È responsabile l’appaltatore per i danni da ristrutturazione?
Il contratto di appalto è un contratto oneroso con il quale una parte, detta appaltatore, assume, con l’organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio commissionatogli dal committente.
Come si evince, l’oggetto del contratto può essere tanto un’opera quanto un servizio. Per essere più precisi, appalti di opere e di servizi si distinguono tenendo in considerazione che si tratti, nel primo caso, di edificazione ex novo, ovvero che mirino, nel secondo caso, semplicemente a soddisfare l’interesse dell’appaltante senza alcuna rielaborazione. Inoltre, il succitato rischio della gestione assunto dall’appaltatore evidenzia l’autonomia di cui quest’ultimo può godere nello svolgimento dell’obbligazione. Non per questo, però, l’attività dell’appaltatore va esente da controlli effettuati da parte dello stesso committente. Addirittura, il committente diviene proprietario dell’opera solo laddove la stessa venga portata a termine. Vi è di più, a parte la possibilità attribuita al committente affinché questi possa verificare l’andamento dei lavori in corso d’opera, la legge interviene dettando ulteriori norme con riferimento a fatti sopravvenuti. Orbene, la disciplina del contratto di appalto individua la cessazione del rapporto con riferimento all’avvenuta consegna dell’opera da parte dell’appaltatore al committente, una volta che ne sia avvenuta l’accettazione o il pagamento del compenso. Nonostante la cessazione del rapporto, però, l’appaltatore sarà eventualmente responsabile per le difformità e i vizi della cosa, ex artt.1667 e 1668 c.c., e, ancora, per rovina o pericolo di rovina ovvero “gravi difetti” ex art.1669 c.c.. Mentre nel caso ex art.1667 c.c., la garanzia de qua prevede che i vizi e le difformità debbano essere denunziati dal committente a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla scoperta, salvo che l’appaltatore li abbia riconosciuti o li abbia occultati e che, altresì, l’azione si prescriva nel termine di due anni dalla consegna. Invece, nel secondo caso, laddove si tratti di edifici o altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, nel corso di dieci anni dal compimento, il committente potrà denunziare entro un anno dalla scoperta. Tale diritto si prescriverà in un anno dall’avvenuta denunzia.
Alla luce di quanto detto, ci si chiede come possa qualificarsi la responsabilità dell’appaltatore prevista dal Codice del 1942. Ebbene, sarà di tipo contrattuale con riferimento alla garanzia per i vizi e le difformità; all’opposto nell’ultima ipotesi, invece, si tratterà di responsabilità da fatto illecito.
Passando in rassegna l’istituto dell’appalto immobiliare, il legislatore ha, invece, previsto una tutela speciale ex art.1669 c.c. con cui estendere la tutela al di là dei rapporti inter partes. In particolare, sono legittimati oltre al committente i suoi avente causa intendendo per tali i successori dell’appaltante, ergo, successori inter vivos e mortis causa. Detto diversamente, l’art.1669 c.c. statuisce, per qualsiasi terzo che abbia subito danni, la possibilità di proporre azione di responsabilità avverso non solo l’appaltatore, bensì il progettista e il direttore dei lavori, non anche il fornitore dei materiali utilizzati.
La norma in esame che mira, quindi, a tutelare l’incolumità pubblica, risulterà inderogabile.
In difetto delle condizioni previste dall’art.1669, come ad esempio nella circostanza in cui trascorra inutilmente il termine decennale previsto, il legittimato potrà agire ex art.2043 c.c.
Eppure, quanto detto non è apparso così scontato in dottrina e giurisprudenza.
E invero, nel caso di responsabilità delineata dall’art.1669 c.c. a lungo si è discusso con riguardo la sua natura giuridica.
In ultimo si è concluso individuando i connotati extracontrattuali di tale responsabilità.
Quanto sostenuto dalla giurisprudenza più recente si basa sull’assunto secondo cui la responsabilità de qua, come sopra anticipato, è preposta a garantire interessi di carattere generale e inderogabili, ad esempio l’interesse all’incolumità personale.
Pertanto, nonostante le diatribe sorte e tenuto conto della sua natura aquiliana, la juris ha chiarito che, solo laddove non si verifichi uno dei presupposti previsti dal disposto ex art.1669 c.c. ovvero non trovi applicazione la tutela eccezionale, dovrà ri-espandersi la regola contenuta all’art.2043 c.c. con ricadute in ambito applicativo. Pertanto, si giunge ad ammettere, rectius, ritenere compatibili, le due azioni risarcitorie suddette rispetto al medesimo evento.
Diversamente opinando si restringerebbe l’area di tutela in evidente contrasto con l’armonia del sistema e con la ratio sottesa alla disciplina speciale.
Infatti, l’art. 1699 c.c., smentendo quanto sostenuto in tempi più remoti, non è affatto una prescrizione che mira ad attenuare la responsabilità del costruttore. Anzi. La stessa mira a estendere l’ambito di tutela del committente. Non solo. Il suo fondamento risiede nella funzione di garanzia degli interessi del committente in modo più incisivo.
A questo punto rilevanza applicativa assume il profilo dell’onus probandi. Pertanto, bisognerà mettere in evidenza quanto segue.
Dall’interpretazione giurisprudenziale emerge che l’art.1669 c.c. prevede, pur se non espressamente, una presunzione di responsabilità in capo all’appaltatore. E invero, si è giunti a ritenere che dal crollo o dalla rovina di un edificio derivi una presunzione juris tantum a carico di chi abbia svolto i lavori di costruzione dell’immobile in questione.
La giurisprudenza di legittimità, ormai pacifica sul punto, ritiene che l’appaltatore potrà andare esente da responsabilità ove provi che i danni verificatisi non possano essere a lui imputati per caso fortuito ovvero per colpa di terzi.
Di contro, nel caso di responsabilità ex art.2043 c.c. non si potrà applicare la presunzione suddetta. La disciplina generale, infatti, statuisce che in quest’ultima ipotesi incombe sul danneggiato l’onere di dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale, compresa la colpa dell’appaltatore.
Con riguardo, poi, la responsabilità in riferimento all’attività di ristrutturazione preme dapprima avere ben chiara la differenza fra l’ipotesi di rovina da quella di gravi difetti. Mentre si ha rovina totale o parziale allorché l’immobile subisca la demolizione degli elementi che ne compongono le strutture necessarie, invece i gravi difetti si riferiscono alle alterazioni subite dal bene che ne pregiudicano la normale funzione.
Ed è proprio su “ogni” tipo di alterazione delle parti necessarie, intendendo per tali anche quelle secondarie purché ne consentano l’impiego duraturo dell’immobile, nonché sui gravi difetti che si basano i principi di diritti della più recente giurisprudenza. Così le Sezioni Unite, a differenza di quanto sostenuto dalle tesi precedenti, optano per l’applicabilità dell’art.1669 c.c. anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in senso lato, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti.
Proseguendo per ordine e prima di giungere all’avallo definitivo della Suprema Corte, preme sottolineare che diverse sono state le posizioni a riguardo. Si passa di seguito in rassegna il revirement cui si è assistito, in particolare, nell’ultimo decennio.
Sulla peculiare questione anche la dottrina, inizialmente, si era divisa. La stessa considerava applicabile l’art.1669 c.c. ai casi di costruzioni ex novo e, altresì, a quegli interventi di tipo manutentivo e modificativo purché connotati dalla “lunga durata nel tempo”, includendovi le parti dell’immobile, in disparte l’importanza o meno delle stesse rivestita nella struttura immobiliare. Diversamente opinando e interpretando restrittivamente l’art.1669 c.c. ne sarebbe discesa una restrizione dell’ambito applicativo, rispetto le prescrizioni degli artt.1667 e 1668 c.c., palesemente in contrasto con l’art.3 Cost.
Di contro, una tesi dottrinale minoritaria, invece, affermava che l’art. 1669 c.c. quale disciplina speciale cui non era possibile applicare il procedimento analogico, poteva riguardare le sole edificazioni ex novo ovvero quelle dotate di propria autonomia, era il caso della sopraelevazione, giammai gli interventi di ristrutturazione.
Delineato il quadro dottrinale, la juris interveniva nel caso di opere di impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale di un edificio preesistente affermando, sulla base del dato letterale, la non applicazione dell’art.1669 c.c. alle ipotesi di ristrutturazione ovvero di interventi manutentivi e modificativi, pur rimanendo ferma la garanzia ex art.1667 c.c..
Giurisprudenza meno datata introduceva, successivamente, una pronuncia di segno opposto. E invero, considerata la centralità delle diverse emergenze fattuali, la stessa concludeva con un diverso principio di diritto.
Nel caso di specie, la stessa Corte trovandosi a decidere sulla responsabilità di un appaltatore per aver eseguito lavori manutentivi con riferimento al rafforzamento di solai e rampe delle scale di un condominio, aveva concluso in senso affermativo circa l’applicabilità dell’art.1669 c.c. facendo leva sia sull’interpretazione letterale della norma sia sull’etimologia del termine “costruzione” che non osta ad includere in sé anche le opere successive a quelle della fase di realizzazione dell’edificio. In particolare, con riferimento alla rampa di scale ut supra, interamente ricostruita nella fattispecie de qua, gli Ermellini estendevano l’applicazione di tale responsabilità argomentando le loro motivazione sull’importanza rivestita dagli elementi essenziali della struttura, la cui opera avrebbe potuto incidere, appunto, sulla funzionalità dell’intero immobile.
Da ultimo, alla luce di quanto sinora detto, si comprenderà la presa di posizione della Cassazione a Sezioni Unite che, sulla base di argomentazioni storiche, letterali e teleologiche, ha aderito all’orientamento meno restrittivo.
Ebbene, l’orientamento ermeneutico pone costante attenzione ai “gravi difetti” sia come elemento utile a rilevare il discrimen della disciplina ex art.1669 dalla garanzia ex artt. 1667 e 1668 c.c., sia in quanto gli stessi possono compromettere la funzionalità globale dell’opera pure laddove riguardino elementi secondari o accessori dell’opera stessa. Si pensi all’umidità delle murature o al crollo o il disfacimento degli intonaci.
Considerando anche gli elementi secondari la juris ha spostato volontariamente l’attenzione dal momento della costruzione a quello dei “gravi difetti” supportata dalle diverse circostanze emerse nell’interpretazione giurisprudenziale di mezzo secolo, nonché dalla storia della norma in questione dal codice napoleonico a quello vigente.
Vi è di più. La ratio della norma trova una chiara spiegazione nella Relazione al Codice. In primis, infatti, era proprio tale Relazione a estendere la garanzia anche all’ipotesi in cui l’opera presentasse gravi difetti conoscibili successivamente al momento del collaudo.
In conclusione la giurisprudenza delle Sezioni Unite, ampliando il catalogo dei casi rilevanti ex art.1669 c.c., ha finito, dunque, per prevedere la responsabilità dell’appaltatore facendo riferimento a qualsiasi opera immobiliare, purché di lunga durata e gravemente viziata.
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Daniela Restivo
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