Divieto di avvicinamento: quando i luoghi vanno specificamente indicati
Sul divieto di avvicinamento “locale”.
Con il D.L 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con L. 23 aprile 2009, n. 38, unitamente alla previsione dell’art. 7 che ha introdotto la nuova fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis c.p., è stata altresì emanata all’art. 9 la disposizione integrativa della misura del divieto di avvicinamento di cui all’art. 282-ter c.p.p., comma 1, per la quale “il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa“.
Con tale previsione il legislatore ha quindi previsto una triplice modalità della fattispecie cautelare del divieto di avvicinamento che il giudice potrà considerare al fine di adeguare la tutela alle esigenze ravvisate nel caso di specie: quella del divieto di avvicinamento ai luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, quella di mantenere una determinata distanza da tali luoghi e, infine, quella di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa.
La Suprema Corte ha già avuto modo di chiarire che, in tema di misure cautelari personali, il provvedimento con cui il giudice dispone, ex art. 282-ter c.p.p., il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa deve necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi oggetto della proibizione, perché solo in tal modo il provvedimento assicura sia l’esigenza di praticabilità della misura sia la necessità di contenere le limitazioni imposte all’indagato nei confini strettamente necessari alla tutela della vittima (Fattispecie in cui la Corte ha annullato l’ordinanza impugnata per indeterminatezza nell’indicazione dei luoghi vietati, demandando al giudice di merito la eventuale possibilità di applicare all’indagato un generale divieto di avvicinamento alla persona offesa che non richiede la specifica individuazione delle zone in cui è interdetto l’accesso) (Cass. pen., Sez. 5, n. 5664 del 10/12/2014, B, Rv. 262149; si vedano anche, Cass. pen., Sez. 5, n. 28225 del 26/05/2015, F, Rv. 265297; Cass. pen., Sez. 6, n. 8333 del 22/01/2015, R., Rv. 262456; Cass. pen., Sez. 6, n. 14766 del 18/03/2014, F, Rv. 261721).
Si è detto, infatti, che “l’art. 282-ter c.p.p. – introdotto dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con mod., dalla L. 23 aprile 2009, n. 38 – ha tipizzato una nuova figura di misura cautelare al fine di contrastare, prevalentemente, il fenomeno degli atti persecutori, costituito dal divieto di avvicinamento dell’imputato o dell’indagato “a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa”, nonché dall’imposizione dell’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa“.
È vivo nella giurisprudenza della Suprema Corte – ma non contraddittorio – il dibattito sui caratteri che devono avere le misure suddette, affinché le esigenze di cautela sottese alla norma siano conciliabili con i diritti e le necessità della persona cui le misure sono imposte, sotto un duplice profilo: a) quello di determinare una compressione della libertà di movimento dell’onerato nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima; b) quella di assicurare una sufficiente determinatezza della misura, affinché sia ben chiaro all’obbligato quali comportamenti deve tenere e sia eseguibile il controllo sulla corretta osservanza delle prescrizioni a lui imposte. E’ compito del giudice, pertanto, riempire la misura di contenuti adeguati agli obbiettivi da raggiungere e rendere la misura sufficientemente determinata, per evitare elusioni o problematiche applicative.
Si ritiene che una interpretazione letterale della norma consenta di superare le difficoltà applicative create da una misura che, nello spirito della legge, deve essere “calibrata” sulla situazione di fatto che si vuole tutelare in via cautelare. Ebbene, l’art. 282-ter prevede innanzitutto – il divieto di avvicinamento “a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa” e l’obbligo di “mantenere una determinata distanza da tali luoghi“, al fine evidente – di assicurare alla vittima uno spazio fisico libero dalla presenza del soggetto che si è reso autore di reati in suo danno. La norma ricalca l’analoga previsione contenuta nell’art. 282-bis c.p.p., introdotto per analoghe ragioni, dalla L. 4 aprile 2001, n. 154, secondo cui il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può ordinare all’imputato o all’indagato, oltre che di lasciare immediatamente la casa familiare, “di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti“. In entrambe le disposizioni è contenuta, quindi, l’avvertenza di riempire la prescrizione di un contenuto specifico: quello della individuazione (“determinazione“) del luogo a cui l’autore del reato non si deve avvicinare. Tale previsione corrisponde ad una esigenza pratica e una esigenza di giustizia: l’esigenza pratica è quella di rendere noto all’obbligato quali sono i luoghi da evitare, alla cui determinatezza è collegata la stessa praticabilità della misura; l’esigenza di giustizia è quella di contenere le limitazioni imposte all’indagato nei limiti strettamente necessari alla tutela della vittima e di assicurare a quest’ultima la certezza di uno spazio libero dalla presenza del prevenuto. Entrambe le norme partono dal presupposto, quindi, che una indicazione generica del luogo “interdetto” all’obbligato non sia funzionale alle esigenze che si vogliono tutelare, perché non consentirebbe al prevenuto di sapere in anticipo quale comportamento è a lui richiesto. A questa categoria è da ascrivere anche il divieto “di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa“, sia perché l’obbligato non può sapere quali siano i luoghi suddetti – peraltro normalmente destinati a variare a seconda delle esigenze e delle abitudini della persona – sia perché la misura assumerebbe una elasticità dipendente dalle decisioni (o anche dal capriccio) dell’offeso, a cui verrebbe rimesso, sostanzialmente, di stabilire il contenuto della misura. Tanto, si badi bene, anche nel caso la frequentazione di un luogo avvenga, con priorità, da parte della persona sottoposta ad indagini, con la conseguenze – a dir poco paradossale – di imporgli un facere (allontanarsi dal luogo) anche quando sia la persona offesa ad avvicinarsi ad esso (così in motivazione, la citata sentenza Rv 262149).
Appare da condividere, pertanto, la conclusione cui è pervenuta la richiamata giurisprudenza, secondo la quale un provvedimento che si limiti a parlare di “luoghi frequentati dalla persona offesa“, oltre a non rispettare il contenuto legale, appare strutturato in maniera del tutto generica, imponendo una condotta di non facere indeterminata rispetto ai luoghi, la cui individuazione finisce per essere di fatto rimessa alla persona offesa (così, di recente, Cass. pen., Sez. V, n. 279050 del 27/01/2016 e Cass. pen., Sez. V, n. 34896 del 16/08/2016).
In conclusione, il giudice ha la possibilità di adeguare l’intervento cautelare previsto dall’art. 282-ter c.p.p., alle esigenze di specie attraverso le tre diverse flessioni previste, ma la scelta del divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa deve rispettare la connotazione legale che lo vuole riferito a “determinati” luoghi, che è compito del giudice indicare a pena di una censurabile indeterminatezza.
L’omissione della specifica indicazione di luoghi rispetto ai quali è inibito l’avvicinamento, infligge un generico, imprevedibile e, pertanto, incontrollabile obbligo di “non facere” in capo allo stesso destinatario e viola la connotazione tipica della misura astrattamente adottata, non considerando il diverso “modo” cautelare incentrato sulla persona offesa.
Sul cumulo del divieto di avvicinamento “personale” e “locale”.
La Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che laddove il divieto faccia anche riferimento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa non rileva che la imposizione in questione risulti disposta isolatamente o cumulata all’ulteriore possibilità di prescrizione. Restano, infatti, diverse le finalità di prevenzione comunque perseguite come non sono identiche le limitazioni e i pregiudizi che a caduta finiscono per riverberarsi sulla libertà di circolazione e movimento dell’indagato comminata.
Avuto riguardo a siffatta ultima (ed ulteriore) indicazione, il divieto di avvicinamento deve necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto ai quali è inibito l’accesso all’indagato (cfr. sul punto la già citata sentenza Rv. 262456). Tanto lo impone il tenore inequivoco del dato normativo di riferimento che fa espresso riferimento a luoghi “determinati“.
Lo richiede, ancora, l’esigenza di tipizzazione della misura, poiché solo in tal modo il provvedimento cautelare assume una conformazione completa che consente il controllo delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che la legge intende assicurare (in tal senso la costante interpretazione offerta dalla Cassazione penale: tra le tante cfr. Sez. 6, n. 14766 del 18/03/2014 – dep. 28/03/2014, F, Rv. 261721; Sez. 6, n. 8333 del 22/01/2015 – dep. 24/02/2015, R., Rv. 262456; Sez. 5, n. 5664 del 10/12/2014 – dep. 06/02/2015, B, Rv. 262149; Sez. 6, n. 26819 del 07/04/2011 – dep. 0 07/2011, C., Rv. 250728). Si consideri, peraltro, che in sfatta ipotesi l’inosservanza della misura finisce per concretarsi solo per effetto della constatazione della presenza dell’indagato dentro il perimetro di riferimento preventivamente tipizzato dal provvedimento giudiziale di divieto e, dunque a prescindere dalla contestuale presenza sul luogo predeterminato della persona offesa. E tanto, ancora più decisamente, impone la precisa delimitazione preventiva dei luoghi cui circoscrivere l’operatività dei divieto.
In conclusione, il giudice ha la possibilità di adeguare l’intervento cautelare previsto dall’art. 282-ter c.p.p., alle esigenze di specie attraverso le diverse flessioni previste dalla norma citata, anche congiuntamente applicate. Se la scelta cade sul divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, anche se cumulata con quella dei divieto immediatamente collegato alla persona offesa, l’imposizione, avuto esclusivamente riguardo a tale ultima prescrizione, deve rispettare la connotazione legale che lo vuole riferito a “determinati” luoghi, che è compito del giudice indicare a pena di una censurabile indeterminatezza (sul punto, Cass. pen., Sez. VI, n. 28666 del 6/07/2015).
Sul divieto di cumulo del divieto di avvicinamento “personale” e “locale”.
Mentre le prime due tipologie hanno come riferimento “determinati luoghi” fissando rispetto ad essi l’ambito nel quale l’inibizione è efficace, la terza, invece, si incentra sulla “determinata distanza” da tenere rispetto alla persona offesa.
All’interno della VI sezione di Cassazione si registra una pronuncia che pur inquadrandosi all’interno dell’orientamento secondo il quale è necessaria l’indicazione specifica e dettagliata i luoghi frequentati dalla persona offesa, rispetto ai quali è inibito l’accesso all’indagato, ritiene non ammissibile e contra legem prevedere un divieto di avvicinamento ai luoghi, a cui si aggiunga quello “personale”.
Sul punto, è opportuno richiamare l’autorevolissimo arresto delle S.U. che con la sentenza 30 maggio 2006, n. 29907, La Stella (Rv. 234138) secondo il quale l’applicazione cumulativa di misure cautelari personali può essere disposta soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge agli artt. 276, comma primo, e 307, comma primo bis, cod. proc. pen. precisandosi che, al di fuori dei casi in cui siano espressamente consentite da singole norme processuali, non sono ammissibili né l’imposizione “aggiuntiva” di ulteriori prescrizioni non previste dalle singole disposizioni regolanti le singole misure, né l’applicazione “congiunta” di due distinte misure, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili. Le S.U. hanno insegnato che “nell’ambito delle disposizioni generali (articoli 272-279) cui il nuovo codice di rito affida la funzione di pilastri fondamentali del sistema cautelare, la prima a venire in rilievo è infatti l’art. 272, che sancisce il principio di stretta legalità, stabilendo che “le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo”. Ma quella espressa dall’art. 272, non è la mera sottolineatura della necessità di previsione legale, che già scaturisce dalla doppia riserva, di legge e di giurisdizione, dettata dall’art. 13 Cost., comma 2, per ogni forma di compressione della libertà personale, riflettendosi in essa piuttosto il proposito di ridurre a un numero chiuso le figure di misure limitative della libertà utilizzabili in funzione cautelare nel corso del procedimento penale, sicché non possono essere applicate misure diverse da quelle espressamente considerate. È soprattutto grazie all’impiego dell’avverbio soltanto che il significato garantistico del principio di legalità si apprezza sotto il profilo della tassatività, in quanto diretto a vincolare rigorosamente alla previsione legislativa l’esercizio della discrezionalità del giudice in materia di limitazioni, di per sé eccezionali, della libertà della persona (Relazione al Progetto definitivo, p. 183). In base all’art. 272, tipiche e nominate sono le figure delle misure cautelari personali, così come tipici e nominati sono i casi, le forme e i presupposti secondo i quali le stesse possono essere adottate. Di talché, in ossequio ai richiamati principi di stretta legalità, tassatività e tipicità (per i quali cfr. Cassazione, Su, 24/2000, Pm in proc. Monforte, in Cassazione pen. 2001, 1158), deve concludersi che, al di fuori dei casi in cui non siano espressamente consentite da singole norme processuali, non sono ammissibili tanto l’imposizione aggiuntiva di ulteriori prescrizioni non previste dalle singole disposizioni regolanti le singole misure, quanto l’applicazione congiunta di due distinte misure, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili (come, ad esempio, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e il divieto o l’obbligo di dimora). Siffatta applicazione potrebbe infatti determinare la creazione, in un mixtum compositum, di una nuova misura non corrispondente al paradigma normativo tipico“.
Sicché, anche alla luce di questo autorevolissimo insegnamento, non può ridefinirsi per via interpretativa aggravandosi la posizione del soggetto destinatario della misura il contenuto del “modo” cautelare applicato nella specie, obliterandone la connotazione tipica della determinatezza dei luoghi e correlandone l’individuazione ai movimenti della persona offesa, sulla base di “una scelta di priorità dell’esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza da aggressioni alla propria incolumità anche laddove la condotta dell’autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria tale da non essere legata a particolari ambiti locali” (così Sez. 5, Sentenza n. 19552 del 26/03/2013 Rv. 255512 Imputato: D. R.), in tal modo, oltrettutto, sovrapponendo le modalità di misura cautelare diversamente connotate.
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Avv. Giacomo Romano
Ideatore e Coordinatore at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali. È titolare di “Salvis Juribus Law Firm”, studio legale presso cui, insieme ai suoi collaboratori, svolge quotidianamente l’attività professionale avendo modo di occuparsi, in particolare, di problematiche giuridiche relative ai Concorsi Pubblici, Esami di Stato, Esami d’Abilitazione, Urbanistica ed Edilizia, Contratti Pubblici ed Appalti.