Donazione d’azienda o patto di famiglia: la qualificazione del contratto in base alla teoria della causa concreta
Il legislatore del 2006 ha introdotto nel nostro ordinamento la figura giuridica del patto di famiglia mediante l’inserimento nel codice civile degli articoli 768 bis e seguenti.
Si tratta, come recita testualmente il suddetto articolo, di un atto di trasferimento necessariamente a titolo gratuito che ha ad oggetto l’azienda e che vede come dante causa l’imprenditore e come avente causa uno o più discendenti.
Emerge, dunque, che il patto di famiglia ha una causa donativa, ma differisce dalla classica donazione sia sul piano della disciplina giuridica sia sul piano effettuale.
Tali differenze impongono, pertanto, una puntuale disamina delle fattispecie ove si tratti di donazioni di azienda perfezionatesi a far data dal 16/03/2006, ovvero dalla data di entrata in vigore della L. n. 55 del 14/02/2006, appunto quella che ha segnato l’ingresso sulla scena giuridica italiana del patto di famiglia.
Una attenta indagine funzionale, d’altronde, si impone in quanto nello stesso anno la Cassazione, occupandosi del necessario corretto inquadramento del contratto di sale and lease back, ha inaugurato un nuovo orientamento giurisprudenziale, ovvero quello della causa in concreto.
Alla stregua di tale ultimo filone, ormai consolidato e addirittura granitico, la causa non è più considerata quale la funzione economico-sociale del contratto, ossia la sintesi dei suoi effetti essenziali, necessariamente lecita nei contratti tipici, ma è intesa come la funzione economico-individuale del negozio giuridico, ovvero l’insieme degli interessi rilevanti di entrambe le parti che, nel loro complesso, definiscono il senso dell’operazione.
In questa nuova ottica la causa rappresenta, dunque, la sintesi non degli effetti ma degli interessi perseguiti e realizzati e, come tale, cambia di volta in volta anche a parità di contratto.
Infatti, il giudizio di meritevolezza che l’art. 1322 c.c. limita ai contratti atipici oggi deve essere compiuto in modo identico anche rispetto ai contratti tipici, atteso che anche per essi la causa va indagata in concreto.
Tale valutazione assiologica concreta, pertanto, si impone ai fini della corretta qualificazione giuridica di qualsivoglia contratto e, dunque, anche di un contratto recante come intestazione “donazione d’azienda” se stipulato dopo la creazione della fattispecie negoziale, pur sempre donativa ma peculiare, del patto di famiglia.
D’altronde, in ossequio ai principi fondamentali del diritto civile, per inquadrare correttamente una data fattispecie giuridica ed individuarne la disciplina applicabile, non ci si può arrestare al mero dato letterale o alla semplice intestazione, bensì occorre procedere alla disamina del profilo sostanziale sotteso e all’attenta analisi del dispositivo di un atto, così come della norma giuridica.
Ebbene, ancorché in un contratto si parli genericamente di “donazione”, è d’obbligo sviscerare ed analizzare a fondo la reale intenzione dei contraenti, in quanto non può considerarsi dirimente il nomen iuris impiegato.
Infatti, è regola ermeneutica generale quella secondo cui il Giudice, nell’interpretare la volontà delle parti, non è vincolato dal nomen iuris adoperato dalle stesse per designare il negozio giuridico.
Al contrario, è necessario indagare e determinare la comune volontà dei contraenti compiendo, a tal fine, una attenta e ponderata valutazione assiologica.
In altre parole, per individuare la disciplina concretamente applicabile, è d’uopo cogliere l’interesse concreto perseguito dai paciscenti, la causa concreta del negozio giuridico intesa come finalità comune ad entrambe le parti.
Questo è quanto statuito dalla Suprema Corte e conduce a ritenere necessario, a guisa di corollario, verificare se piuttosto che una classica donazione si sia al cospetto di un patto di famiglia come disciplinato dall’art. 768 bis c.c. poiché tale norma qualifica lo stesso proprio come il contratto (definizione generica) che ha ad oggetto un’azienda la quale viene trasferita non al quisque de populo (indifferenza soggettiva che connota la donazione), bensì ad uno o più discendenti (qualità specifica del beneficiario del patto di famiglia, quasi un rapporto intuitu personae).
Vero è che anche il patto di famiglia ex art. 768 bis c.c. presenta una causa donativa, ma esso ha chiaramente natura anticipatoria degli effetti della successione.
Infatti è richiamato dall’art. 458 c.c., norma che vieta in termini generali i patti successori, ovvero quegli accordi istitutivi e dispositivi che possono anticipare gli effetti di una successione non ancora aperta, ma che fa salvo con espressa deroga il patto di famiglia, benché quest’ultimo produca lo stesso effetto anticipatorio.
Inoltre, a differenza della classica donazione, esso possiede un quid pluris ovvero: una finalità di concentrazione reale (si vuole impedire che l’azienda familiare trapassi in mano a terzi estranei alla famiglia) ed una finalità di concentrazione soggettiva (si vuole evitare che terzi estranei entrino nella gestione del patrimonio familiare).
Dunque, nella ricerca della causa in concreto occorre capire se l’intento del dante causa sia proprio quello non di dar vita ad una semplice donazione, bensì di garantire che l’azienda, per lungo tempo gestita dall’ascendente, sia diretta ed amministrata dal proprio figlio. Deve ravvisarsi cioè, con chiarezza, la volontà di garantire una continuità gestionale.
D’altronde, la coesistenza di due elementi essenziali quali lo status dei contraenti (imprenditore-disponente e discendente) e l’universitas (l’azienda familiare) è un fattore qualificante indefettibile della fattispecie creata dal legislatore del 2006 per disciplinare una vicenda endofamiliare, nella quale la dinamica degli interessi individuali si intreccia con l’esigenza di stabilità aziendale.
In conseguenza, quindi, dell’indagine funzionale svolta e preso atto della reale intenzione dei contraenti, sembra opportuno riqualificare il contratto: esso non è una classica donazione che ha ad oggetto un’azienda, bensì un patto di famiglia con cui l’imprenditore ha trasferito l’azienda familiare al figlio, con finalità non semplicemente donativa ma, vieppiù, di concentrazione reale e soggettiva.
Oltre al fondamentale dato funzionale, può essere d’aiuto nella ricostruzione della fattispecie anche l’aspetto regolamentare, nel senso che la donazione ex art. 769 c.c. è di regola assoggettata a collazione, ai sensi dell’art. 737 c.c., e all’azione di riduzione da parte dei legittimari lesi nella quota loro riservata ex art. 555 c.c.
Differente, invece, la disciplina dettata per il patto di famiglia che, ai sensi dell’art. 768 quater, comma quarto, non è soggetto a collazione o a riduzione.
Può essere dirimente, quindi, analizzare il contenuto dispositivo del contratto ove le parti possono aver eventualmente precisato che quanto con esso ricevuto sia esente da imputazione e collazione o che l’atto dispositivo ha titolo di anticipata successione.
Tali clausole possono essere considerate, infatti, quale indice sintomatico, determinante e significativo, per dedurre importanti considerazioni in ordine alla qualificazione del contratto come patto di famiglia piuttosto che come donazione.
La ragione per la quale il legislatore non assoggetta a collazione e riduzione il patto di famiglia, quale liberalità effettuata al discendente, è di garantire un effetto di stabilità al trasferimento dell’azienda. Stabilità e definitività assicurata, però, dal rigoroso rispetto della regola di cui all’art. 768 quater, comma primo, a tenore del quale al contratto richiamato DEVONO partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.
Da ciò si desume che la ratio che ha spinto il legislatore ad escludere la collazione e la riduzione di quanto disposto nel patto di famiglia è sì l’esigenza di garantire la stabilità dello stesso, ma pur sempre connaturata alla effettiva partecipazione dei legittimari al momento della stipula.
Ricostruire un contratto come patto di famiglia piuttosto che come classica donazione d’azienda ha notevoli ripercussioni poiché reca con sé il corollario dell’applicabilità al contratto in questione della disciplina propria del patto di famiglia, di cui al Capo V bis c.c.
In special modo, si intende richiamare la lettera dell’art. 768 quater, primo comma, c.c.
Tale disposizione esige la partecipazione al contratto di tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.
Dunque, l’assenza di un legittimario figlio del disponente poiché non coinvolto nella vicenda traslativa produce delle conseguenze importanti in quanto determina la violazione dell’art. 768 quater, comma primo, c.c.
Per quanto la norma richiamata disponga genericamente che il coniuge e gli altri legittimari devono partecipare al contratto in questione, si deve ritenere che gli stessi debbano agire quali veri e propri contraenti in senso sostanziale.
Questi ultimi, infatti, per effetto della conclusione del patto si privano della possibilità di chiedere la riduzione delle attribuzioni effettuate a favore del beneficiario e rinunziano, altresì, alla collazione.
Ciò si giustifica proprio in virtù della loro partecipazione.
E’ evidente, invero, che tali effetti vincolanti finalizzati a cristallizzare le attribuzioni in questione riguardino soltanto i soggetti che risultino parti dell’atto.
E proprio dalla regola della necessaria partecipazione dei legittimari si deduce la struttura plurisoggettiva del negozio de quo; il patto di famiglia è un contratto trilaterale, atteso che i legittimari non destinatari dell’azienda devono considerarsi alla stregua di un’unica parte complessa.
Dunque, i legittimari non sono semplici partecipanti al patto di famiglia, ma assumono la qualità di parti del contratto e, vieppiù, sono parti necessarie.
L’art. 768 quater c.c. non prevede una facoltà, bensì un obbligo, in quanto in esso si legge che i legittimari DEVONO (e non possono) partecipare al contratto; è, pertanto, una norma imperativa la cui violazione è causa di radicale nullità del contratto concluso in sua difformità.
Infatti, accanto alla nullità testuale espressamente prevista dalla legge (art. 1418, comma 3, c.c.), il nostro ordinamento conosce anche la nullità virtuale, cioè non espressamente prevista ma derivante dalla violazione di norme imperative (art. 1418, comma 1, c.c.).
Ed è proprio questo il caso che qui ci interessa: il contratto avente ad oggetto un trasferimento gratuito d’azienda stipulato tra il padre ed uno solo dei figli mentre gli altri sono pretermessi, una volta riqualificato come patto di famiglia valorizzando il dato funzionale-sostanziale, dovrà considerarsi radicalmente nullo poiché, in applicazione della relativa disciplina, viola la norma imperativa di cui all’art. 768 quater, primo comma, c.c., che richiede la necessaria partecipazione dei legittimari.
La ragion d’essere delle norme imperative è proprio quella di perimetrare l’autonomia contrattuale dei privati ponendo limiti al contenuto negoziale in virtù di un astratto giudizio di meritevolezza degli interessi in gioco: si vieta una certa pattuizione perché il legislatore valuta come preponderante rispetto alla libertà contrattuale l’interesse privato sotteso che altrimenti verrebbe irrimediabilmente compromesso.
La voluntas legis è quella di tutelare soggetti che subirebbero un pregiudizio per effetto della loro mancata partecipazione al patto di famiglia ovvero i legittimari, quegli stessi soggetti che ricevono tutela in numerose disposizioni codicistiche a fronte di possibili eccessi di prodigalità del loro familiare più diretto.
La conseguenza della mancata partecipazione di uno dei legittimari al contratto dispositivo è, dunque, la radicale nullità dell’atto in questione, riqualificato come patto di famiglia, valorizzando la prospettiva sostanziale della vicenda giuridica.
Esso, quindi, deve considerarsi totalmente improduttivo di effetti per cui deve ritenersi come mai verificatosi lo spostamento patrimoniale richiamato.
Qualora, infatti, la nullità colpisca un contratto ad effetti reali la conseguenza di tale patologia negoziale è che colui che risulta essere dante causa non si è mai spogliato della titolarità del bene interessato dalla vicenda traslativa de qua.
E ciò non perché il bene, a seguito del riscontro della nullità, ritorni nel suo patrimonio ma perché esso, ove il contratto sia nullo, deve ritenersi come mai uscito dallo stesso.
Pertanto, nel caso in cui sia accertata la nullità di quel contratto donativo riqualificato come patto di famiglia, si verifica la retrocessione dell’azienda nel patrimonio del disponente, ovvero l’automatico rientro della stessa nella capacità dispositiva del dante causa.
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Gemma Mariano
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