È lecito “customizzare” prodotti di un brand altrui?
Sempre più di frequente capita di assistere al fenomeno del c.d. customizing, ovverosia alla condotta di chi personalizza prodotti a marchio altrui per poi rivenderli ai consumatori finali. Ci si è da tempo interrogati, tuttavia, sulla legittimità o meno di simili comportamenti.
Volendo cercare di fare chiarezza sul punto, occorre però anzitutto inquadrare esattamente il fenomeno. Vi possono essere, invero, una molteplicità di condotte (solo apparentemente) simili, ma che integrano fattispecie diverse e producono, perciò, differenti effetti sul piano giuridico.
Ancor prima, peraltro, occorre partire da un principio contenuto nel Codice della proprietà industriale (D.lgs. 30/2005): all’art. 5 del Codice si prevede il c.d. principio dell’esaurimento del marchio, per cui “le facoltà esclusive attribuite […] al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso […]” (comma 1). In altri termini, se da una parte la registrazione del marchio fornisce protezione e diritti al suo titolare (come quello di valersene in modo esclusivo e di vietarne l’uso senza il proprio consenso), dall’altra parte tale protezione si esaurisce una volta immesso il prodotto sul mercato.
In tal senso, allora, acquistare – per esempio – un certo oggetto di un marchio famoso, magari realizzato in edizione limitata, per poi rivenderlo ad un prezzo maggiorato e quindi ricavarne un utile, è condotta da ritenersi perfettamente lecita proprio in forza del suddetto principio. Con la commercializzazione del prodotto, infatti, il titolare del marchio non può più impedire la rivendita dell’oggetto per come immesso sul mercato. Non a caso si parla, a tal proposito, di reselling.
Il principio dell’esaurimento, tuttavia, trova a sua volta una eccezione dettata dal secondo comma del medesimo art. 5 D.lgs. 30/2005: la limitazione dei poteri del titolare del marchio prevista al comma 1, invero, “non si applica quando sussistano motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio”. Ed è proprio tale eccezione che viene in rilievo in relazione al fenomeno del customizing.
Possiamo parlare di customizing, infatti, quando un soggetto acquista un certo prodotto di un brand e – senza il consenso del titolare del marchio – lo modifica, lo personalizza, appunto, rivendendolo poi a terzi così come modificato.
In particolare, per aversi customizing si ritiene che il prodotto rivenduto debba essere nuovo e diverso rispetto a quello immesso sul mercato dal titolare del marchio e, dunque, commercializzato senza il consenso di questi.
Si pensi, ad esempio, al soggetto che personalizzi a tal punto determinate scarpe di un certo brand – magari cambiandone il colore e l’aspetto – da andare, di fatto, a stravolgere il prodotto originale, per poi rivenderle ad un prezzo maggiorato facendo leva proprio sull’esclusività del prodotto che si è venuti in tal modo a creare.
Ebbene, un tale comportamento deve ritenersi senz’altro illecito nel momento in cui si va ad ingenerare nei consumatori la convinzione che le modifiche apportate all’oggetto – che lo vanno a contraddistinguere rispetto alla generalità degli esemplari originali – siano frutto del titolare del marchio o, comunque, siano state da questi autorizzate.
Va ad integrare una condotta illecita, inoltre, anche il soggetto che, per esempio, produca e commercializzi delle spille ottenute a partire da bottoni raffiguranti marchi celebri della moda: è quanto statuito dal Tribunale di Udine con la sentenza n. 1459 del 3 ottobre 2018, con la quale si è andati a fornire tutela alla proprietà industriale contro il fenomeno del customizing (per quanto consta, per la prima volta) anche nel campo penale.
Se, infatti, come si dirà meglio più avanti, nell’area del diritto civile si era già da tempo stabilito che numerose e diverse possono essere le condotte che integrano il concetto di “modificazione” o “alterazione” del prodotto che legittimano l’opposizione ad un’ulteriore commercializzazione dello stesso, compresa appunto quella del customizing, con la suddetta sentenza del 2018 il Tribunale di Udine ha riconosciuto a tale fenomeno rilevanza anche dal punto di vista penale, ritenendo che simili condotte possano integrare il reato di contraffazione di cui all’art. 473 c.p.
In particolare, nel caso di specie erano stati utilizzati alcuni bottoni contraffatti, mentre altri erano originali: al di là della sussistenza del reato in relazione alle spille prodotte con i bottoni contraffatti, ciò che è interessante è che ad avviso del Tribunale di Udine anche l’utilizzo dei bottoni originali per creare un prodotto nuovo e distinto, ma richiamante il marchio celebre senza il consenso del suo titolare, può – quantomeno astrattamente – configurare il reato in parola. Il rischio, invero, è quello di ingenerare confusione nei consumatori finali circa la provenienza o meno del prodotto da quella determinata impresa titolare del marchio. L’art. 473 c.p. tutela, infatti, il bene giuridico della pubblica fede, nel senso che la sua violazione va a ledere la fiducia dei consumatori in quei mezzi simbolici di pubblico riconoscimento, come il marchio, che caratterizzano i prodotti industriali nella loro circolazione e, dunque, viene leso l’interesse dei consumatori ad avere esatta cognizione circa la provenienza dei prodotti immessi sul mercato.
Tornando nell’ambito del diritto civile, invece, diversi possono essere – come si accennava – i comportamenti che legittimano una “reazione” da parte del titolare del marchio. In tal senso, anche modifiche che vadano semplicemente ad impattare sulla confezione o sull’etichetta del prodotto (e non sul prodotto in sé) possono essere considerate come modificazioni o alterazioni dello stato del prodotto tali da giustificare l’eccezione al principio dell’esaurimento del marchio.
Il Tribunale di Milano (sez. spec. impresa), con un’ordinanza del 28 febbraio 2022 – sulla falsariga di altri precedenti giurisprudenziali (cfr. Trib. Milano, sez. spec. impresa, 03/07/2019; Trib. Milano, sez. spec. impresa, 19/10/2020; e, a livello comunitario, CGCE, sentenza del 23 aprile 2009, caso C-59/08) – è arrivato a sostenere che anche l’esistenza di una rete di distribuzione selettiva costituisce uno dei motivi legittimi che ostano all’applicazione del principio dell’esaurimento del marchio, seppur a condizione che: a) il sistema di distribuzione selettiva sia conforme alla normativa Antitrust; b) il suo impiego sia necessario per tutelare il prestigio del brand; c) le modalità di rivendita poste in essere dai terzi estranei alla rete siano tali da arrecare pregiudizio all’immagine di lusso e al prestigio che il produttore cerca di mantenere. Il caso, in particolare, vedeva coinvolta una nota maison di moda che aveva chiesto (ed ottenuto) l’inibitoria alla commercializzazione dei propri prodotti contro una società di e-commerce che, per l’appunto, offriva in vendita su un proprio sito internet i prodotti della prima senza essere tra i soggetti dalla stessa autorizzati e rientranti nella rete di distribuzione selettiva.
Una decisione analoga, che ha visto quale parte la stessa maison, ma questa volta contro un soggetto che vendeva i propri prodotti in negozi fisici, è quella – sempre del Tribunale di Milano (sez. spec. impresa) – del 17/03/2023.
Con la suddetta ordinanza del 28 febbraio 2022, inoltre, il Tribunale di Milano ha stabilito che anche la mera alterazione dei codici apposti sulla confezione dei prodotti integra l’ipotesi prevista dal secondo comma dell’art. 5 del Codice della proprietà industriale ed è sufficiente di per sé ad escludere l’applicabilità del principio dell’esaurimento del marchio.
Ancora il Tribunale di Milano, già nel 2004 (Trib. Milano, 18/05/2004, n. 25164), aveva qualificato come illecita la condotta del soggetto che produce e commercializza borse da donna con applicazioni di ritaglio di tessuto ottenuto da borse di produzioni di altro soggetto e riproducente il marchio di titolarità di tale altro soggetto, ritenendo impropriamente invocato dalla resistente il principio dell’esaurimento del marchio, “dal momento che non ricorre nella specie l’ipotesi di ulteriore circolazione del prodotto sul mercato dopo una lecita immissione, non attuandosi alcuna vendita della borsa L. V. usata e verificandosi invece la produzione e commercializzazione di merce nuova e diversa”.
Se, dunque, varie possono essere le condotte che vanno ad integrare un illecito, vi è peraltro da dire che non tutte le personalizzazioni costituiscono un comportamento vietato. È chiaro, infatti, che se – ad esempio – un soggetto acquista una maglietta di un noto marchio e ci disegna sopra qualcosa, ma poi appende la ridetta maglietta al muro della propria camera, in questo caso non si configura certo alcuna condotta illecita.
Naturalmente nulla quaestio, poi, se c’è uno specifico accordo commerciale tra la parte che intende procedere alla “customizzazione” e il soggetto titolare del marchio: se vi è il consenso di quest’ultimo, invero, non si pongono particolari problemi.
Al di fuori di quest’ultima ipotesi, però, bisognerà vagliare caso per caso se la personalizzazione di un certo prodotto operata da un soggetto non titolare del marchio sia operazione lecita oppure no.
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Avv. Michael Costantini
Avvocato con Studio in Pisa, iscritto all'Albo dell'Ordine degli Avvocati di Pisa.
Esercito la professione forense con particolare riferimento al settore del diritto civile, ed in specie con riguardo alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, alle procedure esecutive, alla contrattualistica, nonché al diritto delle nuove tecnologie.
Attraverso mirate attività di formazione e mediante la concreta esperienza professionale ho maturato specifiche competenze nella contrattualistica informatica, nella materia del diritto d’autore e proprietà industriale, oltre che nella materia del diritto vitivinicolo.
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