Due interventi del giudice amministrativo in materia di edilizia
Le sentenze del Consiglio di Stato 5193/2024 e del T.A.R. Campania 1460/2024.
di Michele Di Salvo
Nel primo caso in commento, il Consiglio di Stato con la sentenza 5193/2024 ha stabilito che il mancato intervento edilizio obbliga il Comune a restituire le somme ricevute.
Quando gli oneri di urbanizzazione, ovvero conseguenti a monetizzazione di standard, sono pagati a fronte del mero rilascio di un titolo edilizio, e il relativo intervento non viene in fatto realizzato, le somme pagate sono oggettivamente indebite e devono essere restituite perché mancano la trasformazione del territorio e l’aumento del carico urbanistico. Il Consiglio di Stato ha ordinato al Comune di Salò la restituzione degli oneri di urbanizzazione e della polizza fideiussoria pagati da una società in liquidazione. Questo intervento, previsto ma mai iniziato, ha sollevato importanti questioni giuridiche riguardo la decadenza dei permessi di costruzione e la restituzione delle somme versate a titolo di monetizzazione delle aree a standard.
Il Consiglio ha stabilito che, in assenza di una reale trasformazione del territorio e dell’aumento del carico urbanistico, il presupposto per il pagamento delle somme non sussiste più, rendendo legittima la richiesta di restituzione.
La sentenza del Consiglio di Stato non solo obbliga il Comune di Salò a restituire le somme e la polizza fideiussoria, ma include anche il pagamento degli interessi legali a partire dalla data della prima richiesta di restituzione effettuata in via stragiudiziale.
Questa sentenza rappresenta un importante precedente in materia di restituzione degli oneri di urbanizzazione e monetizzazione delle aree a standard in casi di mancata realizzazione degli interventi edilizi. Essa ribadisce il principio secondo cui le somme versate per la concessione di permessi di costruire devono essere restituite in assenza di una reale trasformazione urbanistica del territorio.
Il secondo caso riguarda la SCIA in sanatoria. Secondo il Tar Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 11 luglio 2024, n. 1460: l’Amministrazione deve pronunciarsi con un provvedimento espresso.
In caso di SCIA in sanatoria il procedimento può ritenersi favorevolmente concluso per il privato solo allorquando vi sia un provvedimento espresso dell’amministrazione procedente, pena la sussistenza di un’ipotesi di silenzio inadempimento.
Il Comune deve pronunciarsi, con un provvedimento espresso, sulla SCIA in sanatoria, previa verifica dei relativi presupposti di natura urbanistico-edilizia di cui al citato art. 37D.P.R. n. 380 del 2001.
La natura giuridica della SCIA esclude che l’autorità procedente debba comunicare al segnalante l’avvio del procedimento prima dell’esercizio dei relativi poteri di controllo e inibitori; il denunciante la SCIA, è titolare di una posizione soggettiva originaria che rinviene il suo fondamento diretto e immediato nella legge che non ha bisogno di alcun consenso da parte dell’Amministrazione e, pertanto, la segnalazione di inizio attività non instaura alcun procedimento autorizzatorio destinato a culminare in un atto finale di assenso, espresso o tacito, da parte dell’Amministrazione; in assenza di procedimento, non c’è spazio per la comunicazione di avvio, per il preavviso di rigetto o per atti sospensivi da parte dell’Amministrazione.
Questi due provvedimenti apparentemente hanno in comune solo la materia generale, ovvero la materia edilizia.
In realtà chiariscono due argini simmetrici alle interpretazioni “in eccesso di potere” delle pubbliche amministrazioni.
La prima indica con chiarezza che il dovere di pagamento di determinati oneri – in senso analogico estensivo qualsiasi onere – non può non essere legato alla prestazione corrispondente. Ciò deve valere ancor più verso la pubblica amministrazione.
La seconda indica che quando un diritto rinviene il suo fondamento diretto e immediato nella legge che non ha bisogno di alcun consenso da parte dell’Amministrazione. La stessa non può giustificare un proprio eventuale ritardo in interpretazioni atipiche.
Questi due principi dovrebbero essere assodati e chiari, e certamente lo sono nei rapporti tra privati. Ciò è dovuto principalmente al fatto che il privato che volesse negarli dovrebbe sostenere in prima persona gli oneri – anche economici – del giudizio.
In questa simmetria vi è anche la fonte di una potenziale deflazione del ricorso alla giustizia.
Così non è nei confronti della pubblica amministrazione.
In entrambi i giudizi è stato il privato a dover sostenere tutti i costi per far valere un proprio diritto. Né vale che alla fine vi sia una condanna della pubblica amministrazione. Infatti la PA agisce attraverso la decisione e le scelte di persone. Quando queste sbagliano non hanno alcuna responsabilità in concreto. E quando interviene la condanna economica, le risorse pagate dalla PA sono sempre quelle provenienti dalla fiscalità generale. In concreto e di fatto tutti noi paghiamo l’errore (colposo o doloso) della misinterpretazione del dirigente.
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