Dire “Dovete andare via…” agli extracomunitari configura aggravante della discriminazione razziale
Nota a Cass. Pen., Sez. V, n. 32028 del 12/07/2018 – Pres. Dott. Paolo Antonio Bruno – Rel. Dott. Carlo Zaza
SOMMARIO: 1. Il caso – 2. La decisione.
1. Il caso
Il caso in esame trae origine dalla condanna inflitta dalla Corte di Appello di Milano nei confronti di due italiani, per il reato di lesioni in concorso in danno di due bengalesi, aggravato dalla circostanza della finalità dell’odio razziale.
La sentenza in commento risulta interessante poiché la stessa definisce i limiti entro cui si configura l’aggravante de quo.
In sede di ricorso per Cassazione, la difesa dell’imputato ha lamentato la violazione di legge e il vizio motivazionale della sentenza impugnata, deducendo la non sussistenza dell’aggravante della finalità di discriminazione razziale poiché le espressioni pronunciate dagli imputati sarebbero state prive di riferimenti discriminatori, generiche e non facenti riferimento ad una presunta superiorità razziale.
Parte ricorrente ha dedotto, altresì, l’illegittimità del mancato riconoscimento della tenuità del fatto, stante la lieve entità delle lesioni riportate dalle parti offese e la mancata presentazione della querela da parte di queste ultime, oltre al vizio di omessa motivazione per l’irrogazione di una pena superiore al minimo edittale.
La Suprema Corte ha rigettato tutti i motivi di ricorso e condannato parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.
2. La decisione
Con la sent. n. 32028 del 12 luglio 2018, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha precisato i contorni dell’aggravante prevista dall’art. 3 del d.l. n. 122/1993, conv. in Legge n. 205/93, ribadendo, di fatto, il suo precedente orientamento.
Già con la sent. Cass. pen. n. 43488/2015 la Corte aveva chiarito che l’aggravante in questione è configurabile qualora si tratti di espressioni che rivelino la volontà di discriminare la vittima in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa.
Nel febbraio 2018, sempre con una pronuncia dello stesso tenore la Suprema Corte aveva concluso per la configurazione della diffamazione aggravata dall’odio razziale per la condotta dell’imputato che, mediante un messaggio pubblicato su Facebook, aveva invitato la persona offesa, di etnia africana, a ritornare nella “giungla”(sent. Cass. pen. n. 7859/2018).
Con la sentenza in commento la Corte ha compiuto un ulteriore passo avanti, affermando che la finalità discriminatoria “non ricorre solo allorché l’espressione riconduca alla manifestazione in un pregiudizio nel senso dell’inferiorità di una determinata razza; ma anche quando la condotta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio etnico, e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori (Sez. 5, n. 13530 del 08/02/2017, Zamolo, Rv. 269712)”.
Le frasi pronunciate nel caso di specie dagli imputati “che venite a fare qua…dovete andare via…”, seppur generiche nella loro formulazione, sono state ritenute dalla Corte come idonee a configurare l’aggravante de quo in quanto chiaramente espressive della volontà di offendere gli extracomunitari oggetto dell’aggressione a cagione della loro etnia.
Per quanto riguarda la valutazione del “contesto” la Corte ha tenuto in conto la circostanza, riferita da uno degli imputati, per cui i due si erano recati di proposito nel circolo ove si svolsero i fatti, proprio perché “frequentati da extracomunitari” e ha ritenuto che essa, congiuntamente alle espressioni pronunciate, fossero fatti idonei a “manifestare pubblicamente e a diffondere, con un gesto fortemente significativo in tal senso, odio verso la presenza nel Paese di soggetti appartenenti ad altra etnia, e a porre in essere il pericolo di analoghi ed ulteriori comportamenti discriminatori”.
In ordine alla particolare tenuità del fatto, la Suprema Corte ha osservato che la stessa non potrebbe configurarsi proprio per le odiose modalità di aggressione del bene giuridico tutelato che denotano discriminazione razziale.
Infine, gli stessi fatti, definiti come “espressivi di sentimenti antisociali” e i precedenti dell’imputato hanno consentito alla Corte di ritenere manifestamente infondata la censura sulla carenza motivazionale circa la determinazione della pena in misura superiore al minimo edittale ed a concludere per il rigetto del ricorso in toto.
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