Disposizioni contro le immigrazioni clandestine: l’aggravante dell’art. 12, co. 3, T.U.I
Sommario: Premessa – 1. Evoluzione legislativa – 2. Il dibattito nomofilattico – 3. Conclusioni
Premessa
L’art. 12 della legge n. 39 del 28/02/1990 prevede che: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona”.
Al successivo terzo comma il dictum normativo si ripete introducendo un inasprimento del trattamento sanzionatorio nel caso in cui le condotte tipizzate vengano compiute con determinate modalità espressamente elencate.
La reiteratio normativa è stata oggetto di numerosi contrasti ermeneutici relativi alla natura di tale ultima disposizione. In particolare, gli interpreti si sono più volte chiesto se essa dovesse essere considerata alla stregua di una fattispecie autonoma di reato, ovvero di mera circostanza aggravante.
A dirimere la questione è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 40982 del 21 giugno 2018 (dep. 24 settembre 2018).
1. Evoluzione legislativa
Pare quantomai opportuno ripercorrere brevemente le tappe della complessa e articolata evoluzione normativa della fattispecie al fine di comprendere l’approdo ermeneutico che ha conclusivamente condotto tale disciplina nell’alveo delle circostanze aggravanti del reato.
Il delitto di immigrazione clandestina veniva introdotto per la prima volta con d.L. 30.12.1989, n. 416, convertito nella legge 28/02/1990, n. 39 – c.d. legge Martelli-, il quale all’art. 3, co. 8, sanzionava con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a 2 milioni di lire chiunque poneva in essere “attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del presente decreto”.
Nel 1998 la Legge c.d. “Turco – Napolitano”, successivamente trasfusa nel d.lgs. n. 286/98 (T.U. Immigrazione), si inasprì il trattamento sanzionatorio lasciando immutata la norma previgente.
In particolare, vennero introdotte due gruppi di circostanze aggravanti ad effetto speciale per le condotte illecite descritte al primo comma dell’art. 12 suddetto.
Nel 2002 l’articolo venne nuovamente novellato con la legge c.d. “ Bossi – Fini” n. 189/02.
La riforma introdusse il reato di favoreggiamento dell’emigrazione illegale con il quale si puniva chiunque avesse compiuto atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato ad una persona non cittadina o priva di titolo di residenza permanente.
L’ultima modifica della travagliata evoluzione dell’art. 12 è stata introdotta con la Legge 94/2009 (il c.d. “pacchetto sicurezza” fortemente voluto dall’allora Ministro Maroni).
La revisione normativa ha operato, in conclusione, una doverosa specificazione delle condotte tipiche descritte ai commi 1 e 3 dell’art. 12 ivi in analisi.
Infatti, con il terzo comma si è deciso di punire le medesime condotte descritte nel primo comma prevedendo, però, un inasprimento sanzionatorio se poste in essere nelle seguenti modalità: “il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; la persona trasportata è stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale; la persona trasportata è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale; il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti; gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti”.
2. Il dibattito nomofilattico
La qualificazione di aggravante del terzo comma dell’art. 12 T.U.I è il frutto di un acceso e tormentato dibattito sorto in seno al massimo organo nomofilattico e conclusosi con la sentenza a Sezioni Unite n. 40982 del 21/06/2018 (dep. 24/09/2018).
La vexata questio nacque a partire dal 2002 quando il legislatore, riproponendo l’identica descrizione della condotta tipica di cui al primo comma nel successivo terzo comma dell’art. 12, aggiunse elementi specializzanti e degradò altre condotte a fattispecie meramente circostanziali.
All’interno della Suprema Corte sorsero, così, diversi orientamenti ermeneutici che qualificavano la suddetta disciplina talvolta come fattispecie autonoma, talaltra come circostanza aggravante del reato di cui al primo comma.
Ed invero.
Un primo orientamento configurava il terzo comma “aggravante per aggiunta” rispetto alla fattispecie base in quanto le due norme prevedevano medesimi elementi strutturali.
Tale tesi trovava conforto nell’ormai consolidato canone ermeneutico di specialità di cui all’art. 15 c.p., utilizzato per distinguere le fattispecie autonome da quelle circostanziali.
Nella species il terzo comma, secondo questa tesi, introduceva elementi integrativi – “per aggiunta” appunto – attraverso l’inserimento di dati specializzanti che non frammentavano il nucleo offensivo della fattispecie delittuosa.
Il secondo orientamento riteneva, invece, che il terzo comma fosse un’autonoma fattispecie di reato in quanto i fatti descritti erano “evocativi di una effettiva violazione della disciplina di controllo dell’immigrazione”, cui conseguiva l’assorbimento del delitto nella categoria dei reati ad evento.
Tale interpretazione sarebbe stata preferibile in termini di “ragionevolezza”, considerato l’inasprimento sanzionatorio previsto poi al terzo comma.
Con la pronuncia a Sezioni Unite n. 40982 la Corte ritenne, in via definitiva, corretta la prima soluzione ermeneutica.
Nell’argomentare la Suprema Corte ribadì l’insegnamento della decisione “Fedi” (Cass. pen. n. 26351 del 26/06/2002) secondo il quale: “il modo in cui la norma descrive gli elementi costitutivi della fattispecie o determina la pena è indicativo della volontà di qualificare gli elementi come circostanza o come reato autonomo”.
Di conseguenza, la risposta alla questione rimessa alle Sezioni Unite si sarebbe dovuta ottenere considerando esclusivamente la ricostruzione della volontà del legislatore.
In tal caso la volontà, non essendo manifesta, doveva essere estratta da indici significativi, elaborati da giurisprudenza e dottrina.
Nel valutare la struttura della fattispecie penale di cui all’art. 12 comma 3 del T.U.I. si poteva individuare, quindi, il proposito di configurare una mera circostanza aggravante, in quanto: “In effetti, in conseguenza della ripetizione della descrizione della condotta presente nel primo comma, risulta evidente che gli elementi essenziali della condotta non mutano, mentre le ipotesi descritte dalle lettere da a) ad e) riguardano elementi ulteriori, che non sono necessari per la sussistenza del reato e che, secondo la valutazione del legislatore, rendono più grave la condotta posta in essere.
Le considerazioni favorevoli ad una considerazione dell’ipotesi come fattispecie autonoma di reato non appaiono decisive.
La tecnica legislativa di riprodurre integralmente la descrizione della condotta presente nella fattispecie del primo comma è, senza dubbio, insolita ma ottiene lo stesso risultato che avrebbe prodotto un rinvio per relationem: non pare, quindi, un indizio inequivoco della volontà del legislatore di creare una diversa fattispecie autonoma” (SS.UU. n. 40982 del 21/06/2018).
3. Conclusioni
Il conclusivo riconoscimento di circostanza aggravante della disciplina contenuta al terzo comma dell’art. 12 T.U.I. permette al giudicante di applicare la disciplina di cui all’art. 69 c.p. sul bilanciamento delle circostanze del reato.
In questo modo il Giudice potrà comminare il trattamento sanzionatorio più aderente al singolo evento in causa e nel pieno rispetto del principio di proporzionalità della pena.
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Giuliana Aprile
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