Donazione di cosa altrui (Tesi di laurea)
Donazione di cosa altrui
(clicca sul titolo per scaricare la tesi di laurea)
a cura del dott. Carlo Esposito
Secondo il costante orientamento della Corte di Cassazione, la donazione di un bene non esistente nel patrimonio del disponente è nulla per le seguenti ragioni.
In primo luogo perché come stabilito dall’art. 769 c.c., che definisce la donazione come “il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’atra, disponendo a favore di questa di un suo diritto”, il tratto caratterizzante del contratto di donazione con effetti reali immediati è la c.d. “attualità dello spoglio”, che presuppone l’appartenenza del diritto al patrimonio del donante già al momento della conclusione dell’operazione negoziale.
Seguendo il ragionamento della Corte, ogni qualvolta il diritto oggetto del trasferimento non appartenga al patrimonio del disponente, affinché possa aversi la donazione questi dovrebbe prima provvedere ad appropriarsene, ma così facendo si andrebbe a frustrare quel concetto di “immediatezza” richiamato dalla norma.
Questa considerazione è confermata anche dall’inciso contenuto nel testo della norma, che stabilisce come l’arricchimento debba essere realizzato mediante la disposizione da parte del donante di un “suo diritto”.
In secondo luogo perché, in deroga ai principi generali, l’art. 771 c.c. prevede espressamente la nullità della donazione di beni futuri: a tale categoria, secondo alcuni interpreti, sarebbe possibile ricondurre anche i beni altrui, i quali non sono altro che beni “futuri” in senso soggettivo, in quanto i beni altrui potranno entrare nel patrimonio del donante solo in un futuro e come tali, andrebbero sottoposti alla medesima disciplina.
Con una pronuncia del 2009, la Corte ha chiarito che benché nulla, la donazione dispositiva di un bene altrui possa rappresentare titolo idonea al perfezionamento della fattispecie acquisitiva di cui all’art. 1159 c.c. La nullità della donazione di cosa altrui dipende, invero, non da un vizio di struttura ma da ragioni inerenti esclusivamente alla funzione del negozio, ossia dalla altruità del bene donato, elemento che però risulta del tutto irrilevante ai fini della valutazione della idoneità del titolo.
In altre parole, la provenienza dell’attribuzione da un soggetto sprovvisto della titolarità del diritto, benché intacchi la validità della donazione, non consentendo ad essa, per ciò solo, di adempiere concretamente la funzione traslativa, non inficia la sua astratta idoneità ad inserirsi in un più complessa fattispecie acquisitiva a non domino.
La donazione dispositiva di beni altrui, dunque, quando conformata in termini di atto di alienazione, stante l’ignoranza delle parti circa l’alienità della res donata, è suscettibile di fungere da titulus adquirendi ai fini dell’usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c.; in quanto l’esistenza di un titolo idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reali di godimento, che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, tale per cui l’acquisto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse stato titolare.
Quest’ultima considerazione è stata confermata anche da Cass. 5 febbraio 2001 n. 1596, dove però la Corte – con una sentenza che è rimasta isolata – ha affermato non la nullità, ma piuttosto la semplice inefficacia della donazione di cosa altrui.
A sostegno della propria pronuncia, i giudici di legittimità hanno richiamato sia la ristretta portata letterale dell’art. 771 c.c., sia la natura eccezionale del divieto di donare beni futuri in senso oggettivo, che, in quanto tale, non è suscettibile di applicazione analogica ai beni altrui, futuri in senso soggettivo.
Nello specifico, la decisione della Corte si basa sulla considerazione che, nella formulazione dell’art. 771 c.c., il riferimento del divieto è ai soli nei non ancora esistenti in rerum natura, ma non manca di sottolineare l’argomento logico costituito dal fatto che, ad altri fini, il legislatore ha considerato separatamente gli effetti di atti di disposizione di beni futuri e di beni altrui: il richiamo è alla disciplina della compravendita, laddove la vendita di cosa altrui e la vendita di cosa futura sono sottoposte ad una differente regolamentazione ad opera, rispettivamente, degli artt. 1472 e 1478 c.c.
L’interpretazione fornita dalla Corte si fonda anche sulla previsione, contenuta nella seconda parte dell’art. 769 c.c., che consente un arricchimento del donatario attraverso l’assunzione di un’obbligazione nei suoi confronti.
Alla luce di tale contrasto giurisprudenziale, la Seconda Sezione della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi nuovamente in materia, ha provveduto, con ordinanza del 24 maggio 2014, n. 11545, a rimettere la questione a vaglio delle Sezioni Unite.
A seguito del rinvio, le Sezioni Unite, con sentenza del 15 marzo 2016, n. 5068, fondando il proprio ragionamento sulla causa del contratto, hanno provveduto a riaffermare la nullità della donazione di cosa altrui.
Secondo il ragionamento seguito dai giudici di legittimità, si tratta di una nullità autonoma e indipendente rispetto a quella prevista dall’art. 771 c.c.; fondata sulla rilevanza causale dell’animus donandi, che deve essere precisamente delineato nell’atto pubblico; in difetto, la causa della donazione sarebbe frustrata non già dall’altruità del diritto in sé, quanto dal fatto che il donante non assuma l’obbligazione di procurare l’acquisto del bene al terzo.
Richiamando le parole della Suprema Corte deve quindi affermarsi che se il bene si trova nel patrimonio del donante al momento della stipula del contratto, la donazione, in quanto dispositiva, è valida ed efficace; se invece la cosa non appartiene al donante, questi deve assumere espressamente e formalmente nell’atto l’obbligazione di procurare l’acquisto dal terzo al donatario.
La donazione di beni altrui vale, pertanto, come donazione obbligatoria di dare, purché l’altruità sia conosciuta dal donante e tale consapevolezza risulti da un’apposita espressa affermazione nell’atto pubblico. Se, invece, l’altruità del bene donato non risulti dal titolo e non sia nota alle parti, il contratto non potrà produrre effetti obbligatori, né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui.
La vicenda sottesa all’autorevole pronuncia a Sezioni unite ha riguardato il caso della donazione di una quota ereditaria disposta da uno degli eredi quando ancora la comunione non si era sciolta. A tal proposito, la Cassazione ha affermato che la fattispecie in esame rientrasse a pieno titolo nell’ipotesi della donazione di cosa altrui, in quanto la quota, non essendo ancora entrata a far parte del patrimonio del disponente, non poteva dirsi di sua proprietà, bensì di proprietà indivisa tra tutti gli eredi.
I giudici di legittimità pervengono, allora, alle medesime conclusioni formulate per la donazione di bene altrui anche per la donazione di un bene solo in parte altrui, appartenente pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e donato per la sua quota da uno dei coeredi.
Secondo la Corte “non è, infatti, dato comprendere quale effettiva differenza corra tra i beni altrui e quelli eventualmente altrui, trattandosi, nell’uno e nell’altro caso, di beni non presenti, nella loro oggettività, nel patrimonio del donante al momento dell’atto, l’unico rilevante al fine di valutarne la conformità all’ordinamento”.
In risoluzione dei quesiti formulati dall’ordinanza di rimessione n. 11545 del 24 maggio 2014, le Sezioni Unite, in conclusione, con sentenza n. 5068 del 15 marzo 2016, affermano il seguente principio di diritto:
“La donazione di un bene altrui, benché non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa, a meno che nell’atto si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio. Ne consegue che la donazione, da parte del coerede, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla, non potendosi, prima della divisione, ritenere che il singolo bene faccia parte del patrimonio del coerede donante”.
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Carlo Esposito
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