È concorso tra detenzione e porto d’armi comuni e clandestine?

È concorso tra detenzione e porto d’armi comuni e clandestine?

Preliminarmente occorre chiarire che una determinata fattispecie può integrare la commissione di un solo reato ovvero una commissione plurima di più reati. L’unitarietà e la pluralità di reati rilevano, in particolare, ai fini dell’individuazione della norma penale applicabile al caso di specie, soprattutto se si rilevano più norme incriminatrici riferibili ad un medesimo fatto. La questione è agevole se il reato è unico, ovvero, secondo la giurisprudenza, quando sono ravvisabili contestualmente un’unica condotta, un unico nesso di causalità, un unico evento, un’unica volontà, tali per cui ad un unico fatto illecito è applicabile in concreto una sola norma incriminatrice. La questione si complica se si ravvisano invece ipotesi di concorso di reati, ovvero quando si rilevi una presenza plurima, anche solo di uno, dei citati elementi, o di concorso apparente di norme, ovvero quando si rilevano più norme ritenute tutte apparentemente applicabili. Tale distinzione rileva in primis sul piano del trattamento sanzionatorio.

In ordine al concorso di reati, l’ordinamento distingue due possibili situazioni: il concorso materiale di reati ed il concorso formale di reati. Il primo si costituisce quando un soggetto compie più reati con una pluralità di azioni od omissioni, che possono consistere in violazioni della medesima fattispecie incriminatrice, ed in tal caso si configura un concorso materiale omogeneo, o in violazioni di norme diverse, in tal caso si configura un concorso materiale eterogeneo. A titolo esemplificativo, si avrà un concorso omogeneo di reati quando Tizio commette più omicidi, in quanto commette più fatti illeciti in violazione della medesima norma incriminatrice; si avrà un concorso eterogeneo di reati quando Tizio ruba un’auto e commette poi una rapina, ovvero commette più reati in violazione di disposizioni diverse. Per tali ipotesi, l’ordinamento prevede il trattamento sanzionatorio del cumulo materiale, ovvero l’applicazione di tutte le pene comminate per i singoli reati commessi, pur con i dovuti temperamenti previsti dagli articoli 78 e 79 c.p. (in riferimento alle pene detentive, la pena inflitta non può superare il quintuplo della pena più grave fra quelle concorrenti, né comunque può eccedere i trenta anni nell’ipotesi di reclusione e i sei anni per l’arresto).

Il concorso formale di reati si configura ai sensi dell’articolo 81 c.p. nel caso in cui l’agente con un’unica azione od omissione commette più violazioni di norme incriminatrici, ponendo in essere una pluralità di reati. Anche il concorso formale può essere omogeneo o eterogeneo. È omogeneo quando l’agente con un’unica azione od omissione violi la stessa disposizione: ad esempio, Tizio innesca un ordigno e cagiona la morte di una pluralità di persone, violando così contestualmente la stessa norma incriminatrice relativa al reato di omicidio. Il concorso è eterogeneo quando l’agente contestualmente con un’unica azione od omissione viola più norme incriminatrici, commettendo più reati diversi tra loro: ad esempio, Tizio violenta la figlia commettendo così sia il reato di violenza sessuale, sia il reato di incesto. Per tali ipotesi, l’ordinamento prevede il trattamento sanzionatorio del cumulo giuridico, ovvero l’applicazione della pena che dovrebbe infliggersi per il reato più grave aumentata fino al triplo in relazione alle altre violazioni commesse.

Risulta quindi fondamentale distinguere tra unità o pluralità di azioni od omissioni. In riferimento alla unicità dell’azione richiesta dall’ordinamento come presupposto per la configurazione del concorso formale di reati, sia omogeneo che eterogeneo, la dottrina si è divisa in due orientamenti: tra chi sostiene la tesi naturalistica, per cui l’unicità dell’azione è data dalla contestualità degli atti, l’unicità del fine e dell’evento, avendo riguardo al processo esecutivo, anche muscolare, e volitivo dell’agente; e chi sostiene la tesi normativa, rilevando l’unicità del processo esecutivo avendo riguardo ai presupposti minimi richiesti integranti la norma incriminatrice violata.

Con riguardo ai reati colposi, la dottrina ritiene configurabile un concorso formale di reati anche quando l’agente sia colpevole di più violazioni di doveri di diligenza, ma produca lo stesso contestualmente l’evento; si ritiene invece esistente un concorso materiale di reati quando l’agente ponga in essere più eventi diversi per una pluralità di violazioni di doveri di diligenza che aveva invece l’obbligo di adempiere.

Con riguardo ai reati omissivi, in ordine ai reati omissivi propri, la dottrina ravvisa un concorso formale di reati quando l’agente commette violazioni di più obblighi che avrebbe dovuto adempiere contemporaneamente tra loro; per i reati omissivi impropri, invece, si ritiene configurabile il concorso materiale di reati quando una pluralità di violazioni comporta una pluralità di eventi, il concorso formale quando i diversi eventi prodotti potevano essere impediti solo attivandosi contemporaneamente.

Si ricorre invece alla individuazione tra unità e pluralità di reati in ordine alla distinzione tra concorso formale di reati, in particolare omogeneo, e reato unitario.

La dottrina si è divisa sul punto, tra chi sostiene la tesi naturalistica, che fa prevalere l’elemento psicologico e fisico dell’agente, e la tesi normativa, che fa invece rivalsa sul dettato normativo. In particolare, secondo la dottrina maggioritaria intervenuta sulla delicata questione identificativa nel caso di ripetizione della stessa condotta dell’agente nello stesso contesto temporale, ha ritenuto di avvalersi del parametro conferito dal rapporto sussistente tra soggetto passivo e natura del bene giuridico tutelato. Ha rilevato in tal modo che si configura un concorso formale di reati ogni qualvolta l’agente leda beni altamente personali, come la vita, l’integrità fisica, l’onore e la reputazione; configurando invece un unico reato quando l’agente violi con la sua condotta beni non propriamente strettamente personali, come gli interessi patrimoniali.

Il concorso apparente di norme si ravvisa quando l’azione o l’omissione dell’agente comporta apparentemente l’applicazione di più norme che sembrano tutte disciplinare di prima facie il medesimo fatto, ma di cui solo una è effettivamente applicabile al caso concreto. I presupposti: l’esistenza di più norme incriminatrici applicabili; l’identità del fatto incriminato; la circostanza finale che tra tali norme solo una è effettivamente applicabile in base a determinati criteri; la configurazione finale di un unico reato.  Il concorso formale di norme è regolato essenzialmente dall’articolo 15 c.p., secondo il quale, in caso di più disposizioni di legge regolatrici della stessa materia, la norma speciale deroga a quella generale, salvo sia stabilito diversamente. In ordine alla forza di tale disposizione, la dottrina si divide in due ulteriori orientamenti: la teoria monistica, che valorizza il solo dato letterale del citato articolo 15, ravvisando nella specialità l’unico criterio regolatore del concorso apparente di norme; e la teoria pluralistica, seppur fortemente criticata anche dalla giurisprudenza più recente, che, invece, riconosce l’esistenza di altri criteri da affiancare a quello della specialità, che trovano fondamento nell’apprezzamento di valore del fatto concreto, quali il principio di sussidiarietà ed il principio di assorbimento.

Segnatamente, il principio di specialità sussiste quando una norma speciale contiene tutti gli elementi costitutivi di un’altra disposizione regolante la stessa materia, assunta a generale, ma aggiungendo a questa un contenuto ulteriore specializzante. Per stessa materia, in passato si riteneva il riferimento allo stesso bene giuridico tutelato, ma tale interpretazione è stata oggetto di critiche, in quanto si ritiene sia ravvisabile un’identità di interesse tutelato anche tra fattispecie del tutto diverse tra loro, come per il furto e la truffa in cui il bene giuridico tutelato è sempre il patrimonio, o una diversità di interesse tutelato tra fattispecie in evidente rapporto di specialità, come per l’ingiuria, offensiva dell’onore, e l’oltraggio a magistrato in udienza, offensivo del prestigio dell’amministrazione della giustizia. Pertanto, la giurisprudenza e la dottrina più recenti sembrano ricorrere al parametro dello stesso settore dell’attività umana.

Secondo il principio di sussidiarietà, invece, la legge sussidiaria troverebbe applicazione ove non sia applicabile la legge primaria in tutte quelle ipotesi in cui tra fattispecie astratte sussista un rapporto di complementarietà: ovvero, quando due norme penali tutelano un medesimo bene giuridico, ma in stadi diversi di aggressione, ad esempio tra fattispecie di pericolo e fattispecie di lesione; ovvero, si applica la norma che presenta l’interesse più importante da tutelare.

Il principio di assorbimento, o di consunzione, è applicabile, invece, quando la più grave tra le norme incriminatrici applicabili al caso concreto esaurisca in sé il disvalore del caso stesso, rendendo ultronea l’irrogazione di sanzioni ulteriori. La prevalenza deve riconoscersi pertanto alla norma che prevede il trattamento penale più grave.

Sul rapporto tra fattispecie incriminatrici è recentemente intervenuta la Corte costituzionale che si è soffermata sul tema della comparazione tra fatto già giudicato definitivamente e fatto oggetto di una nuova azione penale nei confronti del medesimo soggetto, ai fini delle operatività del divieto di cui all’articolo 649 c.p.p., facendo richiamo al rapporto strutturale tra diverse fattispecie di reato, secondo il principio di specialità. In caso di instaurazione di un secondo giudizio, per lo stesso fatto, l’idem factum, e a carico del medesimo imputato, secondo la corte devono essere attribuiti all’imputato tutti gli illeciti che sono stati consumati attraverso un’unica condotta commissiva o omissiva solo nell’ipotesi in cui il giudice ritenga di escludere che tra le norme incriminatrici viga un rapporto di specialità, ovvero quando ravvisi un concorso apparente tra le disposizioni violate, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro. La Corte, infatti, richiamando il Protocollo CEDU che sancisce il divieto del ne bis in idem, ritiene che un’interpretazione dell’articolo 649 c.p.p. svincolata dalla sola condotta ed estesa all’oggetto fisico di questa o all’evento in senso naturalistico, realizzi un contrasto con il vincolo derivante dalla CEDU medesima, in quanto ritiene che l’identità del fatto, ai fini preclusivi imposti dalla regola del ne bis in idem, sussista quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato considerando tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e avendo riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.

Il diritto vivente, inoltre, così come confermato dalla giurisprudenza costituzionale, ritiene che non è applicabile il principio del ne bis in idem ove il reato già giudicato in un primo processo, sia stato commesso in concorso formale con il reato oggetto di un secondo giudizio. L’autorità giudiziaria, pertanto, nel verificare l’ambito di operatività della preclusione di cui all’articolo 649 dovrà confrontare il fatto storico in base all’esito processuale ottenuto alla conclusione del primo processo, ed il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione fondante il secondo giudizio.

Alla luce di tali osservazioni, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile ed il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.

Di recente è intervenuta la Corte di cassazione, a sezioni unite, con la sentenza del 12 settembre 2017, n. 41588, chiamata a rispondere relativamente al rapporto intercorrente tra i reati di detenzione e porto di arma comune da sparo ed i reati di detenzione e porto di arma clandestina, affrontando nel caso di specie l’evoluzione giurisprudenziale della materia in esame.

Sin dalla fine degli anni settanta la giurisprudenza ha ritenuto saldo l’orientamento secondo il quale la disciplina relativa alla detenzione e al porto di armi comuni da sparo, e quella relativa al porto in luogo pubblico di armi comuni da sparo clandestine concorressero, in quanto si riteneva che tutelassero beni giuridici diversi, ovvero che fossero diversi gli interessi rispettivamente protetti. In particolare, la prima disciplina si concentra sull’esigenza di porre l’autorità in grado di conoscere con tempestività l’esistenza di armi, i luoghi ove esse si trovino e le persone che le posseggono; mentre la seconda vuole garantire l’accertamento della presenza nel territorio dello Stato di armi prive di segni o contrassegni di identificazione, e tutela quindi l’interesse della pubblica amministrazione a che tutte le armi esistenti sul territorio nazionale siano controllate e munite dei prescritti segni di identificazione. Le sezioni unite, intervenute a più riprese, hanno sempre sostenuto che tra le due fattispecie non si ravvisi alcun assorbimento, non solo rilevando la diversità di bene giuridico tutelato, ma riscontrando anche una diversità della condotta posta in essere dall’agente.

Tuttavia, a ben vedere, la legge che disciplina il reato della detenzione e del porto d’armi, nel prevedere specifiche circostanze aggravanti derivanti dal concorso di più persone o dai luoghi nei quali la condotta venga realizzata, inserisce una clausola di sussidiarietà che impone l’applicazione della sola norma incriminatrice di cui il porto dell’arma costituisce elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica, pure a fronte della ricorrenza degli elementi costitutivi delle richiamate aggravanti. Secondo la corte suprema, pertanto, oltre a verificare la configurabilità delle aggravanti cui fa rimando la clausola di riserva richiamata, l’interprete dovrà anche verificare se le stesse fattispecie di detenzione e porto di armi comuni da sparo risultino recessive rispetto ad altre ipotesi di reato, secondo la regola generale posta dall’articolo 15 c.p.. Si dovrà, quindi, procedere ad un confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurabili mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le diverse fattispecie di reato regolanti la stessa materia.

La conclusione giurisprudenziale ritiene pertanto che i delitti di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo non concorrono, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ma che la seconda fattispecie assorba la prima per concorso apparente di norme.


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Giulia Colombesi

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