di cui all’art. 20 del d.lgs. n. 150/2015, quanto per la maggiore incisività e la maggiore chiarezza lessicale con cui dovrebbero essere riscritti gli obblighi per gli utenti dei CpI. Sebbene la normativa sul RdC stabilisca che il PpL sia il nuovo accordo valido ai fini della nuova misura di politica attiva e valida per ogni altro fine, ad oggi i CpI continuano ad usare il vecchio schema di patto di servizio, in quanto non è stato ancora emanato il decreto del Ministero del Lavoro contenente il modello del PpL in parola.
[22] Cfr. Valente L., op. cit., p. 106.
[23] Cfr. Caruso S.B., Cuttone M., Verso il diritto del lavoro della responsabilità: il contratto di ricollocazione tra Europa, Stato e Regioni, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc.1, 1 marzo 2016, pag. 63.
[24] Si tratta del Reddito di Inclusione di cui al d.lgs. n. 147/2017, antesignano dell’odierno Reddito di Cittadinanza, che oggi è stato completamente abrogato a seguito dell’introduzione della nuova misura di politica attiva.
[25] L’art. 1, comma 1, del decreto in esame, qualifica il RdC non soltanto come misura fondamentale nei riguardi del lavoro, ma anche come misura fondamentale «di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro». I beneficiari, in sostanza, vengono presi in carico dai servizi per l’impiego per un accompagnamento al lavoro ovvero, quando gli operatori del CpI, che sono i primi tenuti a convocarli, ravvisano nei percettori un bisogno complesso, (dovuto, ad es. all’assenza di un alloggio adeguato, a problemi di tossicodipendenza o di alcolismo), li affidano ai servizi sociali dei comuni di residenza, i quali faranno sottoscrivere il Patto di Inclusione sociale.
[26] Sono cause di esclusioni le casistiche di seguito indicate: «sono esclusi dai medesimi obblighi i beneficiari della Pensione di cittadinanza ovvero i beneficiari del Rdc titolari di pensione diretta o comunque di età pari o superiore a 65 anni, nonché i componenti con disabilità, come definita ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68, fatta salva ogni iniziativa di collocamento mirato e i conseguenti obblighi ai sensi della medesima disciplina. I componenti con disabilità possono manifestare la loro disponibilità al lavoro ed essere destinatari di offerte di lavoro alle condizioni, con le percentuali e con le tutele previste dalla legge 12 marzo 1999, n. 68», di cui all’art. 4, comma 2, seconda parte, del decreto sul RdC.
Invece, sono cause di esonero le ipotesi d’appresso riportate: «possono altresì essere esonerati dagli obblighi connessi alla fruizione del Rdc, i componenti con carichi di cura, valutati con riferimento alla presenza di soggetti minori di tre anni di età ovvero di componenti il nucleo familiare con disabilità grave o non autosufficienza, come definiti a fini ISEE, nonché i lavoratori di cui al comma 15-quater e coloro che frequentano corsi di formazione, oltre a ulteriori fattispecie identificate in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Al fine di assicurare omogeneità di trattamento, sono definiti, con accordo in sede di Conferenza Unificata, principi e criteri generali da adottarsi da parte dei servizi competenti in sede di valutazione degli esoneri di cui al presente comma, anche all’esito del primo periodo di applicazione del Rdc. I componenti con i predetti carichi di cura sono comunque esclusi dagli obblighi di cui al comma 15», di cui all’art. 4, comma 3, del decreto in esame, per come successivamente integrato dalle ulteriori ipotesi disciplinate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano dell’1 agosto 2019.
[27] Per avere un dato di riferimento, si considerino le seguenti rilevazioni: nell’anno 2019 si sono effettuate nuove attivazioni di rapporti di lavoro per un totale di 13,2 milioni di contratti; di questi, il 68,2% del totale è rappresentato da rapporti a tempo determinato. Invece, nel 2020, anno centrale della pandemia, le nuove attivazioni hanno riguardato il numero complessivo di nuovi 10,5 milioni di contratti, di cui il 68,4% a tempo determinato. Evidente, dunque, è nel nostro Paese la larga preferenza del contratto a termine da parte degli imprenditori, cfr. Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie 2020 e Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie 2021, entrambi del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
[28] Si tratta di un rischio già evidenziato nel 2017 da taluna parte della dottrina che già aveva previsto la possibilità che, a causa dell’aumento eccessivo degli oneri burocratici, i CpI potessero ridursi a meri “bracci amministrativi” delle Regioni, cfr. Vergari S., op. cit..
[29] Cfr. Caruso S.B.; Cuttone M., op. cit.
[30] Secondo taluni autori, il suddetto sistema informativo avrebbe anche la funzione di valorizzare il cittadino, per farlo sentire parte di un “tutto”, in collegamento non solo con la propria Provincia o Regione di appartenenza, ma anche con lo Stato e le altre restanti regioni, cfr. Vergari S., op. cit.
[31] Cfr. Vergari S., op. cit.
[32] In tal senso anche Martone M., Il Reddito di Cittadinanza. Una grande utopia, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.3, 1 settembre 2017, pag. 409.
[33] Cfr. Vergari S., op. cit.
[34] Cfr. Valente L., Contrasto alla povertà e promozione del lavoro tra buoni propositi e vecchi vizi, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc. 4, 1 dicembre 2018, p. 1081.
[35] Un’offerta può definirsi congrua quando rispetti per i beneficiari del Reddito di Cittadinanza i seguenti criteri: a) coerenza con la formazione del lavoratore e le esperienze maturate; b) distanza dal domicilio che, nei primi dodici mesi di fruizione del beneficio, è rappresentata da 100 km dal domicilio se trattasi di prima offerta congrua (o 100 minuti di mezzi pubblici), o di 250 km di distanza dal domicilio se trattasi di prima offerta successiva ai dodici mesi di fruizione della misure o di seconda offerta congrua, o su tutto il territorio nazionale nella terza offerta (in caso di rinnovo è congrua l’offerta effettuata su tutto il territorio nazionale); c) durata della disoccupazione; d) retribuzione superiore ad almeno il 10% in più rispetto alla misura massima fruibile in base al sussidio per ogni beneficiario del RdC, cfr. lettura combinata dell’art. 25 del d.lgs. n. 150/2015 e dell’art. 4, comma 9, del d.l. n. 4/2019.
[36] Cfr. Sartori A., Commento al D. Lgs. n. 150/2015, op. cit.; cfr. Sartori A., Il Jobs Act e la riforma dei servizi per l’impiego in Italia: finalmente la svolta nel solco dell’Europa?”, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2016, fasc. 1, pp. 19 e ss.
[37] Si rinvia ai dati contenuti nella nota n. 28.
[38] Si vedano gli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 81/2015, rispettivamente, in tema di proroghe e rinnovi del contratto a tempo determinato, nonché in tema di continuazione del rapporto di lavoro oltre la scadenza del termine.
[39] Si rinvia ai dati contenuti nella nota n. 27.
[40] I documenti a cui si fa riferimento sono: Il Ruolo delle Agenzie Tecniche in Europa, a cura dello Staff di Statistica Studi e Ricerche sul Mercato del Lavoro – SSRMdL, in Banca Documentale del Lavoro – sezione Benchmarking e Approfondimenti; cfr. Benchmarking sui Servizi Pubblici per l’Impiego in Europa, a cura dello Staff di Statistica Studi e Ricerche sul Mercato del Lavoro – SSRMdL, in Banca Documentale del Lavoro – sezione Benchmarking e Approfondimenti; cfr. Benchmarking sulle politiche attive e passive del lavoro nei principali Paesi dell’Unione Europea, a cura dello Staff di Statistica Studi e Ricerche sul Mercato del Lavoro – SSRMdL, in Banca Documentale del Lavoro – sezione Benchmarking e Approfondimenti.
[41] Cfr. Valente L., La riforma dei servizi per il mercato del lavoro, op. cit., pp. 30-31 che parla, nel caso dell’esperienza belga, di un “decentramento obbligatorio”.
[42] E precisamente sono: 1) la ACTRIS che è l’Agenzia tecnica operante nella Regione di Bruxelles Capitale; 2) le FOREM che è l’Agenzia tecnica operante nella Regione della Vallonia; 3) la VDAB che è l’Agenzia tecnica operante nella Regione delle Fiandre, cfr. Il Ruolo delle Agenzie Tecniche in Europa, a cura dello
Staff di Statistica Studi e Ricerche sul Mercato del Lavoro – SSRMdL, in Banca Documentale del Lavoro – sezione Benchmarking e Approfondimenti.
[43] Cfr. Valente L., La riforma dei servizi per il mercato del lavoro, op. cit., pp. 32-33.
[44] Cfr. Il Ruolo delle Agenzie Tecniche in Europa, già citato.
[45] Ivi, pp. 28-29.
[46] Ibidem.
[47] Cfr. Sartori A., Servizi per l’impiego e politiche dell’occupazione in Europe. Idee e modelli per l’Italia, Maggioli Editore, Rimini, 2013; cfr. Sartori A., Commento al D. Lgs. n. 150/2015, op. cit., e anche Valente L., La riforma dei servizi per il mercato del lavoro, op. cit., p. 57.
[48] Cfr. Caruso S.B.; Cuttone M., Verso il diritto del lavoro della responsabilità: il contratto di ricollocazione tra Europa, Stato e Regioni, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc.1, 1 marzo 2016, pag. 63.
[49] Caruso S.B.; Cuttone M., op. cit., pag. 63.
[50] Cfr. Valente L., La riforma dei servizi per il mercato del lavoro, op. cit., p. 70.
[51] Caruso S.B.; Cuttone M., op. cit., pag. 63.
[52] Cfr. Vergari S., op. cit..
[53] Cfr. Caruso S.B.; Cuttone M., op. cit.
[54] Cfr. Santoro-Passarelli G., Il diritto del lavoro a cinquanta anni dallo Statuto dei Lavoratori, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.2, 1 giugno 2020, pag. 101.
[55] Cfr. Valente L., La riforma dei servizi per il mercato del lavoro, op. cit., p. 50.
[56] Cfr. il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, pp. 200 e ss: per le sole PAL sono stati stanziati 6,66 mld di euro.
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