Esame avvocato 2016, parere diritto penale: la soluzione alla prima traccia

Esame avvocato 2016, parere diritto penale: la soluzione alla prima traccia

Possibile soluzione schematica

La soluzione indicata in modo sintetico e schematico è solo una delle possibili; ha mero valore orientativo ed ha scopo di esercitazione per i praticanti che non affrontano l’esame. La redazione degli articoli con i riferimenti normativi e le soluzioni è finalizzata all’esercitazione e rientra nell’attività scientifica della Rivista.

Traccia n. 1:

Tizio avendo intenzione di intraprendere l’esercizio di una attività di somministrazione di alimenti e bevande chiede l’iscrizione nell’apposito registro pubblico utilizzando il modulo di domanda predisposto dal locale Camera di Commercio.

In epoca successiva all’ottenimento dell’iscrizione ed ad inizio attività, Tizio viene però rinviato a giudizio per il reato di cui agli artt.48 e 479 c.p., per aver dichiarato falsamente, nella parte della domanda relativa al possesso dei requisiti morali e professionali, di non aver mai riportato condanne per reati in materia di stupefacenti.

Tizio si reca dunque da un legale per un consulto e dopo aver rappresentato quanto sopra precisa di non aver compreso al momento della redazione della dichiarazione sostitutiva di certificazione in questione che i requisiti morali e professionali richiesti consistessero nel non aver riportato condanne per reati in materia di stupefacenti, in quanto il modulo conteneva esclusivamente il richiamo ad alcuni articoli di legge speciali, senza riportarne il testo né fornire alcuna spiegazione al riguardo.

Assunte le vesti del legale di Tizio, rediga il candidato un motivato parere, illustrando le questioni sottese alle fattispecie in esame e le linee di difesa del proprio assistito.

Svolgimento:

Ai fini della risoluzione del presente parere è necessario preliminarmente soffermarsi sulla differenza tra il reato di cui all’art. 479 c.p. (falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico) e quello di cui all’art. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico).

Invero, la prima norma stabilisce che “il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell’articolo 476”.

L’art. 479 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) viene annoverato tra i reati contro la fede pubblica documentale (falsità in atti), quei reati che violano cioè la fiducia e la sicurezza che la legge attribuisce a determinati documenti. Il reato in questione può considerarsi come proprio, di pericolo, a forma vincolata per tipi ed è istantaneo. Si richiede il dolo generico, ed è configurabile il tentativo.

L’art. 483 c.p. stabilisce, invece, che, “chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni. Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile, la reclusione non può essere inferiore a tre mesi”. Trattasi di reato comune, di pericolo, a forma libera, istantaneo. Anche in questo caso si richiede un dolo generico.

Ebbene, appare pacifico in giurisprudenza che il funzionario della camera di commercio (ente avente personalità giuridica di diritto pubblico), rivesta, ai sensi dell’art. 357 cod. pen., la qualità di pubblico ufficiale e non di incaricato di un pubblico servizio; tuttavia, nella tenuta del registro delle imprese e in relazione agli atti in esso annotati, il suddetto funzionario certifica solo l’attività di deposito, mentre non è oggetto di attestazione il contenuto degli atti depositati (Cass. pen., sez. V, 13 gennaio 2015, n. 1205).

Tanto premesso, si ritiene di escludere la sussistenza del reato di cui agli artt. 48 – 479 cod. pen. (falso ideologico in atto pubblico per induzione), come contestato nel capo di imputazione, assumendo che il deposito della dichiarazione finalizzata all’iscrizione nel registro pubblico degli esercenti attività di somministrazione di alimenti e bevande presso la camera di commercio non ha carattere costitutivo, né con esso si attesta la regolarità della procedura di iscrizione.

Ed ancora, il funzionario della camera di commercio, nel ricevere la dichiarazione di Tizio, si è limitato a dare atto dell’avvenuto deposito della suddetta dichiarazione e non anche della veridicità del suo contenuto.

Non sussiste, infatti, alcuna norma che conferisca attitudine probatoria all’attività dei suddetti funzionari in ordine al contenuto degli atti di cui ricevono il deposito. Dal punto di vista soggettivo, si rileva che l’errore non è stato determinato dolosamente e di certo Tizio non può rispondere per avere indotto in errore il pubblico ufficiale che ha effettuato la registrazione alla camera di commercio, non essendo neppure prevista la falsità ideologica colposa in atto pubblico commessa dal pubblico ufficiale.

L’iter amministrativo descritto da Tizio per ottenere l’iscrizione al registro pubblico per intraprendere l’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande prevedeva la presentazione di una domanda utilizzando il modulo già predisposto dalla locale Camera di Commercio. Tale procedura elide ogni possibile induzione in errore del pubblico ufficiale ad opera del privato che, si limita, si ripete, a completare il modulo predisposto dalla medesima Camera di Commercio; per l’effetto, il destinatario si è ben configurato l’esistenza e consistenza della domanda predisposta da Tizio e delle dichiarazioni sostitutive ivi contenute.

Diversamente, però, si ritiene che la condotta di Tizio possa astrattamente integrare il reato di cui all’art. 483 cod. pen. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico): invero, nella dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante il possesso dei requisiti morali e professionali Tizio ha attestato falsamente che nei suoi confronti non erano state pronunciate sentenze di condanna per reati in materia di stupefacenti.

Il concetto di atto pubblico, agli effetti penalistici, come noto, è più ampio rispetto a quello del codice civile (2699 e 2700 cc), dovendo rientrare in esso non solo quei documenti redatti, con le debite formalità, da un Notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio e compilati, con le debite formalità, per uno scopo di diritto pubblico, inerente all’esercizio della propria funzione e del pubblico servizio, al fine di comprovare un fatto giuridico o di attestare fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi rilevanza giuridica (Cass. 10414/1990).

Tanto premesso, ne discende che la dichiarazione di Tizio ha natura di atto pubblico e non natura privata, non trattandosi, infatti, di comunicazione dell’inizio dell’attività commerciale.

Il delitto di cui all’art. 483 c.p., quindi, sussiste, in quanto l’atto pubblico (iscrizione nel pubblico registro) – nel quale la trascrizione dell’autocertificazione di Tizio è trasfusa – è destinato a provare la verità del fatto attestato.

La dichiarazione rilasciata da Tizio è avvenuta per riempimento di un modulo prestampato preparato dalla Camera di Commercio, la cui presupposta genericità e/o lacunosità impone una serie di riflessioni proprio in ordine all’elemento volitivo.

Il richiamo del modulo ad articoli di legge speciali, senza riportarne il testo né fornire alcuna spiegazione al riguardo è il nodo gordiano della questione.

Se il richiamo letterale alle “leggi speciali” avesse richiesto l’assenza generica di condanne penali pregresse, la mancata comprensione di Tizio non lo terrà indenne da una responsabilità ex art. 483 c.p., poiché la consapevolezza di dichiarare il falso non avrebbe valide scusanti.

Se viceversa, l’enunciazione letterale del modulo non avesse richiesto in modo determinabile il possesso dei requisiti morali e professionali specifici, Tizio andrebbe indenne dalla responsabilità di cui all’art. 483 c.p. in forza del fatto che verrebbe meno la sussistenza de l’essenziale elemento soggettivo del reato, il dolo generico.

Invero, per quanto attiene all’elemento soggettivo, si rileva che la norma in questione punisce la condotta compiuta con dolo mentre nel caso in esame la condotta di Tizio non appare cosciente e consapevole in quanto lo stesso ha agito in base ad una colposa omissione di indagine sul contenuto delle norme richiamate e sull’identificazione dei requisiti morali, richiesti dalla legge. Pertanto, quand’anche la condotta di Tizio fosse ritenuta colpevole per colposa omissione di indagine sulle norme richiamate dal modulo, in ogni caso, egli non risponderà di tali reati per connessione con l’art. 484 c.p. poiché difetta, ed in quanto difetta, l’elemento volitivo (Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2015, n. 12710).

Inoltre, con l’entrata in vigore della Legge 28 aprile 2014, n. 67, sulla non punibilità del reato per “tenuità del fatto”, per i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, e nel caso di specie il 483 prevede una pena con reclusione massima a 2 anni, o puniti con pena pecuniaria sola o congiunta alla pena detentiva il giudice potrà disporre l’archiviazione del procedimento a condizione che, nel caso concreto venga accertata:

– un’offesa di particolare tenuità, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo. Ciò non ricorre nei casi di: motivi abbietti o futili; crudeltà, anche in danno di animali; sevizie; minorata difesa della vittima, anche in base all’età; morte o lesioni gravissime;

– un comportamento non abituale. L’abitualità è esclusa in caso di delinquenza abituale, professionale o per tendenza; reati della stessa indole; reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate (applicabile al caso di specie).

In conclusione, Tizio non risponde del reato di cui all’art. 479 c.p. poiché manca il dolo, non solo nella falsa attestazione, ma anche, come è ovvio, nell’assenza del dolo con la predisposizione dell’atto privato trasfuso nell’atto pubblico. Tizio non risponde neanche del reato di cui all’art. 483 c.p. poiché nel caso di specie la condotta è stata realizzata con colpa mentre la norma richiede il dolo per la consumazione del reato.

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