Tribunale Milano 05 maggio 2016 – Pres. Marina Tavassi – Est. Silvia Giani
È vero che nei contratti a tempo indeterminato il recesso è consentito, ma ciò non è determinante per escludere l’illiceità della condotta quando il recesso non sia conforme a buona fede, per le modalità con cui sia posto in essere. Giacché la buona fede deve presiedere ogni fase del contratto, accompagnandolo nel suo intero svolgimento, dalla formazione all’esecuzione allo scioglimento.
La buona fede è espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., che impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche. La sua violazione, pertanto, costituisce di per sé inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato.
(Nella fattispecie, Google Adsense aveva esercitato il recesso ad nutum senza alcuna specifica contestazione, senza preavviso né giustificazione, trattenendo illecitamente una rilevante somma dal corrispettivo spettante al publisher, cui di fatto aveva impedito di continuare ad operare. Google, infatti, non forniva alcuna specifica motivazione, se non limitandosi genericamente a formule stereotipate e generiche indicazioni di atti non validi: “[…] abbiamo rilevato attività non valide sul suo sito e il suo account è stato disattivato. Ci sono dei limiti alla quantità di informazioni che possiamo fornire sulla specifica violazione che interessa il suo caso […]” e ancora: “ci sforziamo di creare un ecosistema online vantaggioso per publisher, inserzionisti e utenti. Per questo motivo, a volte dobbiamo intervenire nei confronti di account che mostrano un comportamento verso utenti o inserzionisti che può incidere negativamente sulla percezione complessiva dell’ecosistema”. Dalla corrispondenza intercorsa tra Google ed il publisher emergeva, poi, che per diversi giorni quest’ultimo aveva continuato a chiedere informazioni e spiegazioni, senza ricevere alcuna motivazione, se non quella dell’impossibilità di fornirle per ragioni di policy aziendale, consigliando la promozione di un ricorso interno. All’esito di tale ricorso peraltro, la situazione rimaneva immutata, poiché nella risposta fornita da Google neppure venivano fornite valide ragioni, né tantomeno veniva data l’opportunità al publisher di adeguarsi o conformarsi alle presunte e non chiare regole di condotta. Il comportamento di Google veniva, poi, aggravato dall’aver trattenuto, in totale discrezionalità, le somme relative ad alcune mensilità maturate dal publisher. Tra l’altro, gli importi relativi alle mensilità precedenti alla risoluzione arbitraria del rapporto venivano stimati dalla stessa Google, la quale, pur affermando l’esistenza di click invalidi, non ha mai proceduto ad una specifica contestazione degli importi da essa stessa quantificati. Il colosso si difendeva affermando che gli importi trattenuti venivano restituiti agli inserzionisti, ma il Tribunale ha chiarito che tale scopo comunque non legittima la condotta di trattenerli arbitrariamente a danno del publisher e che, in ogni caso, tale circostanza non veniva provata in alcun modo. In conclusione, il modus operandi di Google è stato qualificato dal Tribunale come abuso del diritto e come abuso di dipendenza economica ai sensi dell’art.9 L.192/1998, anch’esso ritenuto un’estrinsecazione della clausola di buona fede, essendosi determinato un rilevante squilibrio di diritti e obblighi tra le parti contraenti).
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