Divorzio: disabilità del figlio maggiorenne coniugato e assegno di mantenimento
Cass. civ., Sez. I, Ord. 29 luglio 2021, n. 21819
La Corte di Cassazione ha precisato che ai fini del riconoscimento di un assegno di mantenimento ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, la cui condizione giuridica è equiparata, sotto tale profilo, a quella dei figli minori dall’art. 337-septies c.c., il giudice di merito è tenuto ad accertare se il figlio che richieda la contribuzione sia portatore di un handicap grave, ai sensi della Legge n. 104 del 1992 art. 3, comma 3, richiamato dall’art. 37-bis disp. att. c.c., ossia se la minorazione, singola o plurima, della quale il medesimo sia portatore, abbia ridotto la sua autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, essendo, in caso contrario, la condizione giuridica del figlio assimilabile, non a quella a quella dei minori, bensì allo status giuridico dei figli maggiorenni.
Con questa recentissima pronuncia la Corte di Cassazione ribadisce un principio di diritto di fondamentale importanza nella regolamentazione giuridica dei rapporti economici che contraddistinguono la fase divorzile e che va oltretutto ad inserirsi in un contesto, quello dell’assistenza a figli portatori di disabilità, che da sempre, come è noto, aggrava le già di per sé delicate e complesse dinamiche della crisi coniugale e familiare.
Nel caso preso in esame, peraltro, la particolarità della decisione emessa dagli Ermellini scaturisce dal fatto che il genitore obbligato al versamento dell’assegno di mantenimento ne avesse richiesto la modifica sul presupposto che la figlia, portatrice di handicap, avesse convolato a nozze e che detta circostanza dimostrasse il miglioramento della sua situazione personale e soggettiva, al punto da non legittimarla più a godere della sua assistenza e del suo mantenimento, in una alla sua maggiore età ed alla sua qualificazione professionale acquisita che le avrebbe consentito di prestare un’attività lavorativa retribuita.
Secondo, infatti, il genitore ricorrente in Cassazione la decisione assunta dalla Corte di Appello di conferma del suo obbligo al contributo di mantenimento in favore della figlia pur in presenza di dette circostanze di fatto avrebbe determinato la violazione del “principio dell’autoresponsabilità economica”, conseguente appunto alle scelte di vita effettuate dai figli i quali, raggiunta una certa età ed una loro autonomia, potrebbero contare esclusivamente – ove ne ricorrano le relative condizioni, diverse da quelle richieste per l’assegno di mantenimento – sul più ristretto obbligo degli alimenti gravante sui genitori previsto, come è noto, dagli artt. 433 e segg. c.c.
La conclusione, invece, addotta dai Giudici di legittimità è stata di coerente e perfettamente condivisibile aderenza ai fatti di causa e, specificatamente, alla effettiva situazione personale e di salute della figlia disabile, avendo essi Giudici evidenziato come l’accertamento eseguito nella fase di merito circa la sussistenza dei presupposti di legge per confermare l’obbligo di mantenimento a carico del genitore non avesse riguardato il requisito, imprescindibile, della gravità o meno della disabilità dalla stessa sofferta, essendosi piuttosto essi Giudici di merito limitati a confermare la titolarità del contributo sul mero presupposto, pacifico ed incontestato, del suo handicap.
La forza giuridica e sostanziale, dunque, dell’ordinanza oggi in commento risiede nel fatto che la Corte Suprema abbia inteso dare alla disabilità una sorta di qualificazione ordinaria, quasi che la stessa sia da valutarsi, ovviamente in questo contesto normativo e processuale, alla stregua di una qualsivoglia altra situazione inabilitante o, più in generale, di sofferenza, disagio, difficoltà rilevante ai fini del riconoscimento di questo aiuto economico, al punto che in presenza di tutte le altre circostanze di fatto che normalmente rilevano, quali appunto la maggiore età, la capacità del soggetto di proporsi nel mondo del lavoro, l’eventuale nuovo status derivante dal matrimonio conseguito, solo qualora l’handicap individuato sia da ritenersi “grave” secondo la specifica interpretazione che ne deriva dall’art. 3 comma 3 della Legge n. 104 del 1992 diventi obbligatorio porre a carico del genitore obbligato il versamento del contributo di mantenimento.
E’ significativo, anzi, sottolineare come solo la disabilità grave venga dalla Corte equiparato, a tutti gli effetti, allo status di figlio minorenne in maniera pressoché automatica e diretta, e quindi senza possibilità alcuna di differente interpretazione nel merito della certificazione medica che lo attesti, a dimostrazione che detta gravità dell’handicap determini nel figlio beneficiario quella stessa condizione di inferiorità e di debolezza che contraddistingue tout court la prole minorenne di genitori divorziati, oggettivamente impossibilita a provvedere in maniera autonoma al proprio sostentamento e necessitante comunque dell’ausilio e dell’assistenza, anche, ma non solo, economica, del genitore obbligato.
Non si tratta, peraltro, di conclusione meramente interpretativa ma di vera e propria applicazione pratica di un criterio in tal senso appositamente sancito dall’ art. 337-septies comma 2 del c.c., come riformulato dalla Legge n. 219/2012, che non a caso, sotto la rubrica “Disposizioni in materia di filiazione”, al riguardo testualmente recita che “Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori“, come giustamente ricordato anche dalla stessa Corte di Cassazione che nell’ordinanza in commento svolge una interessante ricostruzione della nemesi giuridica di tale principio.
Così, quindi, leggiamo che detta disposizione civilistica “riproduce l’art. 155-quinques c.c., comma 2 previgente (introdotto dalla L. n. 54 del 2006), con una sola modifica, costituita dall’eliminazione del rinvio, contenuto nella disposizione precedente, alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 3, comma 3, ai fini della definizione di “handicap grave”, rinvio che è ora effettuato dall’art. 37-bis, disp. att., introdotto dal D. Lgs. n. 154 del 2013. La norma dell’art. 37bis disp. att. dispone, invero, che “i figli maggiorenni portatori di handicap grave, previsti dall’art. 337-septies c.c., comma 2, sono coloro i quali siano portatori di handicap ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 3, comma 3“.
La Corte poi ulteriormente rammenta che “l’art. 3, comma 1 Legge succitata stabilisce che “1. E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione“. La nozione di portatore di handicap grave è fornita, poi, dal comma 3 della medesima disposizione, laddove prevede che “3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità“.
In definitiva, pertanto, secondo i Giudici di legittimità ai fini del riconoscimento di detto contributo, non è sufficiente che il figlio da mantenere sia portatore di handicap ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 1, occorrendo – stante l’inequivoca previsione dell’art. 337-septies c.c. comma 2 che lo stesso sia portatore di “handicap grave” a norma del citato comma 3 medesima disposizione e da tanto discende per il giudice di merito il dovere processuale di accertare in fatto la predetta gravità dell’handicap nel senso appena riportato dal comma 3 del medesimo art. 3 sì da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, poiché in caso contrario la condizione giuridica del figlio, sia pure disabile, non potrà mai essere assimilabile a quella del minore e sarà da ritenersi a tutti gli effetti equiparabile allo status di figlio maggiorenne con tutti i limiti e le correlative prescrizioni che la normativa gli impone al fine di giungere, autonomamente, ad una indipendenza economica e patrimoniale.
Occorre, infatti, sempre rammentare, anche nella particolarità della situazione considerata determinata non solo dallo stato di disabilità del figlio ma anche dal sopravvenuto matrimonio di questi che, come è noto, comporta di per sé un mutamento anche delle condizioni economiche e patrimoniali del soggetto beneficiario del contributo di mantenimento, che quest’ultimo è tale solo in quanto, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, dimostri, con conseguente onere probatorio a suo carico laddove sia il medesimo ad agire in giudizio, di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un’occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni, senza indugiare nell’attesa di una opportunità lavorativa consona alle proprie ambizioni[1].
Possiamo dunque certamente affermare come la pronuncia oggi in commento sia espressione chiara e convincente del processo evolutivo della giurisprudenza che tende a vedere la disabilità non come uno status invalidante ex se, e quindi aprioristicamente per il solo fatto della sua accertata sussistenza, ma piuttosto come una situazione personale e soggettiva che intanto può rilevare, anche ai fini del riconoscimento o meno del contributo di mantenimento, in quanto incida concretamente sulle reali capacità della persona di rispondere, appunto, a quel “principio di autoresponsabilità economica” di cui abbiamo fatto cenno sopra.
Questo principio, infatti, originariamente applicato ai coniugi è stato poi di fatto esteso anche ai figli maggiorenni secondo una applicazione degli obblighi di mantenimento prescritti dall’art. 337 septies c.c. tanto più rigorosa e severa in capo ai Giudici di merito quanto più sono avanzate l’età del figlio e la sua progressione nel percorso formativo e professionale intrapreso, per cui poiché l’onus probandi gravante sul genitore si conforma in ragione dell’età e della condizione di esso figlio deve ritenersi che la persistenza di una condizione di non autosufficienza economica di quest’ultimo anche una volta esaurito in tempi ragionevoli il percorso che conduce al conseguimento di capacità e titoli funzionali all’esercizio di una professione possa essere ritenuta in via presuntiva “un indicatore forte di inerzia colpevole”.[2]
In passato, in verità, vi è stato anche un orientamento leggermente difforme della giurisprudenza di legittimità, probabilmente poi rimasto isolato, secondo il quale l’obbligo al versamento del contributo di mantenimento in favore del figlio maggiorenne invalido non venga meno per il solo fatto che questi abbia reperito una occupazione, e quindi si sia in qualche modo assicurata una propria autosufficienza economica, in quanto la comprovata sussistenza di una patologia di una certa serietà comporta comunque che i genitori si facciano carico, anche solo in parte, delle esigenze del figlio, ritornando in auge in questa interpretazione una visione maggiormente improntata al profilo solidaristico della normativa in questione rispetto a quella, appunto, della sostanziale parificazione dell’handicap alla normalità della persona[3].
In realtà, però, dalla lettura della sentenza che di questo orientamento ne è espressione emerge piuttosto che più che una diversità di interpretazione dei principi generali di diritto che sottendono a queste tematiche, vi sia stata, nel caso concreto considerato, una attenta valutazione dei fatti di causa e, segnatamente, della situazione personale e soggettiva del figlio disabile beneficiario del mantenimento del genitore per giungere ad una decisione che tenesse conto, indipendentemente dall’autosufficienza economica raggiunta dal figlio, della necessità per quest’ultimo di fare comunque affidamento sull’aiuto dei genitori soprattutto in relazione alla propria patologia, in difformità oltretutto ad alcune prese di posizione assunte da parte della giurisprudenza di merito[4] più intransigente che invece ha equiparato il figlio disabile, anche maggiorenne, ad un bambino per il solo fatto di essere tale.
[1] Vedi Cass. Civ. n. 17183 del 14.08.2020 e, conforme, Cass. Civ. n. 5088 del 05.03.2018.
[2] Vedi Cass.Civ. n. 3088 del 05.03.2018 e, conforme, Cass.Civ. n. 12952 del 22.06.2016
[3] Vedi Cass. Civ. Sez. Prima, sent. n. 1146 del 19.01.2007 in cui appunto si afferma la persistenza in capo ai genitori dell’obbligo di mantenere il figlio maggiorenne quando questi, ancorché impiegato in una regolare attività lavorativa, sia portatore di handicap e non sia in grado di sostenere da solo gli oneri connessi al suo stato di salute.
[4] Vedi Tribunale Potenza, sentenza del 12.01.2016
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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento.
All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento.
Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo.
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