Droga parlata: i “motivi manifestamente infondati” in Cassazione
Sommario: 1. Un caso emblematico o un caso limite: “droga parlata”, ricorso e sentenza – 2. La riforma “Pecorella” ed il travisamento della prova – 3. Motivazione e “regola di inferenza” in conversazioni telefoniche criptate – 4. Il vizio di inosservanza di norme processuali su prove indiziarie ed il ricorso manifestamente infondato – 5. Il vizio manifesto di motivazione, il “non indizio” ed il ricorso manifestamente infondato dopo le novelle del 2006 e del 2017 – 6. La droga parlata in decisioni di altre sezioni della Corte di Cassazione – 7. Conclusioni
1. Un caso emblematico o un caso limite: “droga parlata”, ricorso e sentenza
Succede spesso. Tizio e Caio avanzano ricorso per cassazione della sentenza della Corte d’Appello territoriale, lamentando con apposito motivo la violazione dell’art. 192 co.2 c.p.p. e il contestuale e conseguente vizio di illogicità manifesta della motivazione ex art. 606 lett. e) c.p.p.
I ricorrenti ritengono illogico l’impianto motivazionale fornito giudice di merito in quanto le condotte di cui a tutti i capi di imputazione sarebbero state apprezzate, nella motivazione della sentenza, da criteri di comparazione degli indizi unilaterali e non comuni; indizi rinvenuti nelle conversazioni “criptiche” (la consueta “droga parlata”) delle telefonate intercettate.
Il riferimento delle conversazioni alla cocaina non era recuperabile, secondo i ricorrenti, dal sequestro di 1 kg di tale sostanza in possesso di Mevio (persona terza) di molto successivo, atteso il diverso contenuto delle telefonate ed il non poco antecedente periodo cui risalgono le condotte “parlate” al telefono.
Secondo un clichè comune e frequente della sesta sezione del giudice di legittimità penale – che adotta un percorso argomentativo consueto e comune a numerose pronunce[1] della stessa sezione in analoghi casi di “droga parlata” – deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso poiché il supporto motivazionale della Corte territoriale è “adeguato”, mentre sarebbero i ricorrenti che, svolgendo un’analitica valutazione del materiale probatorio, ne propongono una lettura alternativa ed invitano il giudice di legittimità ad una nuova decisione di merito non consentita.
Secondo frequenti pronunce della Corte, la richiesta di “riscontri oggettivi” ai fini dell’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche non è nemmeno assistita da normazione, ribadendo un consolidato principio giurisprudenziale di legittimità e di merito che esclude la necessità di elementi esterni di conferma del contenuto di conversazione intercettate.
Accade che lo stesso giudice di legittimità escluda la necessità di supporto del riscontro “oggettivo” (il sequestro di stupefacente) – evidentemente ritenendolo successivo e remoto rispetto ai fatti in contestazione – quindi, non “qualificante”, contrariamente ai concetti espressi dalla sentenza del giudice del merito e censurati con il ricorso.
Ai fini dell’indagine sul valore delle dei riferimenti “by calling” è la stessa Cassazione, dunque, – benché una parte della motivazione del giudice territoriale si agganci al riscontro esterno (quanto meno per qualificare la tipologia dello stupefacente) – a scegliere di restringere l’esame alla valutazione dei giudici dell’appello sul peso probante delle sole intercettazioni telefoniche autoindaganti.
Ma il problema è un altro.
La scelta del campo come visto non è certo nuova alla Suprema Corte. In questo, come in altri casi passati al vaglio della Sesta Sezione penale[2], lo spostamento dell’angolo prospettico dell’indagine verso la veste formale del ricorso – i cui motivi svolgerebbero “… un’analitica valutazione del materiale probatorio, per trarne conclusioni diverse da quelle dei giudici di merito, quindi proponendo una lettura alternativa del materiale probatorio ed invitando questa Corte a procedere ad una nuova decisione di merito non consentita in questa sede ...” – esonera, di fatto, il giudice di legittimità dall’esame mirato della motivazione del giudice territoriale riguardante gli indizi di reato costituiti da sole intercettazioni di “droga telefonica”.
E’, infatti, rinvenibile negli innumerevoli arresti come quelli indicati, il richiamo, generico ed assolutamente immotivato, alla dogmatica “adeguatezza” dell’impianto motivazionale della Corte distrettuale. Invero la Suprema Corte legge solo il ricorso (e non la sentenza) e dunque, quantomeno per la parte concernente il suo incombente, il termine “rilettura” risulta del tutto inadeguato[3].
D’altra parte frequente carattere delle declaratorie della Cassazione di manifesta infondatezza dei ricorsi per vizio motivazionale, è una incompleta disamina dell’apparato motivazionale del quale ci si accontenta di “riferire” che esso è dotato di adeguato supporto logico a fronte anche di poderose argomentazioni difensive che evidenziano incongruenze logiche manifestamente risultanti dal testo del provvedimento.
Il giudizio “per saltum” direttamente sul ricorso e superando addirittura la lettura della sentenza impugnata (anche tralasciando i verbali) non appare giustificabile ex se né corretto senza il sostegno di un raffronto, anche sommario con il vizio motivazionale denunciato.
Ovviamente quello che interessa in questa sede non si ferma certo alla lacune argomentative del giudice di legittimità; va oltre.
In concreto ed in breve la illogicità motivazionale della sentenza della Corte territoriale lamentata nel ricorso, si evince non dal confronto con i verbali ma dalla testuale e manifesta “creazione” nel provvedimento del giudice di merito di una categoria logica singolare e anomala.
Può in sintesi l’interprete gebnerare il c.d. “indizio negativo”, cioè quello fondato su una sorta di aprioristico “dejà vu”, il “non può non essere… successo”, arrivando addirittura ad inserire il kantiano “noumeno” nella sequenza indiziaria imposta dall’art. 192 co.2 c.p.p.?
E’ accaduto spesso che il giudice territoriale accertasse la materiale cessione dello stupefacente “parlato” al telefono ricavandola non da un dato preciso evincibile da alcuna delle conversazioni telefoniche, ma ritenendola come esito finale, aprioristicamente ineludibile, delle conversazioni sospette.
Occorre precisare che spesso i ricorrenti non avanzano richiesta di sindacato di legittimità su specifici atti (oggi peraltro ammesso ai sensi della novella del 2006 meglio analizzata appresso) ma si limitano a censurare la manifesta (ed intrinseca) illogicità dell’assunto motivazionale[4] della sentenza di merito.
Occorre evidenziare come la sesta sezione invece individui “in via preliminare” la “manifesta infondatezza” dei motivi di ricorso.
Il frequente disposto della Suprema Corte stride con le sue stesse argomentazioni logiche poichè i ricorrenti avrebbero, nella prospettiva individuata, avanzato piuttosto motivi “non consentiti dalla legge”[5] che manifestamente infondati, in quanto costituenti nuova valutazione del materiale probatorio a fronte di adeguata motivazione della sentenza della Corte d’appello di Lecce.
Certo è che la sentenza annotata resta in bilico proprio lungo il confine della “adeguata motivazione” del giudice di merito, da intendersi come esposizione concisa sul fatto e sul diritto ricavabile dalle prove (artt. 192 co.1, 546 co.1 lett. e) e 125 comma 3 c.p.p.).
2. La riforma “Pecorella” ed il travisamento della prova
Passiamo all’analisi strutturale di un processo basato solo su intercettazioni telefoniche. Sulla concorrenza dei due vizi della sentenza quello procedurale e quello argomentativo meglio si dirà appresso.
In prossimità del territorio del procedimento indiziario – ove l’onere valutativo/espositivo della gravità, della precisione e della concordanza degli indizi ancora resiste come unico baluardo di “prova legale” nel processo penale (art. 192 co.2 c.p.p.)[6] – possibile appare l’inquadramento della stessa categoria di censura di legittimità come vizio formale (“inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di… inutilizzabilità..”) ovvero anche come vizio contenutistico (“mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione…”)[7].
Di supporto risulta essere in subiecta materia la distinzione rinvenibile in dottrina tra error in iudicando in iure ed error in iudicando in facto[8] che permette di collocare l’errata valutazione del compendio indiziario, comunque e sempre come error in iudicando in iure poiché l’error in iudicando in facto come vizio motivazionale ne costituirà la inevitabile conseguenza.
L’impostazione che precede appare pienamente condivisibile anche a seguito della modifica apportata all’art. 606, lett. e), c.p.p., dalla L. n. 46 del 2006 (c.d. Riforma “Pecorella”) per cui, anche con riferimento al vizio di “travisamento della prova”, nel giudizio di legittimità il “travisamento del fatto” non trova albergo, poiché la Corte di cassazione non può sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, mentre sindacabile rimane l’errore del giudice di merito che abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, poiché, in tale ipotesi, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano o meno[9].
Sarà dunque opportuno seguire quale sia il giusto percorso del giudice della sentenza che decida sulla congruità indiziaria e, cioè, se esso debba necessariamente sfociare nella motivazione (error in iudicando in facto) dopo aver lavorato sul piano (error in iudicando in iure) della legge processuale.
Qualunque sia l’impostazione da seguire in ogni caso in tema di c.d. “droga parlata” (sole intercettazioni nel compendio probatorio) la censura procedurale (art. 606 co.1 lett. c in comb. disp. con l’art. 192 co.2 c.p.p. oggi avallata dall’art. 546 comma 1 lett. e n. 4 come modificata dall’art. 1 comma 52 della legge 23/6/2017 n.103), ovvero quella consequenziale di peso motivazionale, trovano comunque insormontabili ostacoli innanzi alla sesta sezione del giudice penale di legittimità.
Il richiamo (non l’unico) della sesta sezione alla “improcedibilità” del ricorso in quanto “manifestamente infondato” con cui si rilevi il vizio in iure (e non in facto) dell’apparato motivazionale, appare incompleto e fuori misura soprattutto con riguardo alla ritenuta proposta dei ricorrenti di dare effettiva “rilettura” del materiale probatorio.
3. Motivazione e “regola di inferenza” in conversazioni telefoniche criptate
Quando il compendio probatorio sia costituito esclusivamente da intercettazioni telefoniche, la rilettura dei fatti/indizi – nel caso in esame come in altri – è la ineludibile conseguenza dal sindacato di legittimità e non l’oggetto primario dell’impugnazione.
Ferma restando la modifica apportata all’art. 606, lett. e), c.p.p., dalla L. n. 46 del 2006 (c.d. Riforma “Pecorella”), comunque la portata vincolante dell’art. 192 comma 2 c.p.p., in materia di prova indiziaria da ricavarsi da sole intercettazioni telefoniche (di traffici di stupefacente avvolti nel nebuloso alveo di conversazioni in cui gli interlocutori parlano di tutt’altro) impone all’interprete, a mente del novellato art. 546 comma 1 lett e) n. 4 c.p.p. di enunciare (anche solo concisamente) le ragioni con cui si sia individuata – in contrasto magari con diverse argomentazioni della difesa – una determinata “regola di inferenza” che abbia consentito, nella congerie di termini “criptati”, di decifrarli attraverso una “chiave” di decodificazione.
Di grande aiuto risulta in subiecta materia il lavoro di quella dottrina secondo cui “… tanto nell’accertamento del fatto oggetto di prova diretta, quanto nell’accertamento prima del fatto secondario e poi del fatto primario in caso di prova indiretta, il giudice opera in base ad una <regola di inferenza> (dal factum probans al factum probandum), che può essere una regola della logica, una legge scientifica universale o meramente probabilistica oppure una massima di esperienza…”[10]
Stante (tra gli altri) il richiamo dell’art. 192 comma 1 c.p.p. all’obbligo del giudice di indicare nella motivazione i criteri interpretativi delle prove, in caso di inosservanza del precetto procedurale il pronunciamento risulterà affetto dal peculiare vizio (tra quelli tassativamente indicati dall’art. 606 co.1 lett. e) c.p.p.) di “carenza” della motivazione[11] nei termini già specificati dall’art. 546 comma 1 cit.
Secondo un indiscusso orientamento di legittimità[12] sulla novella dell’art. 606, 1° co., lett. e) ad opera dell’art. 8, L. 20.2.2006, n. 46 (Riforma “Pecorella” cit.), la deduzione di vizi della motivazione permette il riferimento ad atti del processo specificamente indicati, ma rimane immutata la natura del sindacato di legittimità che non può mai risolversi nella rivisitazione dell’iter ricostruttivo del fatto e che, invece, deve limitarsi alla mera constatazione dell’eventuale travisamento della prova, che consiste nell’ “utilizzazione di una prova inesistente o nell’utilizzazione di un risultato di prova incontrovertibilmente diverso, nella sua oggettività, da quello effettivo”.
Tuttavia in molte inammissibilità in cassazione si scrive in modo del tutto lapidario che il ricorso propone una lettura “alternativa” del “materiale probatorio”[13].
Il sostantivo aggettivato genera complicazioni di comprensione, al di là di ogni purismo linguistico, se siano i fatti ad essere in riproposta lettura o se lo siano i mezzi di (ricerca della) prova.
In altri termini la doglianza attraverso cui si lamenta che ad un fatto/indizio sia stata attribuita una conseguenza naturalistica senza un riscontro in altro fatto/indizio e senza nemmeno indicare un coerente criterio, una legge della natura o dell’esperienza (insomma una “regola di inferenza” secondo la dottrina citata) per la sesta sezione costituisce “rilettura” non consentita di quel fatto stesso.
Meglio sarebbe stato se il giudice di legittimità avesse usato un “aggettivo sostantivato” invece di “aggettivare il sostantivo” in <materiale probatorio>, così spiegando se ad esempio con il termine “probatorio” si dovesse intendere il “risultato”, il “corporeo”, il passato ovvero il presente del participio dell’azione del “provare”, del “dare la prova”.
Al di là di elucubrazioni filologiche basti in questa sede rilevare che secondo la Suprema Corte l’inciso “materiale probatorio” gioca a sfavore dell’esponente tutte le volte in cui – come nei casi in esame – nella sentenza di merito sia proposta l’ontologica e naturalistica nozione, di un “non indizio”: il “non può non essere successo” come conseguenza, nemmeno probabilistica, ma meramente assiomatica.
E’ di tutta evidenza che è logicamente inaccettabile assurgere una “deduzione”, un “non fatto”, il “non accaduto” ma “supposto”, al livello di fatto confrontabile e misurabile in termini di gravità, precisione e concordanza con altri fatti.
Ed è altrettanto certo che i “fatti” nella dimensione pensata dal legislatore nell’art. 192 comma 2 c.p.p. assumo la caratura di mezzi di prova (da cui desumere l’esistenza di altri fatti).
Pertanto se nella sequenza dei fatti-indizi la sentenza promuove un “non fatto” o una “deduzione” al livello di mezzo strumentale di prova ecco che la rilettura proposta dal ricorrente riguarderà le prove e non i fatti da queste scaturenti.
Si è già detto che il “non può non essere successo” utilizzato dal giudice di merito risulta inidoneo a colmare la insufficienza dell’indizio “primario”.
Il richiamo ad un criterio retorico e tautologico – non scientifico perché l’esito del ragionamento è meramente “eventuale” (si badi, nemmeno “probabilistico”, ma solo “eventuale”) – risulta del tutto insufficiente come elemento in facto su cui si fonda la seconda proposizione di un sillogismo indiziario: quella proposizione esattamente voluta dal legislatore codicistico all’art. 192 co. 2 c.p.p. con il netto richiamo alla ineliminabile necessità sostanziale della pluralità e della concordanza degli indizi.
Si può, dunque, concludere che il motivo di ricorso che ritiene incongruo l’uso della regola di inferenza[14] con cui il giudice del merito ha coordinato i fatti indiziari, si muove non sul piano storico proponendo una diversa lettura degli accadimenti, ma piuttosto dialoga sul piano della logica ritenendo quella prescelta non conforme a quella processualmente organizzata (ex art. 192 comma 2 c.p.p.) quindi di per sé non può mai manifestare immediata infondatezza se non eventualmente solo dopo il vaglio dei passaggi deduttivi contestati .
E’ pur vero che se la illogicità della motivazione deve essere “manifesta”, dal suo canto, anche la logica alternativa proposta con il motivo di ricorso lo deve essere altrettanto, per non incorrere nel rischio di “eliminazione” previsto dall’art. 606 comma 3 c.p.p.
Tuttavia, considerando che tale tipo di esame diviene necessariamente comparativo tutte le volte in cui il motivo di ricorso indirizzi il sindacato di legittimità verso l’individuazione dell’incoerenza manifesta[15] dell’apparato argomentativo della sentenza su canoni predeterminati ex lege come nel caso previsto dall’art.192 comma 2 cit., ne deriva che quanto più è macroscopica l’illogicità o la carenza dell’assunto motivazionale, tanto più non potrà essere manifestamente infondato il motivo di ricorso.
Il vivace dibattito che segue, intorno alla contrastata collocazione della violazione dell’art. 192 comma 2 c.p.p. come vizio procedurale o come vizio motivazionale della sentenza, pone un interrogativo di fondo e, cioè, se possa ritenersi manifestamente infondato il motivo di ricorso per cassazione che sviluppi, anche con logica essenziale e minima, apprezzamento sulla sufficienza e/o coerenza probatoria nella sentenza di merito in processi in cui la prova sia solo indiziaria (come quelli di sole conversazioni telefoniche).
4. Il vizio di inosservanza di norme processuali su prove indiziarie ed il ricorso manifestamente infondato
Si è detto sopra che occorre verificare la possibile “autonomia” di un eventuale sindacato di legittimità nei termini previsti dall’art. 606 comma 1 lett. c) c.p.p. quando il ricorso riguardi la censura di insufficienza e/o incongruenza indiziaria ex art. 192 comma 2 c.p.p.
A prima vista il vizio motivazionale sembra poter concorrere con quello processuale in quanto esso sarà percepibile in sentenza, ictu oculi, non tanto come contrasto ad es. con una legge scientifica universale o meramente “probabilistica” oppure con una massima di esperienza, ma piuttosto, come discordanza proprio con quelle “regole della logica” prefissate dal legislatore (art. 192 comma 2 c.p.p.).
Si tenga fermo che l’art. 546, dopo aver stabilito, nel 1° co., l’obbligo di indicare nella sentenza le prove poste a base della decisione e l’enunciazione delle ragioni per cui il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, nel 3° comma richiama, nel prevedere i casi di nullità della sentenza, l’art. 125, 3° co., il quale, appunto, dispone che le sentenze siano motivate a pena di nullità.
Secondo un orientamento ogni vizio motivazionale – in particolar modo quello attinente alle prove ed ancor più incisivamente quelle indiziarie in seno alla disciplina rigorosa dell’art. 192 comma 2 c.p.p. – dovrebbe potersi ricondurre alla previsione di censura di cui alla lett. e) dell’art. 606 c.p.p.
In tale ottica tutte le nullità della motivazione sulle prove determinerebbero la ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 606, lett. e) in combinato disposto con l’art. 546 comma 3 – escludendo l’applicabilità della disposizione di carattere generale dell’art. 606, lett. c) – poiché il legislatore avrebbe modellato il vizio di motivazione sulla prova come causa di nullità solo per quella via sindacabile in cassazione – posto che non si spiegherebbe l’espressa previsione della lett. e) se l’ipotesi in essa contemplata fosse già ricompresa in quella più ampia della lettera c)[16].
Secondo tale condivisibile impostazione anche la violazione dell’art. 192 comma 2 – sebbene in apparenza vizio meglio qualificabile come processuale che motivazionale – andrebbe sindacata con il motivo di cui alla lett. e) dell’art. 606, piuttosto che con la censura prevista dalla lett. c) dello stesso articolo.
Ne deriva che la proposta soluzione conferma che il ricorso innanzi al giudice di legittimità che contesti la motivazione (art. 606 lett. e) cit.) la quale apertamente non rispetti la sequenza indiziaria causa/effetto – o interrompendo la catena degli indizi ovvero sostituendola con criteri non comunemente condivisi in tal modo violando manifestamente la “regola di inferenza” da ricercarsi secondo i criteri ex lege (art. 192 comma 2 c.p.p.) – sia in se stesso non manifestamente infondato quando proponga la diversa lettura dei dati.
Ciò perché quest’ultimi costituiscono fatti-probanti in via indiretta cioè prove (indizi) e quindi “fatti da cui dipende l’applicazione di norme processuali” (art. 192 comma 2), come tali idonei a provocare un vaglio del giudice di legittimità la cui richiesta, se del tutto coerente e non astrusa, mirando alla verifica dell’assolvimento da parte del giudice di merito dell’obbligo motivazionale nei confini del percorso prefissato per legge (artt. 546 comma 1 lett. e) n.4 e 125 comma 3 in comb. disp. con l’art. 192 comma 2 c.p.p.)[17], va assolta.
La richiesta di verifica del percorso motivazionale fissato in via normativa, se non astrusa, abnorme o delirante, ma coerentemente supportata dal criteri logici, non può per definizione e coerenza normativa essere dichiarata inammissibile per manifesta infondatezza.
A monte di pronuncia di inammissibilità della Suprema Corte deve essere, dunque, riconoscibile e descritta l’insufficienza argomentativa del ricorrente nella cui richiesta di sindacato manchi o non si ravvisi adeguata critica della regola di inferenza utilizzata dal giudice nella valutazione delle prove, tanto più quando quest’ultime sono solo ed esclusivamente indiziarie.
Né può trovare albergo in seno al giudizio di legittimità un ragionamento “basico”, secondo cui la presenza in ricorso di “ricostruzione del fatto”, anche quando la diversa lettura proposta riguarda il materiale probatorio costituito da soli fatti indiziari, evidenzierebbe in sé la manifesta infondatezza dell’impugnazione.
D’altra parte seguendo l’evoluzione normativa della materia, si registra invero che la problematica del c.d. “travisamento della prova” ha assunto una portata rilevante anche dopo la riforma dell’art. 606, 1° co., lett. e), ad opera della L. 20.2.2006, n. 46 (legge “Pecorella cit.)[18].
Infatti è con l’art. 1, 52° co., L. 23.6.2017, n. 103 che ha modificato l’art. 546 comma 1 lett. e) n. 4 che si è imposto al giudice di seguire dei precisi “snodi motivazionali” (peraltro a scopo deflattivo dei ricorsi per cassazione) che passino attraverso la valutazione motivata dei fatti da cui dipende l’applicazione di norme processuali.
Nel nuovo contesto normativo, dunque, non dovrebbe essere dichiarato improcedibile il ricorso che contesti il percorso motivazionale sull’inesatto, incompleto o mancante sillogismo probatorio e la rilettura del materiale processuale, poiché il sindacato di legittimità deve andare oltre la mera apparenza grafologica della motivazione, se mancante o abnorme è l’applicazione da parte del giudice territoriale della “regola di inferenza” nella valutazione prova, ovvero del fatto-indizio che prova ex lege.
Le sentenze richiamate al contrario dogmatizzano l’“adeguatezza” della motivazione del giudice territoriale in maniera del tutto astratta, senza trarre da essa alcun riferimento testuale e contenutistico, ritenuto comunque superfluo stante la assiomatica pronuncia di originaria insufficienza di un ricorso che voglia percorrere altre strade.
Sovrapponendo invece il piano storico a quello probatorio e superando la lettura del testo del giudice territoriale la Corte di Cassazione fa sì che anche il “non fatto” possa divenire “fatto” (“non può non essere successo”) stante la pretesa intangibilità del contenuto motivazionale.
In via dialettica la sentenza ha comunque il merito di aver provocato la riflessione sul sindacato del fatto che non sia solo tale, che non sia solo “output” ma anche “input” conoscitivo, cioè sia indizio.
Circa l’interrogativo se ci si muova nell’ambito dell’error in procedendo ovvero in quello del vizio motivazionale si è detto.
Va aggiunto che l’obbligo di utilizzo di una regola di inferenza da parte del giudice territoriale da enunciarsi nella motivazione fa propendere verso l’inquadramento del vizio procedurale come “conseguenza” della scelta interpretativa sulle prove, cosicché l’error in procedendo risulta “secondario” rispetto al vizio di motivazione in quanto si genera con l’insufficienza o incoerenza di quest’ultima (ancorché la nullità o l’inutilizzabilità della prova sia indubbiamente originaria rispetto al processo), con l’effetto che il ricorso che censuri solo il l’error in procedendo e non anche il secondo rischia di essere come tale insufficientemente fondato ai sensi del comma 3 dell’art. 606 c.p.p.
Non così la censura che contesti la regola di inferenza utilizzata dal giudice del merito nell’interfacciare i diversi fatti-indizi tra loro, manifestando del testo ad es. carenza o incoerenza nel ricavare le potenzialità effettuali dell’uno rispetto alla tesi propositiva dell’altro, ovvero l’inidoneità deduttiva di uno di essi e via dicendo.
In tali casi la critica dei fatti non costituisce mera rilettura del fattuale poiché è al contempo censura del metodo scientifico delle connessioni legali utilizzate dal giudice nello svolgere le dinamiche conoscitive imposte dall’art. 192 comma 2 c.p.p. e come tale il ricorso (al di là ovviamente di ipotesi farneticanti) assume un grado di preliminare valenza, un peso specifico, una capacità logico deduttiva sul percorso processuale ritenuto astrattamente corretto che difficilmente potrà coincidere con la manifesta infondatezza a meno di non ammettere la piena discrezionalità del giudice di legittimità nel ritenere ciò che è ammesso al suo vaglio e ciò che non lo è[19].
5. Il vizio manifesto di motivazione, il “non indizio” ed il ricorso manifestamente infondato dopo le novelle del 2006 e del 2017
In merito al ricorso con cui si lamenti mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione insieme ad autorevole dottrina va rilevato che l’ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione determinata da manifesta infondatezza dei motivi – istituto nato con il codice del 1930 e teso a scongiurare l’inarrestabile moltiplicazione dei ricorsi motivati da mere finalità dilatorie – non può che specificarsi come l’uso normativo dell’avverbio “manifestamente” indica – come in altre sedi codicistiche – la necessità che il difetto dell’atto di ricorso sia tale ictu oculi, cosicché è per definizione escluso che tale causa d’inammissibilità sia applicabile – salvo il caso limite del ricorso farneticante – alle richieste di censura di vizi della motivazione[20].
Si è naturalmente portati, infatti, a chiedersi perché siglare con l’epiteto di manifesta infondatezza il ricorso che contesti il sillogismo motivazionale palesemente falso, come quello con cui si prevede un esito comportamentale o naturalistico dato per scontato (“non può non essere successo”) senza indicarne le ragioni o, peggio ancora, i dati probanti di un evento del tutto ipotetico che viene dato invece per certamente accaduto.
Occorre all’uopo richiamare una recente pronuncia[21] la quale, schematicamente, ha tracciato una summa circa le ipotesi che portano la Cassazione a ritenere inammissibile un ricorso, che risulta tale, tra le altre ipotesi, quando “…in riferimento al vizio di motivazione, i motivi siano incentrati sul fatto, sul processo o sulla sentenza impugnata, e quindi si risolvano in censure o critiche vuote di significato in quanto manifestamente in contrasto con gli atti processuali …”.
Il ricorso che, dunque, contesti – supportando i propri assunti con logica anche elementare ma sostenibile – la valutazione dei “fatti-indizi” effettuata dal giudice in un processo esclusivamente indiziario, non solo non incentra l’esame “sul fatto”, ma anzi al contrario individua, contestandola sul piano logico, la regola di inferenza utilizzata ed ancora si muove sul piano delle prove, su cui vige (art. 546 comma 1 lett. e n.4 c.p.p.) un preciso obbligo di chiarezza e di percorso del giudice proprio su quei fatti, i quali assurgono dal piano naturalistico a quello normativo.
L’obbligo motivazionale è, dunque, specifico; e non solo: in perfetta armonia di sistema, dall’individuazione e dalla valenza attribuita in motivazione proprio ai fatti (indizianti) dipende l’applicazione di norme processuali e, cioè, nel caso in esame la elevazione ex lege al rango di prova di ciò che ancora prova non è (art. 192 comma 2 c.p.p.).
Con la riforma dell’art. 606, 1° co., lett. e, ad opera della L. 20.2.2006, n. 46 (c.d. “Riforma Pecorella”) e quella dell’art. 546 comma 1 lett. e n.4 ad opera dell’art. 1, comma 52, L. 23 giugno 2017, n. 103, non residua alcun dubbio che oggi rientri appieno fra i compiti della Corte di Cassazione, al cui esame sia il vizio di motivazione, anche l’indagine sul “travisamento della prova”, facendosi riferimento con tale espressione a «quel vizio in forza del quale la Corte… prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza travisamenti, all’interno della decisione,… potendosi apprezzare il travisamento della prova nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, il testimone indicato in sentenza non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (ad esempio, il testimone ha dichiarato qualcosa di diverso da quello rappresentato in sentenza oppure nella ricognizione il soggetto ha riconosciuto persona diversa da quella indicata in sentenza)»[22].
Ovvero quando il giudice abbia fondato il proprio convincimento – aggiungeremmo noi – “su una prova indiziaria” “palesemente estrapolata ben oltre i noti confini di gravità, precisione e concordanza previsti dall’art. 192 comma 2 c.p.p.”; fenomeno non infrequente in casi di conversazioni di stupefacente.
Se questo è il corretto iter logico seguito dalla Cassazione non si spiega l’atteggiamento della sesta sezione la quale in più di un’occasione ha mostrato riluttanza ad ammettere (già a monte) che il ricorrente possa lamentare che la motivazione abbia erroneamente veicolato sul piano meramente ipotetico le conseguenze della conversazione telefonica criptata senza alcuna verifica circa quella “resistenza”[23] – indicata dalle sezioni unite come passaggio necessario per la verifica di c.d. “decisività” del vizio motivazionale – di tutti gli elementi di prova acquisiti ed enunciati con il provvedimento impugnato.
Secondo alcuni autori, infatti, non è affatto necessario che il vizio dedotto dalla parte presenti uno spessore qualitativo tale che gli atti del processo su cui fa leva il ricorrente per sostenerne la sussistenza siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa così intensa da disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante, giacché ai fini dell’accoglimento (ed a maggior ragione della ammissibilità) della impugnazione in parola, infatti, è sufficiente che nella decisione sia stato utilizzato un elemento di conoscenza che non era entrato o era entrato abusivamente nel bagaglio conoscitivo del giudice, non rilevando poi che tale dato epistemologico sia o meno idoneo a giustificare autonomamente una diversa decisione: «basta che esso risulti contrastante con uno qualunque dei fatti, principali o secondari, che il giudice di merito ha tenuto per certi, [mentre,] verificare se la inserzione di una pur marginale tessera del mosaico che era stata trascurata conduce a ricomporre la decisione in modo differente costituirà il compito del giudice del rinvio» [24].
In definitiva non si esce dall’impasse: la “rilettura”, a valle della doglianza di travisamento delle prove (a maggior ragione se solo indiziarie), è una conseguenza ineliminabile mentre di per se stessa non può mai costituire indice univoco di inammissibilità del ricorso.
6. La droga parlata in decisioni di altre sezioni della Corte di Cassazione
E’ dato registrare, infatti, che all’esatto contrario dell’approccio della sesta sezione, in diverse pronunce di altra sezione, il Supremo Collegio dà per scontato che il ricorrente possa legittimamente chiedere la censura della sentenza causa la mancanza, nell’apparato motivazionale, di enunciazione della scelta e dei modi di utilizzo della regola di inferenza utilizzata dal giudice territoriale per interpretare il compendio probatorio costituito solo da intercettazioni telefoniche.
Non si può prescindere, innanzitutto, nell’esame dei diversi pronunciamenti, dalla circostanza che la terza sezione della Cassazione[25], a fronte di vari motivi di ricorso ritiene assorbenti quelli relativi al vizio motivazionale avanzato, sul piano argomentativo, unitamente al vizio processuale per mancata applicazione degli esatti criteri imposti dall’art. 192 comma 2 c.p.p.
Fermo restando quanto sopra dibattuto sul punto (v. cap. 3) non può non rilevarsi che l’arresto richiamato in nota[26] passi direttamente al vaglio della motivazione della sentenza di merito senza soffermarsi su alcuna preliminare indagine di ammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dello stesso.
L’impressione che si ricava dalla lettura del provvedimento è che secondo i giudici della terza sezione penale della Suprema Corte la doglianza di motivazione, ritenuta strictu sensu illogica (perlomeno nello specifico della denunciata incongruente gestione del patrimonio indiziario costituito da sole conversazioni telefoniche) sia di per sé idonea e bastevole a promuovere il vaglio della sentenza territoriale senza vincolo di prodromico esame di legittimità del ricorso (tutte le volte ovviamente in cui quest’ultimo non sia ictu oculi farneticante).
In altre parole la terza sezione sembra apertis verbis propendere per quella opinione rinvenibile in parte della dottrina[27] secondo cui la manifesta infondatezza del ricorso per cassazione non è logicamente rappresentabile, quando, al di là di casi di evidente delirio scritto, si contesti l’apparato motivazionale della sentenza.
La terza sezione, richiamando precedenti arresti di legittimità, ribadisce preliminarmente il principio – leggibile anche in una delle sentenza indicate[28] oggetto di studio – secondo cui la prova dei reati di spaccio di stupefacente può essere desunta anche da circostanze diverse dal suo rinvenimento ed anche in difetto di relativo sequestro, ma in questi casi, in cui gli elementi a carico consistono solo in intercettazioni telefoniche, la valutazione del giudice (nella sua applicazione della regola di inferenza) deve essere effettuata con particolare attenzione e rigore ed in proporzione al compendio probatorio (indiziario)[29].
Occorre dunque rilevare come l’arresto della terza sezione penale della Corte di Cassazione passi direttamente al vaglio della motivazione facendo anche specifico uso – se si fa attenzione – della cosiddetta “prova di resistenza” nei termini incentrati dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite[30], e dunque partendo non dai requisiti di ammissibilità dei motivi di ricorso ma sempre dalla sentenza impugnata.
Secondo la terza sezione è scontato che il ricorso approdi in via conseguenziale ad una diversa lettura dei fatti, trattandosi di fatti indiziari; né tantomeno esso va dichiarato inammissibile per questo, come invece si sostiene nella pronuncia della sesta sezione, la quale in concreto enuncia a cuor leggero l’esonero di sindacato sulla motivazione con il richiamo lapidario ed astratto al solo sostantivo di “adeguatezza” della stessa.
Con la sentenza del 2015 la terza sezione della Cassazione (che non manca del richiamo di precedenti) ribadisce l’indispensabilità, per la dimostrazione della responsabilità in caso di sole intercettazioni telefoniche, di un onere motivazionale che rigorosamente superi, in maniera proporzionale alla difficoltà di dimostrazione, i dubbi rinvenienti da “spazi ambigui” del compendio probatorio (rectius: indiziario) attraverso “…uno specifico intervento di integrazione deduttiva da intessere, appunto, nella motivazione …”[31].
Il confronto dei due pronunciamenti[32] permette di fotografare singolari similitudini tra le due vicende relativamente sia alla ritenuta irrilevanza di un sequestro di stupefacente troppo datato rispetto alle conversazioni telefoniche e quindi alla mancanza di un riscontro oggettivo sulla qualità e quantità dello stupefacente che rimane solo “parlato” nel processo, sia alla circostanza che anche il giudice di merito della vicenda in esame alla terza sezione penale della Corte di cassazione abbia, secondo un non giustificato criterio interpretativo, ritenuto che le conversazioni telefoniche lascerebbero “poco spazio all’immaginazione” permettendo in tal modo una finale e conclusiva congettura “auto materializzante” della cessione di stupefacente.
La censura motivazionale ad opera della terza sezione se affiancata sinotticamente con quella del 2018 della sesta, permette, in tema di droga rinvenibile solo in intercettazioni telefoniche, di trarre, dalla sovrapposizione logica dei concetti ricavabili da entrambe, una duplice considerazione.
Innanzitutto il doveroso inquadramento del compendio probatorio in un settore, per così dire, normativo, quando i fatti desumibili dalle conversazioni costituiscano gli unici mezzi di prova (rectius: di indizi), sicché la loro ricostruzione ad opera del ricorrente non solo non è vietata (con le gravissime conseguenze dell’art. 606 comma 3 c.p.p.) ma è anzi doverosa per rendere funzionale il ricorso stesso.
In secondo luogo l’obbligo motivazionale della copertura di “spazi ambigui” in zone criptate mediante integrazione deduttiva specifica, che dia puntuale contezza ex art. 546 comma 1 lett. e n. 4 di come si sia dato luogo – nell’ipotesi di conversazioni telefoniche intercettate costituenti il solo compendio indiziario, di norme processuali riconducibili nel caso di specie all’art. 192 comma 2 c.p.p. – tra una pluralità di indizi precisi e gravi, alla loro convergenza, individuando la determinata regola di inferenza che abbia permesso quella conclusione logica che giammai deve coincidere con una delle premesse del sillogismo deduttivo adottato.
Secondo la terza sezione il “non può non essere successo” dunque non potrà mai entrare a far parte di una logica motivazione.
7. Conclusioni
La riforma “Pecorella” prima e la novella dell’art. 546 comma 1 lett. e) n. 4 c.p.p. dopo, hanno aperto “sentiero” interpretativo che consente di stabilire in maniera definitiva quanto in fondo possa spingersi il ricorrente per cassazione che censuri il vizio motivazionale del giudice territoriale nella lettura dei verbali e nella riedizione dei fatti alla luce del lamentato travisamento della prova.
Tale ambito di indagine si rivela tanto più interessante quanto più l’analisi si indirizzi nello specifico esame di quella che può essere ritenuta, con assunto civilistico, l’unica ipotesi di prova legale nel processo penale e, cioè, la prova indiziaria soggetta al predicato normativo dell’art. 192 comma 2 c.p.p.
Infatti per sua natura la prova indiziaria è la più sensibile ad una non consentita ricostruzione dei fatti su cui essa verte ed il suo travisamento si registra tutte le volte in cui la motivazione del giudice ometta di qualificare le potenzialità causali del fatto indiziario attraverso una precisa regola di inferenza oppure ne utilizzi di assolutamente illogiche, aprioristiche o assiomatiche.
L’occasione era ghiotta per dare alle prove indirette una impostazione definitiva e coerente con quanto dal legislatore codicistico disposto proprio lungo la linea di confine tra error in procedendo ed error in iudicando nel sistema delle impugnazioni di legittimità che di recente, con la riforma “Pecorella” e quella successiva del 2017, aveva visto tracciare da un territorio all’altro la trasversale del travisamento probatorio in campo motivazionale.
La sfida obiettivamente era forte. Senza giri di parole si trattava di tirare una riga e fare il punto sulle possibilità di “affondo” del giudice di legittimità nell’indagine sulla congruità motivazionale di merito nel rispetto del divieto di tangibilità fatto nell’ambito della sindacabilità di prove illegittimamente acquisite.
Si deve purtroppo registrare che, come segnalato da un autorevole orientamento dottrinale[33], la Corte di Cassazione – presumibilmente scoraggiata dalle conseguenze che tale riforma poteva comportare, tanto in ordine al suo ruolo di giudice della mera legittimità della decisione, quanto considerando che la riforma avrebbe determinato uno spropositato aumento nella proposizione dei ricorsi, con probabile paralisi del funzionamento dell’istituto delle impugnazioni – ha ritenuto di dover fortemente contenere la possibilità di utilizzo dello strumento processuale disegnato dal citato art. 606, 1° co., lett. e), introducendo diverse regole che condizionano l’annullamento della sentenza impugnata ad alcuni presupposti tra cui la mancanza di “doppia conforme”, la “prova del dato probatorio invocato”, la “decisività” del vizio di contraddizione fra la motivazione e gli atti del processo.
Il sistema delle impugnazioni di legittimità continua, dunque, a soffrire del mal sottile della retorica applicata, nonostante gli sforzi del legislatore di orientare verso la chiarezza le incongruenze motivazionali per lo meno in tema di prove raccolte nel processo, soprattutto quello indiziario e soprattutto nel delicato ambito del mezzo di ricerca della prova costituito da (sole) intercettazioni telefoniche.
Conseguenza direttamente vissuta nella sentenza in analisi, in cui il “non può non essere successo”, alias “è successo” passa da “non fatto” a “fatto”; diviene “fatto storico” ciò che storico non è, acquisendo natura pseudonormativa e derivata.
Nel sistema a vaglio preventivo (del ricorso) anche la supposizione può diventare proposizione epistemologica: un uso autonomistico della “ipotesi” istruttoria, contro il quale il ricorrente, pur strutturando in modo più che ammissibile la proposta censura motivazionale, assiste inerte alla paralisi dell’approccio di legittimità, nonostante l’evidenza di una motivazione che sostenga l’abnorme, anche oltre ogni “doppia conforme”, ogni “prova del dato (non) probatorio invocato”, ogni “decisività” del vizio.
[1] V. Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 16/01/2018) 15-03-2018, n. 11997; Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 12/05/2015) 31-07-2015, n. 33875; Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 03/10/2013) 20-03-2014, n. 13085; Cass. pen. Sez. VI Sent., 11/02/2013, n. 11794.
[2] Cfr. nota 1.
[3] Cordero, “CODICE DI PROCEDURA PENALE COMMENTATO” commento all’art. 606, pag. 726: “… bisogna che il difetto emerga <dallo stesso sviluppo logico del provvedimento e non dalla diversa prospettiva adottata dal ricorrente>. Due discorsi malfermi. Se fosse davvero interdetto l’accesso ai verbali, essendo limitato l’orizzonte alle parole dei motivanti, ogni travisamento sarebbe irrimediabile …”.
[4] V. nota 1.
[5] V. in argomento Cass. pen. Sez. I, 12/11/1999, n. 14013 Luraschi in Cass. Pen., 2000, 3065; Arch. Nuova Proc. Pen., 2000, 25.
[6] E’ interessante registrare la nettezza del conflitto concettuale tra i due principi in vigenza del vecchio codice di rito. Si legga a tal proposito Cass. pen., 13/04/1984 in Riv. Pen., 1985, 608 “Nel procedimento indiziario, dominato dal principio secondo cui quae singula non probant, simul unita probant, non è sufficiente che gli indizi acquisiti siano valutati dal giudice di merito singolarmente presi, essendo, invece, necessario che gli stessi vengano altresì apprezzati globalmente, nelle reciproche connessioni; di conseguenza, una motivazione che desse certezza di una valutazione solamente frazionata di ognuno di essi, presa da sola e non in un quadro organico degli accadimenti processualmente acclarati, finirebbe col costituire motivazione apparente.” (Cass. pen., 13/04/1984 Pinto in Riv. Pen., 1985, 608).
[7] V. infra al n. 9.
[8] Scaparone Metello “La motivazione della sentenza penale” in Dir. Pen. e Processo, 2010, 4, 473 (commento alla normativa).
[9] V. per tutte Cass. pen. Sez. V, 11/01/2018, n. 10100.
[10] Si veda Scaparone Metello “La motivazione della sentenza penale” cit. “…Invece la prova indiretta (o, come la rubrica dell’art. 2729 c.c. dice, per presunzioni semplici) fornisce al giudice non la conoscenza del fatto che egli deve accertare, e che nel contesto della prova indiretta viene chiamato fatto primario, ma la conoscenza di un fatto cosiddetto secondario, ossia dell’indizio, dal cui accertamento il giudice può, alla luce di quella che vedremo essere una regola di inferenza, argomentare che il fatto primario è o non è accaduto ovvero può, come l’art. 2727 c.c. dice parlando delle presunzioni semplici, risalire dal fatto noto al fatto ignorato. Per esempio, nello stesso processo in cui Tizio è imputato di avere ucciso Caio, la prova narrativa è indiretta se il testimone narra al giudice non di avere visto Tizio accoltellare Caio, ma di avere sentito costui gridare in un’altra stanza “Tizio, non uccidermi!” oppure, o altresì, di avere visto Tizio uscire da quella stanza con un coltello insanguinato in mano…
Tanto nell’accertamento del fatto oggetto di prova diretta, quanto nell’accertamento prima del fatto secondario e poi del fatto primario in caso di prova indiretta, il giudice opera in base ad una regola di inferenza (dal factum probans al factum probandum), che può essere una regola della logica, una legge scientifica universale o meramente probabilistica oppure una massima di esperienza…
La prova diretta esige un solo passaggio inferenziale: dal fatto che funge da prova al fatto che deve essere accertato. Pertanto, posta la massima di esperienza per cui il testimone fisicamente capace di percepire, ricordare e narrare i fatti con i quali entra in contatto e non interessato a mentire, anzi tenuto da un imperativo penalmente sanzionato a dire il vero, deve essere creduto, il giudice dall’audizione del testimone Tizio argomenta che il fatto da lui narrato è accaduto.
La prova indiretta esige invece due passaggi inferenziali: il primo dal fatto, che funge da prova, al fatto cosiddetto secondario, e il secondo dal fatto secondario a quello primario. Per esempio, accertato in base ad una testimonianza che Caio è stato oggetto di una cosiddetta presentazione rituale ad una cosca mafiosa, il giudice, alla luce della massima di esperienza per cui chi è oggetto di una tale presentazione entra a fare parte dell’associazione delinquenziale, argomenta da questo fatto secondario che Caio è membro della cosca…”.
[11] Si veda Scaparone Metello “La motivazione della sentenza penale” cit. “… Infine l’illogicità della motivazione ricorre quando questa è completa e non contraddittoria, ma denota che il giudice nel valutare una prova, cioè nel trarre da questa l’accertamento del factum probandum (in caso di prova diretta) oppure nel trarre da essa l’accertamento vuoi dell’indizio vuoi del fatto primario (in caso di prova indiretta), ha utilizzato una regola di inferenza, in primo luogo, come abbiamo detto, una massima di esperienza, che non corrisponde allo stato delle conoscenze umane o non si adatta al caso considerato oppure ha applicato tale massima in modo scorretto…”.
[12] V. per tutte Cass. pen. Sez. VI, 04/05/2006, n. 33435 in Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 3, 383, Arch. Giur. Circolaz., 2007, 5, 565, Riv. Pen., 2007, 4, 443.
[13] Il sostantivo aggettivato utilizzato è testuale nella sentenza annotata.
[14] V. supra in nota 3.
[15] Sul termine manifesta, utilizzato non a caso dal legislatore occorre intendersi: l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (C., S.U., 24.9.2003, Petrella, cit., C., S.U., 24.11.1999, Spina, in ANPP, 2000, 21; C., Sez. IV, 12.6.2008, D.B., in Gdir, 2008, 42, 96).
Di talché, in ordine alla definizione dei confini del controllo di legittimità sulla motivazione in fatto, può dirsi ormai consolidato il principio giurisprudenziale, ripetuto in molte sentenze delle Sezioni Unite penali, per il quale la Corte di Cassazione ha il compito di controllare il ragionamento probatorio e la giustificazione della decisione del giudice di merito, non il contenuto della medesima, essendo essa giudice non del risultato probatorio, ma del relativo procedimento e della logicità del discorso argomentativo (C., S.U., 24.9.2003, Petrella, cit.; C., S.U., 21.6.2000, Tammaro, CP, 2000, 3259; C., S.U., 31.5.2000, Jakani, in CED Cassazione, 216260; C., S.U., 24.11.1999, Spina, in ANPP, 2000, 21; C., S.U., 30.4.1997, Dessimone, in CED Cassazione, 207944; C., S.U., 19.6.1996, Di Francesco, in CED Cassazione, 205621).
Va da sé che sussiste la ipotesi di manifesta illogicità della motivazione quando il giudice di merito, nel compiere l’esame degli elementi probatori sottoposti alla sua analisi e nell’esplicitare, in sentenza, l’iter logico seguito, si esprima attraverso una motivazione incoerente, incompiuta, monca e parziale. Invero il legislatore ha inteso equiparare la carenza di motivazione alla carenza di logica nella motivazione; detta carenza va desunta, più che dalla mancanza di parti espositive del discorso motivazionale, dalla assenza di singoli elementi esplicativi, i quali siano tali da costituire tappe indispensabili di un percorso logico argomentativo, che deve necessariamente snodarsi tra i temi sui quali il giudice è tenuto a formulare la sua valutazione (C., Sez. III, 16.3.2000, Frasca, in CED Cassazione, 215966).
Insomma, in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (C., Sez. II, 12.2.2009, in FAmbr 2009, 1, 74; C., Sez. IV, 9.2.2006, V., in GI 2007, 11, 2570; C., Sez. V, 11.6.2003, I., in CP, 2004, 2424; C., Sez. V, 30.11.1999, Moro, in CP, 2001, 183).
[16] Cass. pen. Sez. III, 09/02/1998, n. 3698 Martiniello (in Cass. Pen., 1999, 1157), ha evidenziato come la previsione di cui all’art. 606, 1° co., lett. e, in materia di vizio di motivazione, è da considerare specifica rispetto a quella di carattere generale di cui alla precedente lett. c dello stesso articolo, concernente la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza. Pertanto, anche quando il vizio di motivazione venga dedotto sotto il profilo della omessa valutazione di una prova (rectius: della sequenza indiziaria), è soltanto alla prima di dette disposizioni che occorre far riferimento, non potendosi considerare giuridicamente corretto il richiamo che si voglia fare alla seconda, ponendola in relazione all’obbligo di motivazione della sentenza, previsto dall’art. 546, 1° co., lett. e, e sanzionato di nullità ai sensi del combinato disposto del successivo e dell’art. 125, 3° co., stesso codice.
[17] L’art. 1, 52° co., L. 23.6.2017, n. 103 ha “irrobustito” la lett. e dell’articolo in commento nella prospettiva di imporre uno schema di motivazione che il giudice è chiamato a seguire. Ciò all’evidente scopo di rendere la decisione il più possibile fedele al processo e di offrire trasparenza al percorso motivazionale del giudice effettuato in riferimento – oltre a quanto già previsto nella versione previgente – alla decisione circa l’accertamento dei fatti e delle circostanze di cui all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena e delle misure di sicurezza, ai profili relativi alla responsabilità civile da reato, e agli aspetti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali che ora, pertanto, non potranno essere considerate assorbite nella decisione nel suo complesso (si pensi, ad esempio, al frequente silenzio in sentenze di appello ove nulla emerge in merito alla richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale).
L’obbligo per il giudice di seguire questi “snodi” motivazionali – anche se non è prevista una sanzione specifica che non sia per la parte il ricorso per vizio di motivazione e per il giudice quella disciplinare ricavabile dall’art. 124 – oltre che riflettere l’obbligo in capo all’impugnante di formulare motivi specifici in sede di impugnazione ex art. 581, sicuramente più agevole in virtù degli snodi motivazionali che deve contenere la sentenza, si prefigge lo scopo di ridurre le ipotesi di ricorso per cassazione per vizio di motivazione nell’apparato della sentenza – ipotesi molto frequente e quindi ancillare a deflazionare il carico di lavoro della Corte di cassazione -, sempre che il giudice nel motivare in ordine a quanto impone la nuova lett. e non incorra in vizi sul piano della logicità e della coerenza.
[18] In dottrina, prima dell’intervento di riforma, Iacoviello, Motivazione della sentenza penale, in Enc. Dir., agg. IV, Milano 2000, 791; Id., La motivazione della sentenza penale ed il suo controllo in Cassazione, 1099; Ceccaroni, Incompleta motivazione del giudice dell’impugnazione e riproduzione testuale nel ricorso dell’atto travisato, in DPP, 2003, 1099). Per il post riforma, Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, Torino 2006, passim; Id., La riforma dell’art. 606, 962; Costantino, La rilettura di elementi di fatto resta preclusa in Cassazione nonostante la riforma Pecorella, in GD, 2007, 12, 49; Lattanzi, Cassazione o terza istanza, in CP, 2007, 1369.
[19] “… Sarebbero guai se le decisioni arbitrarie fossero invulnerabili solo perché l’estensore le ha acconciate con qualche decoro …”, Cordero, “Codice di procedura penale commentato” cit. pag. 726.
[20] Cordero, “Procedura penale”, Milano, 2003, 975
[21] Cass. pen. Sez. II, 12/03/2019, n. 19411
[22] Cass. pen. Sez. II, 12/03/2019, n. 19411
Secondo Giuseppe Di Cesare, in Commento al CPP, art. 606, aggiornato da Filippo Giunchedi non vanno taciuti tuttavia <<alcuni orientamenti i quali, piuttosto che proporre un’improbabile interpretazione abrogans di questa previsione, hanno cercato di individuare le modalità e le condizioni in base alle quali il vizio di motivazione nella sua nuova conformazione può ora trovare ingresso in sede di legittimità: 1) in primo luogo, la Cassazione sostiene che la possibilità di un confronto fra il contenuto della motivazione e gli atti processuali a contenuto probatorio sarebbe precluso in caso di cosiddetta doppia conforme, salvo l’emergenza di un novum probatorio in sede di appello; tali asserzioni sono tanto frequenti nella giurisprudenza quanto prive di qualsiasi giustificazione, considerato che in nessuna delle pur numerose decisioni in cui la Suprema Corte pone il vincolo in parola è spiegato il perché di tale limitazione. La dottrina ovviamente contesta che la suddetta preclusione rappresenta un’indebita ed apodittica conclusione della giurisprudenza (Famiglietti, Decisività della prova travisata e ricorso per cassazione: le innovazioni apportate dalla “legge Pecorella”, in GI, 2007, 437). 2) La prova della verità dell’esistenza dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato. Assolutamente non condivisibile deve ritenersi poi un’altra delle condizioni richieste dalla giurisprudenza per l’ammissibilità della denuncia in Cassazione del vizio di travisamento della prova: si allude all’affermazione secondo cui il ricorrente, in sede di ricorso, deve fornire la dimostrazione non solo dell’effettiva esistenza dell’atto processuale esprimente il dato epistemologico oggetto dell’erronea percezione da parte del giudice di merito, ma deve anche provare la verità dell’elemento fattuale o del dato conoscitivo invocato a supporto dell’impugnazione (C., Sez. IV, 7.6.2007, Zuccotti, inedita; C., Sez. VI, 5.3.2004, Casula, in DG 2006,16, 40). In breve, deve ritenersi che la pretesa della giurisprudenza secondo la quale il ricorrente deve dimostrare la verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato a supporto dell’impugnazione individua un onere per la denuncia del vizio di motivazione che non ha alcun fondamento e che quindi non deve trovare cittadinanza nel nostro sistema delle impugnazioni in sede di legittimità (Capone, Brevi note sul concetto di controprova, in CP, 2007, 621). 3) Il carattere decisivo e la forza esplicativa della prova oggetto di travisamento. Le maggiori insistenze della giurisprudenza nella definizione dei requisiti di ammissibilità e fondatezza del ricorso per vizio di motivazione sub specie di “travisamento della prova” riguardano il carattere decisivo del vizio medesimo. Una volta preso atto che la modifica dell’art. 606, 1° co., lett. e consente di rilevare le lacune argomentative della sentenza anche al di là delle aporie e contraddizioni logiche presenti nel testo del provvedimento impugnato, la Corte di Cassazione – presumibilmente spaventata dalle conseguenze che tale riforma poteva comportare, tanto in ordine al suo ruolo di giudice della mera legittimità della decisione, quanto considerando che la riforma avrebbe determinato uno spropositato aumento nella proposizione dei ricorsi, con probabile paralisi del funzionamento dell’istituto delle impugnazioni (Capone, “La Corte di cassazione non giudica nel merito”. Nuovi sviluppi di un antico adagio, in RIDPP, 2006, 116; Follieri, Il sindacato della Corte di Cassazione sul vizio di motivazione, in CP, 2007, 2867) – ha ritenuto di dover fortemente contenere la possibilità di utilizzo dello strumento processuale disegnato dal citato art. 606, 1° co., lett. e, introducendo la regola che condiziona l’annullamento della sentenza impugnata alla decisività del vizio di contraddizione fra la motivazione e gli atti del processo. il ricorrente non può limitarsi a dimostrare che i contenuti di alcuni atti probatori da lui segnalati siano «contrastanti con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante… [occorrendo piuttosto] che gli atti del processo su cui fa leva il ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione» (C., Sez. IV, 7.6.2007, Zuccotti, inedita; C., Sez. VI, 5.3.2004, Casula, in DG, 2006, 16, 40). A tale conclusione, la Cassazione perviene evidenziando come essa «è chiamata a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”, controllo che, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi “atti del processo” e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del giudice… [Di contro,] un diverso modo di procedere – ed in particolare un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti nonché i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi – si risolverebbe in un’impropria riedizione del giudizio di merito e non assolverebbe alla funzione essenziale del sindacato sulla motivazione» (C., Sez. VI, 20.3.2006, Vecchio, in Mass. Uff., 233621; C., Sez. VI, 5.3.2004, Casula, in DG, 2006, 26, 40). Appare agevole contestare che è insostenibile richiedere che il vizio di travisamento della prova deve condurre ad un radicale ribaltamento del verdetto di colpevolezza o innocenza, giungendo a disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante sì da renderlo assolutamente illogico e contraddittorio. Come è noto, la regola che condiziona l’annullamento della sentenza impugnata alla decisività del vizio riscontrato in sede di legittimità è espressamente imposta dal legislatore solo in due ipotesi: dall’art. 619, 1° co. ed ai sensi dell’art. 606, 1° co., lett. d. È stata poi la giurisprudenza ad ampliare in maniera consistente l’operatività del criterio in discorso quale profilo dirimente per la definizione della sorte dei giudizi di cassazione, sostenendo che tale regola debba trovare applicazione anche in ipotesi ulteriori rispetto a quelle previste dal codice di rito, e cioè a) in caso di controllo sul vizio di motivazione – quando gli argomenti presenti in sentenza, pur essendo parzialmente lacunosi o illogici, siano comunque idonei a sorreggere il dispositivo (C., Sez. II, 14.11.1997, Meriani, in CP, 1999, 183) -, b) in caso di utilizzo di prove inutilizzabili – essendo ritenuto non decisivo il vizio se, oltre a quella vietata, vi sono altre prove che sorreggono la decisione (C., S.U., 21.6.2000, Tammaro, in CP, 2001, 2033) – ed infine c) nella fattispecie di controllo sull’errore di fatto ai sensi dell’art. 625 bis – avendo le Sezioni Unite sancito che l’impugnazione vada accolta solo se il lapsus percettivo in cui sono incorsi i giudici di legittimità abbia avuto un’effettiva incidenza sul ragionamento giudiziale, conducendo ad una decisione diversa da quella che, in assenza dell’errore, sarebbe stata adottata (C., S.U., 27.3.2002, De Lorenzo, in CP, 2002, 2616). La giurisprudenza della Cassazione, dunque, nelle ipotesi sopra indicate fa ricorso alla cosiddetta “prova di resistenza”, sostenendo che ai fini dell’accoglimento o rigetto del gravame occorre «valutare se gli elementi di prova acquisiti illegittimamente abbiano avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito. 4. L’autosufficienza del ricorso e indicazione gli atti probatori rilevanti. Per adempiere a tale condizione, dunque, il ricorrente deve – a pena di inammissibilità del ricorso – da un lato identificare l’atto processuale esprimente il dato cognitivo il cui significato sarebbe stato travisato dal giudice di merito (ad esempio, il verbale di testimonianza di Caio reso in data xx/yy/zz, ed eventualmente, ove necessario per la mole delle dichiarazioni rese dal medesimo teste, anche la parte del verbale rilevante), e dall’altro individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dalla sentenza impugnata (C., Sez. II, 24.5-9.6.2006, Saraceno, in Mass. Uff., 234163; Cass. Pen., Sez. I, 26.10.2006, A.S., in ANPP, 2007, 5, 639). Tali affermazioni paiono decisamente condivisibili>>.
[23] V. nota precedente al n. 3.
[24] V. Capone, Brevi note sul concetto di controprova decisiva, in CP, 2007, 621
[25] Cass. pen. Sez. III Sent., 25/03/2015, n. 16792 (rv. 263356).
[26] V. nota al n. 23.
[27] V. supra nota n. 18 ed ancora Nappi, “Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione”, Torino 2006, passim; Id., “La riforma dell’art. 606”, 962; Costantino, “La rilettura di elementi di fatto resta preclusa in Cassazione nonostante la riforma Pecorella”, in GD, 2007, 12, 49; Lattanzi, “Cassazione o terza istanza”, in CP, 2007, 1369
[28] V. Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 16/01/2018) 15-03-2018, n. 11997;
[29] Si legge testualmente nella sentenza in nota al n. 16 “… Che le intercettazioni richiamate avessero captato conversazioni scambiate con un linguaggio criptico emerge senz’altro dalle motivazioni, ma, come si è appena constatato, le “traduzioni”, peraltro non specificamente giustificate, dei giudici di merito non costruiscono un apparato motivazionale sufficiente a supportare l’imputazione per cui il D.B. è stato condannato. Se è vero, infatti, che la prova dei reati di illecita detenzione e di spaccio non deriva soltanto dal rinvenimento dello stupefacente, potendosi desumere anche da altre risultanze probatorie (cfr. Cass. sez. 4, 18 novembre 2009 n. 48008; Cass. sez. 4, 28 ottobre 2005 n. 46299; Cass. sez. 6, 14 ottobre 1986 n. 13904) – al punto che si è recentemente affermato (per quanto in difformità rispetto a un altro, non remoto arresto: Cass. sez. 6, 16 ottobre 2008 – 19 gennaio 2009 n. 1870) che pure l’aggravante di ingente quantità D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 80, comma 2, può ritenersi sussistente in difetto di sequestro della sostanza, purchè vi siano elementi di prova certi che consentono di pervenire indirettamente alla individuazione del dato quantitativo, come, appunto, le conversazioni telefoniche intercettate (così Cass. sez. 4, 5 luglio 2013 n. 46194) -, è parimenti da considerare, però, che, se gli elementi a carico di un soggetto consistono in mere dichiarazioni senza riscontri oggettivi, la loro valutazione deve essere espletata dal giudice con particolare attenzione e rigore, ovvero in proporzione al contenuto limitato del compendio probatorio (cfr. p.es. Cass. sez. 6, 19 dicembre 2013-31 gennaio 2014 n. 5073, per l’ipotesi, affine, in cui gli elementi a carico consistano esclusivamente in intercettate dichiarazioni fra terzi) …”.
[30] V. nota n. 20 (al n. 3).
[31] Sempre dalla sentenza “… Nel caso in esame, si ripete, vi è stato un unico sequestro di 250 grammi di hashish alla madre dell’imputato, ma nulla è stato riscontrato a proposito di cocaina e di eroina, nè a proposito di spostamenti di denaro: e su tali caratteristiche indubbiamente significative (cfr. art. 533 c.p.p., comma 1) della vicenda nessuna spiegazione hanno fornito i giudici di merito, nè in primo nè in secondo grado. L’obbligo di motivazione, del resto, a ben guardare si conforma in generale secondo un canone di proporzione all’oggetto della motivazione stessa. Questa, invero, dovrà dare trasparenza alla decisione giurisdizionale in misura direttamente proporzionale alla difficoltà di dimostrazione (entro certi limiti, la verità giuridica può dirsi “prefabbricata” in quanto appare in re ipsa, quando emerge in modo inequivoco dalle fonti gnoseologiche), ovvero dovrà essere – ed è lo stesso concetto nella forma evincibile dal principio dell’art. 533 c.p.p., comma 1 – fornita in misura proporzionale alla configurabilità, quale esito del compendio probatorio di per sè, di ragionevoli dubbi, che costituiscono gli spazi ambigui (superstiti all’assenza di ragionevole dubbio possono rimanere soltanto quelle eventualità remote che non hanno nel caso concreto alcun supporto: Cass. sez. 2, 19 dicembre 2014-21 gennaio 2015 n. 2548; Cass. sez. 1, 18 aprile 2013 n. 44324; Cass. sez. 1, 3 marzo 2010 n. 17921; Cass. sez. 1, 8 maggio 2009 n. 23813; Cass. sez. 1, 21 maggio 2008 n. 31456), id est non colmati nella struttura di ricostruzione dei fatti che si desume dalla diretta percezione dell’esito suddetto, e che pertanto necessitano uno specifico intervento di integrazione deduttiva da intessere, appunto, nella motivazione.
E’ pertanto fondato il motivo anche in riferimento alla denuncia di violazione degli artt. 192 e 533 c.p.p., non avendo il giudice di merito proceduto nell’apparato motivazionale alla luce dei parametri dettati da tali norme, in particolare non avendo dato adeguato “conto nella motivazione” dei risultati acquisiti, non avendo congruamente illustrato le caratteristiche del quadro indiziario – così deve qualificarsi il compendio di intercettazioni, per di più criptiche …”
[32] Il raffronto riguarda ovviamente la sentenza della sesta sezione annotata e quella della terza richiamata in nota 16.
[33] Capone, “La Corte di cassazione non giudica nel merito”. Nuovi sviluppi di un antico adagio, in RIDPP, 2006, 116; Follieri, Il sindacato della Corte di Cassazione sul vizio di motivazione, in CP, 2007, 2867)
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