Elusione ed operazioni infragruppo

Elusione ed operazioni infragruppo

Si configura un’ipotesi di abuso di diritto anche quando una pluralità di società appartenenti ad un gruppo pongono in essere una serie di operazioni contabili che sebbene nelle singole contabilità aziendali non determinino irregolarità risultano, però, complessivamente finalizzata alla sola realizzazione di un disegno elusivo, volto ad un’indebita riduzione della materia imponibile. E’ quanto si desume dalla pronuncia della ctr Lazio 432/29/14 del 28 gennaio 2014. Inoltre la direttiva introduce la clausola generale antiabuso, in base alla quale gli stati membri non devono applicare accordi volti a ottenere un vantaggio fiscale per le società senza valide ragioni commerciali. Molti dei casi di elusione fiscale all’interno dell’UE hanno infatti avuto origine proprio da accordi di favore concessi da paesi quali Irlanda, Olanda e Lussemburgo a imprese multinazionali, in maniera non conforme alla disciplina sugli aiuti di stato.

Ancora un’interessante sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli del 6 marzo 2014 n. 5897 ritorna sulla dibattuta questione della deduzione fiscale dei costi sostenuti da una società controllata a fronte della prestazione di un pacchetto di servizi (cd. management fees) resi da parte della propria controllante, sulla base di un contratto stipulato fra le parti; particolarità ulteriore del caso di specie è che le società, nell’anno oggetto di contestazione, partecipavano al regime di consolidato fiscale nazionale.

La contestazione dell’Amministrazione Finanziaria sembrerebbe basarsi, dalla lettura della sentenza, sulla presunta genericità dell’accordo contrattuale, sul fatto che lo stesso non aveva data certa, sulla presunta genericità della quantificazione dei corrispettivi addebitati nonché infine sul fatto che la holding che prestava i servizi, a sua volta, non essendo dotata di un’organizzazione pienamente autonoma, si rivolgesse a prestatori terzi da cui acquisiva servizi a prezzi apparentemente molto inferiori a quelli applicati alla controllata.

In primo luogo, i Giudici osservano che i costi per le prestazioni rese dalla holding alla controllata sono certi ed obiettivamente determinati, in quanto derivano da un contratto liberamente sottoscritto dalle parti, le cui clausole indicano chiaramente:

– la natura dei servizi da rendere. Suddivisi in tre macroaree: sviluppo strategico del business, amministrazione e finanza, servizi legali e di corporate;

– la modalità di erogazione dei rispettivi servizi;

– le modalità di determinazione del corrispettivo basato su di una consuntivazione a conguaglio al termine di ogni anno.

Nessuna rilevanza, rispetto al tema della deduzione dei costi in oggetto, può quindi essere attribuita secondo i Giudici al fatto che la holding a sua volta acquisti alcune prestazioni da terzi rivolgendosi al mercato, anche perché non è stata indicata nel giudizio alcuna specificazione di quali sarebbero questi servizi professionali acquisiti da terzi e correlati in modo così diretto alle prestazioni rese alla controllata.

Quanto al requisito della inerenza dei costi, i Giudici osservano come, data la natura delle prestazioni contrattualmente previste, non vi sono dubbi sul fatto che le stesse fossero correlate in modo diretto con l’attività della controllata; tale fatto è poi ulteriormente valorizzato dalla circostanza che la controllata non fosse dotata di autonomi mezzi e personale specializzato.

Viene quindi riconosciuto il principio secondo cui sulla base di logiche imprenditoriali, valutazioni di opportunità e convenienza, è normale che nei gruppi di imprese alcuni servizi vengano centralizzati sulla holding al fine di evitare duplicazioni e favorire sinergie.

Infine, un’ultima considerazione molto importante compiuta dai Giudici attiene all’assenza nel caso di specie di qualsivoglia vantaggio fiscale che le parti avrebbero tratto dall’addebito dalla holding alla controllata di questi costi; infatti, poiché le parti aderivano al regime di consolidato fiscale, è evidente che ai fini Ires i rispettivi ricavi (per la holding) e costi (per la controllata) si elidevano, con la conseguenza che non vi sarebbe stato alcun effetto elusivo ai fini dell’imposta sul reddito. Anche in questa circostanza, la giurisprudenza sottolinea il concetto che nel regime di consolidato fiscale, ai fini Ires, e salvo situazioni patologiche particolari, manca il sostanziale interesse ad agire dell’Amministrazione quando oggetto della contesa sono costi e ricavi speculari per operazioni compiute fra società partecipanti alla fiscal unit.

Gli indici sintomatici ai quali occorre attingere, infatti, per la dimostrazione della abusività della condotta, non vanno ricercati nella causa (funzione economica sociale) o negli effetti giuridici del negozio o della complessa operazione negoziale (diretti a disciplinare il regolamento di interessi voluto dalle parti), ma debbono essere ricercati nel limite imposta dalla convenienza economia dell’operazione. Data la peculiare situazione economico patrimoniale ed il tipo di organizzazione aziendale o societario del soggetto, rilevate ex ante rispetto alla operazione economica da compiere detto limite è rispettato se la modifica di tale situazione mediante l’attività negoziale posta in essere è rispondente a logiche di mercato ed in ultima analisi ai principi di economicità della gestione.

La Corte di Cassazione sez. tributaria con la sentenza n. 24005 depositata il 23 ottobre 2013 intervenendo in tema di transfer pricing ha statuito che il metodo da utilizzare prioritariamente al fine di stabilire il “valore normale” dei corrispettivi, nelle vendite tra imprese appartenenti a un gruppo multinazionale, è quello enunciato dalla seconda parte dell’art. 9, D.P.R. n. 917/1986, che lo individua nel riferimento, in via principale e in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi, e in via subordinata – in caso di mancanza o inattendibilità di tali elementi – alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso.  Solo in via sussidiaria potrà farsi riferimento al criterio enunciato dalla prima parte del comma 3 della norma del TUIR, che va inteso nel senso che il mercato al quale occorre fare riferimento, ai fini della determinazione del valore normale dei prezzi e dei corrispettivi nelle vendite infragruppo, è quello nazionale del venditore, ossia il mercato italiano.

La Commissione Tributaria Regionale, a cui la Corte Suprema ha rinviato per la decisione, dovrà conformarsi al principio di diritto statuito. La Corte Suprema ha accolto le doglianze del contribuente contenute nel ricorso per cassazione prodotto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di secondo grado favorevole alla contribuente X – una multinazionale con sede principale in Belgio e sede secondaria in Italia. La controversia ha riguardato un avviso di accertamento con il quale l’Ufficio aveva rettificato la dichiarazione della contribuente e accertato una maggiore IRPEG e una maggiore ILOR per l’anno d’imposta 1997.

L’Amministrazione finanziaria nel ricorso per cassazione ha ritenuto la decisione della Commissione Tributaria Regionale non rispondente alla normativa di riferimento nella parte in cui ha ritenuto che per la determinazione del prezzo di trasferimento, nell’accertamento dei redditi di imprese assoggettate a controllo della casa madre estera, il mercato rilevante fosse individuabile in quello del destinatario dei beni oggetto delle transazioni commerciali (nel caso specifico il mercato belga), dovendo tenersi conto dei prezzi ivi praticati in operazioni compatibili a quello oggetto di verifica. Ad avviso delle Entrate, tale affermazione di principio della CTR non ha considerato la peculiarità del caso concreto, consistente nell’impossibilità di effettuare il confronto con imprese operanti nel mercato belga, atteso che i soli soggetti compatibili, ivi operanti, erano tutte società collegate al gruppo. Pertanto i giudici di legittimità, nell’accogliere la tesi dell’Agenzia delle Entrate, hanno ritenuto che la CTR avrebbe applicato in modo non corretto il principio di cui all’articolo 76, comma 5, e 9, comma 3, del TUIR (nel testo vigente ratione temporis), atteso che il “valore normale” della merce ceduta da una società appartenente allo stesso gruppo della società cessionaria non potrebbe che essere determinato, alla stregua delle predette disposizioni, tenendo conto del prezzo mediamente praticato per beni o servizi similari, in “condizioni di libera concorrenza”, per tali dovendosi intendere, nella fattispecie, le condizioni praticate dalla sede secondaria della contribuente sul marcato nazionale (italiano), nelle transazioni effettuate con imprese dello stesso settore. Tanto più laddove siffatte condizioni sarebbero inesistenti nel mercato estero (nella specie belga) nel quale i soggetti operanti in uno specifico settore fanno tutti parte del medesimo gruppo.

Non c’è abuso di diritto per l’azienda che effettua un’operazione commerciale generante risparmio di imposta e una convenienza economica proporzionata alla situazione ed alle dimensioni aziendali.

Hanno infatti spiegato i giudici della Suprema Corte: «Gli indici sintomatici ai quali occorre attingere per la dimostrazione dell’abusività della condotta, non vanno ricercati nella causa (funzione economico sociale) o negli effetti giuridici del negozio o della complessa operazione negoziale (diretti a disciplinare il regolamento di interessi voluto dalle parti), ma devono essere ricercati nel limite imposto dalla convenienza economica dell’operazione, nel senso che, data la peculiare situazione economico patrimoniale ed il tipo di organizzazione aziendale o societaria del soggetto, rilevate ex ante rispetto alla operazione economica da compiere, detto limite è rispettato se la modifica di tale situazione – mediante l’attività negoziale posta in essere – è rispondente a logiche di mercato ed in ultima analisi ai principi di economicità della gestione. Ove tali requisiti di economicità non siano, invece, rinvenibili nell’operazione realizzata, ma la fattispecie negoziale posta in essere consenta, comunque, di realizzare, mediante una diversa allocazione delle risorse economico-patrimoniali preesistenti, un trattamento fiscale più favorevole (carente giustificazione economica dell’operazione, realizzazione di un risparmio fiscale) consente di pervenire a qualificare l’operazione come elusiva in quanto diretta esclusivamente ad impedire la verificazione del presupposto di imposta».

Il fine principale delle disposizioni antielusive sul transfer pricing emanate sia dagli ordinamenti interni sia dagli organismi sovranazionali (Ocse, Ecofin, ecc…) è quello di evitare che le multinazionali pervengano, attraverso una sovrastima o una sottostima dei prezzi di trasferimento infragruppo, al dirottamento di porzioni di reddito imponibile verso Stati a fiscalità ridotta (anche black list).

Sfruttando l’appartenenza al gruppo si può dirottare una porzione di reddito verso un Paese a bassa fiscalità? Es. Manipolando i prezzi relativi alle cessioni o agli acquisti: 1) A cede a B il bene/servizio X ad un prezzo di trasferimento (infragruppo) di 20 (quindi: B↓ paga ad A un corrispettivo più basso rispetto a; in questo modo una quota di reddito pari a 10 resta nel Paese a bassa fiscalità. 2) A acquista da B il bene/servizio X ad un prezzo di trasferimento (infragruppo) di 40  (quindi A paga a B un corrispettivo più alto rispetto al in questo modo una quota di reddito pari a 10 viene trasferita nel Paese a Bassa fiscalità).

Se un’impresa risiede in un paese ad  alta fiscalità il trasferimento nel Paese a bassa fiscalità di una porzione di reddito (pari a 20) che avrebbe dovuto soggiacere ad una tassazione più elevata in Italia; registrazione in contabilità di un costo sovrastimato (pari a 50 anziché 40) con conseguente maggiore abbattimento del reddito imponibile

Il 43% dei dipartimenti fiscali delle aziende italiane ha scarsa o addirittura nessuna conoscenza per eseguire un’analisi adeguata della documentazione relativa alle transazioni infragruppo. Il transfer pricing è destinato ad assumere un peso sempre maggiore; infatti, il 45% degli intervistati ritiene che il tema dei prezzi di trasferimento sarà uno dei punti di maggiore interesse nei prossimi anni. Il 35% delle imprese italiane ritiene importante che le raccomandazioni contenute nel Codice di Condotta UE per la documentazione delle transazioni infragruppo siano recepite dall’Italia.

Nei casi in cui le operazioni infragruppo sono accettate dal fisco occorre che esse siano realizzate secondo il valore normale dei beni e servizi ceduti. Nella prassi esistono diversi metodi per la determinazione del valore normale, i quali si dividono in due macrocategorie:

-­ metodi tradizionali: basati sulla individuazione del prezzo congruo di ogni operazione di cessione di beni o prestazione di servizi infragruppo;

– metodi reddituali: basati sull’utile conseguito con la transazione infragruppo (questi ultimi sono stati introdotti sotto la spinta del legislatore americano).

Al fine di garantire la corretta applicazione del metodo basato su entità separate, gli Stati membri dell’OCSE hanno adottato il principio di libera concorrenza, sulla base del quale i contribuenti e le Amministrazioni fiscali sono tenute a valutare le transazioni sul libero mercato e le attività commerciali di imprese indipendenti, confrontandole con le transazioni e le attività delle imprese associate.

In che modo è possibile fornire la prova dell’elusione da Transfer Pricing? Non è facile dimostrare che una transazione internazionale infragruppo è stata posta in essere con un fine elusivo. La nuova disposizione come prevista dall’art. 50 d.l. 2017 stabilisce tuttavia che la determinazione dei prezzi di trasferimento deve avvenire “sulla base delle condizioni e dei prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili”, in luogo del riferimento al principio del “valore normale” previsto dalla precedente formulazione. ma qualora queste operazioni dovessero avvenire al valore suddetto occorre, innanzitutto, risalire al valore normale del bene o servizio scambiato. Nel caso più semplice, gli elementi da cui dedurre il valore normale possono essere rilevati da listini, tariffe o, qualora questi non siano disponibili, dai dati contabili. La situazione si complica nel caso in cui: – un prodotto non abbia termini di raffronto perché realizzato su commissione (una tantum); – l’oggetto dello scambio sia immateriale (servizi, consulenze, marchi, brevetti, ecc…). Nei casi più complessi, come quelli appena citati, in cui non si possa applicare il confronto del prezzo, è utile ricorrere (come suggerisce l’OCSE) agli altri due metodi tradizionali (il prezzo di rivendita e il costo maggiorato).

I prezzi di trasferimento sono tipiche valutazioni estimative e, come tali, possono avere rilevanza penale, qualora vengano superate le soglie di punibilità previste dalla disciplina sui reati tributari e, precisamente, dall’art. 4 D.Lgs. 74/2000 (dichiaraz. infedele); si può evitare il reato? si, a condizione che non venga superata la franchigia del 10% (cioè: valore normale – corrispettivo pattuito sia < 10%) con riferimento alla singola operazione o categoria di operazioni (su quest’ultimo punto la dottrina non è concorde – mancano interventi giurisprudenziali). ma cosa accade se si supera la franchigia (cioè se la differenza è > 10%)?

Se si supera la franchigia del 10% si può ancora evitare il reato a condizione che vengano indicati in bilancio (nota integrativa) i “criteri concretamente applicati” nella realizzazione degli scambi infragruppo. (secondo la dottrina prevalente, le indicazioni in nota integrativa devono essere fornite con ragionevole, ma non eccessivo dettaglio, per non rischiare di svelare segreti industriali e suscitare le proteste dei soci di minoranza).


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Luca Labano

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