Erogazione di denaro da parte del socio: come distinguere un finanziamento da un versamento

Erogazione di denaro da parte del socio: come distinguere un finanziamento da un versamento

Sommario: 1. Introduzione – 2. La tesi maggioritaria – 3. La tesi minoritaria – 4. La necessità di indagare la volontà delle parti – 5. Conclusioni

1. Introduzione. In dottrina come in giurisprudenza è dibattuta la qualifica da un punto di vista giuridico dei “versamenti” che i soci effettuano nei confronti della società.

Nell’analisi che segue ci si pone come obiettivo l’individuazione concreta delle caratteristiche che distinguono il finanziamento del socio con conseguente diritto alla restituzione delle somme versate, dal  conferimento di vero e proprio capitale di rischio che, diversamente, non comporta la restituzione da parte della società ai soci delle somme versate.

La questione non è agevole da affrontarsi né pragmaticamente né teoricamente, se si considera che la giurisprudenza di legittimità segue, ad oggi, orientamenti diversi.

2. La tesi maggioritaria. Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, la corretta qualificazione dell’erogazione di somme di denaro da parte del socio deve avvenire attraverso un’ indagine riguardante la reale volontà delle parti nel caso concreto, non limitata al solo uso dei termini utilizzati per le annotazioni nelle scritture contabili, in quanto quest’ultimi spesso sono “atecnici” e quindi non sempre indicativi della realtà, bensì estesa anche alla modalità in cui concretamente è stato effettuato il versamento, le finalità pratiche (espresse, per esempio, nel verbale della relativa delibera assembleare) e gli interessi sottesi all’operazione.

Ad affermare tali principi una recente sentenza della Suprema Corte (Cassazione civile, Sez. I, 23.07.2021, n. 21239; nello stesso senso: Cass. 9. 12. 2015, n. 24861; Cass. 23.03.2017, n.7471; Cass. 19.02.2020, n. 4261) che in questi termini si è espressa: “La qualificazione, nell’uno o nell’altro senso, dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, dovendo trarsi la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, non tanto dalla denominazione dell’erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi”; sentenza che, in realtà, non rappresenta un’assoluta novità sul tema poiché riprende principi già sostenuti agli inizi degli anni 2000 da altre sentenze sia di legittimità che di merito.

Gli Ermellini hanno ritenuto non soddisfatto l’onere della prova dell’esistenza di un finanziamento di un socio con la mera “appostazione” in bilancio dell’operazione, poiché proprio a causa di una terminologia dei bilanci non sempre corretta, questa deve considerarsi priva di rilevanza.

Dunque, per una parte significativa della giurisprudenza di legittimità, la prova dell’esistenza di un finanziamento da parte di un socio verrebbe data principalmente dalle risultanze dell’analisi della volontà negoziale delle parti, pur ammettendo che l’esame del bilancio possa rilevare, solo, in maniera subordinata e comunque nella misura in cui riveli la reale intenzione delle parti e ponendo l’accento dell’analisi sull’elemento causale dell’operazione.

3. La tesi minoritaria. All’orientamento maggioritario, sul punto, fa da contraltare una corrente opposta a quella poc’anzi enunciata.

Secondo giurisprudenza e dottrina (Cass. civ. Sez. I. 14.12.1998, n. 12539; Cass. 9.08.2016, n. 17839; Cass. 23.03.2017, n. 7471) le somme erogate dai soci alla società sono considerate presuntivamente come versamenti a titolo di mutuo con conseguente diritto alla restituzione, poiché “in buona sostanza, all’approvazione della situazione patrimoniale si attribuisce una sorta di valenza confessoria e ricognitiva della natura della qualificazione da attribuire all’apporto” (Paolo Pototsching, “Natura degli apporti dei soci e applicazione dei criteri d’interpretazione dei contratti”, in Le Società, 2018, pag. 588 ss).

In tale attività ermeneutica il giudice di merito può attribuire valore prevalente alla classificazione contabile con cui l’operazione è stata registrata nei libri della società, giacché la considerazione di una pluralità di elementi ermeneuticamente rilevanti non esclude la selezione di essi in base alla rispettiva valenza e quindi la collocazione di uno o alcuni di essi in posizione di preminenza nell’iter formativo del convincimento del giudice, con la conseguenza che deve ritenersi corretta la prevalenza accordata al dato letterale emergente dalla classificazione contabile, ove esso sia esente da lacune o ambiguità.

Si darebbe, in buona sostanza, completa fiducia a ciò che viene inserito e ai termini utilizzati all’interno del bilancio. Se gli antichi erano soliti dire verba volant scripta manent, tale questione non pare possa essere risolta in maniera approssimativa, fosse solo perché se pur è vero che ciò che è scritto in bilancio ha un peso rilevante, allo stesso tempo è il fine ultimo del versamento, inevitabilmente determinato dalla volontà delle parti, che deve essere analizzato.

4. La necessità di indagare la volontà delle parti. Al fine di indagare la volontà delle parti, sulla base dei vari input della Suprema Corte negli ultimi dieci anni di pronunce, si dovrebbe, in maniera quasi consequenziale, analizzare:

– gli ordinari criteri di interpretazione dei contratti. Il giudice di merito dovrà ricostruire l’effettiva volontà delle parti per stabilire se le stesse abbiano voluto o meno riconoscere un diritto incondizionato al rimborso delle somme versate dal socio;

– il contenuto del verbale dell’assemblea, ove l’organo amministrativo abbia ritenuto di portare all’attenzione dei soci e alla loro deliberazione anche la richiesta di un apporto diverso dall’aumento di capitale, rimane ovviamente il punto di riferimento essenziale per la ricerca della volontà delle parti;

– se vi sono condizioni dettagliate quanto alla remunerazione, ai modi e ai tempi del rimborso e interessi relativi all’erogazione effettuata (questo qualificherebbe l’erogazione come finanziamento). Fermo restando che non esistono limiti alla libertà contrattuale e che quindi il contratto di finanziamento concluso tra il socio e la società potrebbe non risultare da atto scritto e che quindi, anche nel caso in cui le parti abbiano voluto prevedere un diritto al rimborso, la relativa pattuizione potrebbe non risultare da una clausola espressa dall’inequivocabile significato;

– la causa (Cass. civ. Sez. I, 19.02.2020, n. 4261) intesa come le esigenze societarie per cui il versamento è stato effettuato.

5. Conclusioni. Sembrerebbe possibile affermare che il versamento di somme di denaro da parte del socio alla società ha natura di finanziamento con conseguente diritto al rimborso, fermo restando l’analisi che il giudice caso per caso deve compiere, quando:  le parti pattuiscono un termine per la restituzione delle somme; quando viene prevista la remunerazione del capitale sotto forma di interesse.

Al contrario si avrebbe invece un versamento quando: vi è infruttuosità (si preclude la possibilità di ricevere la somma aumentata degli interessi); quando vi è assenza dell’obbligo di rimborso del versamento effettuato; quando si riscontra spontaneità dei versamenti da parte soci (data la non obbligatorietà il socio decide liberamente  se effettuare tali versamenti) e quando si ricava che i versamenti in conto capitale, diffusisi sia in ragione dei benefici fiscali ad essi collegati, sia, soprattutto, perché costituiscono un efficace e flessibile strumento che i soci possono utilizzare per fare fronte a varie esigenze della società, sono diretti a creare disponibilità finanziarie discrezionalmente destinabili dagli amministratori a scopi attinenti all’oggetto sociale.


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