ESAME AVVOCATO: il TAR Roma afferma con forza che serve una motivazione scritta
T.A.R. Roma, Sezione Seconda Quater, 14 luglio 2015, n. 9415
a cura di Giacomo Romano
Le massime
Nel nostro caso, è evidente che il legislatore abbia inteso perseguire – nel contesto di una più ampia riforma del settore – anche l’obiettivo dell’incremento del grado di trasparenza dei giudizi di accesso alla professione. E’ quindi possibile coerentemente ritenere che, se da un lato l’art. 49 della L. 31 dicembre 2012, n. 247 esclude l’obbligatoria applicazione dello specifico nuovo meccanismo individuato dal legislatore, tuttavia essa non preclude il riconoscimento – fatto inequivocabilmente proprio dal legislatore medesimo – dell’esigenza di una motivazione più trasparente, da salvaguardare secondo modalità rimesse all’Amministrazione nei singoli casi e valutabili ex post nella sede giurisdizionale, alla stregua di quanto enunciato in precedenza.
La questione della motivazione del giudizio negativo nelle prove d’esame o concorsuali non può essere risolta astrattamente, o sulla base di un mero richiamo dei (non univoci) orientamenti giurisprudenziali, bensì (senza indebite generalizzazioni, ma) solamente avendo riguardo alle caratteristiche di ogni singolo procedimento di esame, da valutarsi alla luce di una corretta ricostruzione del nesso tra normative di settore e principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario.
Non è ammissibile che ai fini dell’esame per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato la motivazione sia sottratta a qualsiasi forma di esternazione e quindi di conoscibilità da parte del destinatario del giudizio.
Il “vacuum” motivazionale si incunea praticamente nel cuore stesso dell’esercizio della funzione amministrativa, pregiudicando la soddisfazione del parametro dell’art. 3 della L. n. 241/1990, interpretato alla luce dei principi costituzionali di imparzialità e dell’art. 41 della Carta di Nizza, che espressamente prevede l’obbligo di motivazione come un aspetto del diritto ad una buona amministrazione.
Il fatto
La ricorrente impugnava il giudizio finale di non ammissione alle prove orali dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di Avvocato – sessione 2013, formulato dalla Commissione istituita presso la Corte di Appello di Napoli e pubblicato per affissione presso la Corte d’Appello di Roma in data 20 giugno 2014.
Con ordinanza n. 5800/2014, il Tribunale accoglieva la domanda cautelare, disponendo il riesame degli elaborati scritti ad opera della Commissione in diversa composizione.
Con ordinanza n. 308/2015, il Consiglio di Stato riformava il provvedimento cautelare, respingendo la domanda cautelare proposta in primo grado.
1.1. I criteri generali definiti dalla Commissione centrale
La Commissione esaminatrice istituita presso la Corte di Appello di Napoli recepiva i seguenti criteri generali definiti dalla Commissione centrale:
a) correttezza della forma grammaticale, sintattica ed ortografica e padronanza del lessico italiano e giuridico;
b) chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, nonché degli orientamenti della giurisprudenza;
d) dimostrazione di concreta capacità di risolvere problemi giuridici anche attraverso riferimenti alla dottrina e l’utilizzo di giurisprudenza; il richiamo a massime giurisprudenziali riportate nei codici annotati è consentito; tuttavia, i relativi riferimenti testuali vanno adeguatamente virgolettati o comunque deve esserne indicata la fonte giurisprudenziale;
e) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà, anche con specifici riferimenti al diritto costituzionale e comunitario per la soluzione di casi che vengano prospettati in una dimensione europea, ovvero presentino connessioni con altre materie giuridiche;
f) coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata ed esauriente indagine dell’impianto normativo relativo agli istituti giuridici di riferimento;
g) capacità di argomentare adeguatamente le conclusioni tratte, anche se difformi dal prevalente indirizzo giurisprudenziale e/o dottrinario;
h) dimostrazione della padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione per ciò che concerne, specificamente, l’atto giudiziario”.
In secondo luogo, la Commissione esaminatrice procedeva alla “revisione di ciascun elaborato” procedendo “nei modi di legge alla valutazione dei medesimi ed all’assegnazione dei voti, espressione dell’applicazione dei suindicati criteri, voti che vengono riportati sugli elaborati stessi, e datati e sottoscritti dal Presidente e dal segretario”.
Nella specie, la ricorrente conseguiva un punteggio complessivo di 72 (parere motivato di diritto civile: 20; parere motivato di diritto penale: 26; atto giudiziario: 26), come tale inferiore al punteggio minimo necessario ai fini dell’ammissione agli orali (pari a 90 punti).
La valutazione veniva espressa in forma puramente numerica; infatti, gli elaborati non recavano traccia di indicazioni o sottolineature o correzioni operate dagli esaminatori.
1.2. I motivi di censura
Occorre anzitutto esaminare i seguenti profili di censura:
– genericità dei criteri predeterminati dalla Commissione centrale;
– insufficienza del mero voto numerico;
– carenza di motivazione.
Inoltre la ricorrente lamentava l’insufficienza – ai menzionati fini – del mero voto numerico, anche in relazione al diverso metodo di correzione degli elaborati di cui all’art. 46, comma 5, della L. 31 dicembre 2012, n. 247, che impone alla commissione di annotare le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato.
La ricorrente affermava quindi, in ultima analisi, la carenza di motivazione degli impugnati giudizi negativi: nella specie non c’era alcuna esternazione, né attraverso segni grafici né attraverso espressioni verbali, dalla quale si sarebbero potuti dedurre le specifiche ragioni giustificative della valutazione delle prove ritenute insufficienti.
La decisione
E’ noto che la Corte costituzionale ha fornito (con la sentenza 8 giugno 2011, n. 175) una lettura restrittiva e testuale della normativa di settore, e in particolare di quattro disposizioni:
– l’art. 17-bis, comma 2, del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, e successive modificazioni, nel testo vigente, il quale stabilisce che «Per ciascuna prova scritta ogni componente delle commissioni d’esame dispone di 10 punti di merito; alla prova orale sono ammessi i candidati che abbiano conseguito, nelle tre prove scritte, un punteggio complessivo di almeno 90 punti e con un punteggio non inferiore a 30 punti per almeno due prove»;
– l’art. 23, quinto comma, del medesimo testo normativo, il quale dispone che «La commissione assegna il punteggio a ciascuno dei tre lavori raggruppati ai sensi dell’art. 22, comma 4, dopo la lettura di tutti e tre, con le norme stabilite nell’articolo 17-bis»;
– l’art. 24, primo comma, del r.d. n. 37 del 1934, il quale statuisce che «Il voto deliberato deve essere annotato immediatamente dal segretario, in tutte lettere, in calce al lavoro. L’annotazione è sottoscritta dal presidente e dal segretario»;
– l’art. 22, comma 9, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, nel testo vigente, che prevede la fissazione dei criteri per la valutazione degli elaborati scritti e delle prove orali da parte della Commissione centrale istituita presso il Ministero della Giustizia.
La Corte ha ritenuto che “il criterio prescelto dal legislatore per la valutazione delle prove scritte nell’esame de quo è quello del punteggio numerico, costituente la modalità di formulazione del giudizio tecnico-discrezionale finale espresso su ciascuna prova, con indicazione del punteggio complessivo utile per l’ammissione all’esame orale”.
Ora, è noto che le interpretazioni adottate dalla Corte costituzionale nelle sentenze di rigetto non precludono – al giudice a quo come agli altri giudici – la possibilità di seguire altre interpretazioni ritenute compatibili con la Costituzione, posto che ogni giudice è titolare del potere-dovere di interpretare le leggi in piena autonomia ai sensi dell’art. 101, secondo comma, della Costituzione. (cfr. Cassazione civile, sez. un., 16 dicembre 2013, n. 27986).
Ciò è tanto più vero nella materia in questione, in quanto l’ordinamento di settore si è evoluto prevedendo espressamente – con la richiamata novella del 2012, che disegna una nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense – l’introduzione del meccanismo basato sulle annotazioni dirette sull’elaborato da esaminare (art. 46, comma 5). E se è vero che la norma transitoria di cui al successivo articolo 49 ne ha differito l’applicazione, è pur vero che ciò non preclude una diversa ermeneutica del complessivo quadro normativo previgente.
In altri termini, non è preclusa una lettura della normativa settoriale la quale integri le disposizioni specifiche leggendole alla luce del fondamentale parametro di cui all’art. 3 L. n. 241/1990 e dei parametri costituzionali e comunitari connessi. Un esempio concreto di questa tecnica ermeneutica si rinviene in una pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (A.p., 30 luglio 2014, n. 16), che ha risolto una questione relativa all’applicazione dell’art. 38 del Codice dei contratti negando la diretta e immediata applicabilità dello jus superveniens alla fattispecie controversa, ma nel contempo valorizzando le nuove previsioni legislative quali indici ermeneutici, ai fini della ricostruzione della volontà del legislatore in quanto volta a determinati fini.
Nel nostro caso, è evidente che il legislatore abbia inteso perseguire – nel contesto di una più ampia riforma del settore – anche l’obiettivo dell’incremento del grado di trasparenza dei giudizi di accesso alla professione. E’ quindi possibile coerentemente ritenere che, se da un lato la norma transitoria esclude l’obbligatoria applicazione dello specifico nuovo meccanismo individuato dal legislatore, tuttavia essa non preclude il riconoscimento – fatto inequivocabilmente proprio dal legislatore medesimo – dell’esigenza di una motivazione più trasparente, da salvaguardare secondo modalità rimesse all’Amministrazione nei singoli casi e valutabili ex post nella sede giurisdizionale, alla stregua di quanto enunciato in precedenza.
Né sarebbe corretto ritenere che in questo modo si verifichi una sostanziale disapplicazione della norma transitoria: essa non può essere considerata avulsa dall’ordinamento giuridico complessivo e, nel far salva l’applicazione del regime previgente, non circoscrive l’autonomia dell’interprete quanto alla ricostruzione del medesimo.
Questa soluzione interpretativa è anche pienamente coerente con l’intento riformatore della recente legislazione, che si manifesta anche con l’evoluzione normativa, di grande rilievo pratico e di principio, che si riscontra in materia di procedure concorsuali per l’accesso alla professione notarile: è noto, al riguardo, che l’art. 11, comma 5 del D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 166, nel testo vigente, prevede che il giudizio di non idoneità sia “sinteticamente motivato con formulazioni standard, predisposte dalla commissione quando definisce i criteri che regolano la valutazione degli elaborati”.
Siffatto ordine di idee consente anche una più piena attuazione dei principi ricavabili dagli artt. 97, 24 e 113 Cost.; con la precisazione – quanto al buon andamento – che il legislatore e/o l’Amministrazione ben possono individuare dei criteri tali da conciliare l’esigenza di trasparenza con quella di efficienza, secondo una gamma di soluzioni variamente articolabili.
Quanto alla coerenza con l’ordinamento comunitario (e cioè alla necessità di pervenire a un’interpretazione che sia anche “comunitariamente” conforme), è appena il caso di rilevare:
– da un lato, che la materia dell’esame di abilitazione forense attiene comunque all’ambito comunitario della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi, con le connesse esigenze concorrenziali (CGE, ord. 17.2.2005, C- 250/03);
– dall’altro, che il principio della motivazione è richiamato sia nell’art. 296, comma 2 TFUE, sia nell’art. 41 della Carta fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea (da leggere in relazione all’art. 51 che ne estende l’applicazione agli Stati Membri), e come tale ha ricevuto importanti riscontri nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (particolarmente chiaro, in ordine ai principi sopra menzionati, il dettato di CGE, 22 marzo 2001, C – 17/99, per cui la motivazione deve fare apparire in forma chiara e non equivoca l’iter logico seguito dall’istituzione da cui esso promana, in modo da consentire agli interessati di conoscere le ragioni del provvedimento adottato e permettere al giudice competente di esercitare il proprio controllo).
Alla luce di siffatte premesse, il Collegio ha ritenuto che la questione della motivazione del giudizio negativo nelle prove d’esame o concorsuali non potesse essere risolta astrattamente, o sulla base di un mero richiamo dei (non univoci) orientamenti giurisprudenziali, bensì (senza indebite generalizzazioni, ma) solamente avendo riguardo alle caratteristiche di ogni singolo procedimento di esame, da valutarsi alla luce di una corretta ricostruzione del nesso tra normative di settore e principi generali dell’ordinamento nazionale e comunitario.
Con riferimento al caso in esame, non può non essere considerata rilevante la novella legislativa del settore, che ha imposto specifiche prescrizioni proprio al fine di garantire l’effettività dell’obbligo di motivazione.
In concreto, negli atti non si riscontrava alcuna esternazione grafica o testuale della Commissione esaminatrice, la quale potesse fungere da tramite logico-argomentativo tra i criteri generali e l’espressione finale numerica del singolo giudizio.
Il giudizio di insufficienza della prova potrebbe quindi essere determinato, in ipotesi:
a) dalla violazione di un criterio già di per sé sufficientemente individuato, come ad esempio il criterio relativo alla correttezza grammaticale e sintattica, il cui contenuto è determinabile per relationem mediante il rinvio ai canoni comunemente accolti in materia;
b) dalla violazione di un criterio contenutistico “preliminare” formulato in termini generali, come – ad esempio – quello della “dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati, nonché degli orientamenti della giurisprudenza”.
Orbene, è evidente in primo luogo che il metodo seguito nella specie non consente al candidato neppure di sapere se si verta nell’ipotesi a) ovvero nell’ipotesi b).
Inoltre, con riferimento all’ipotesi b), è parimenti evidente che il criterio formulato anteriormente allo svolgimento delle prove non può ovviamente riferirsi agli argomenti specifici che sono oggetto delle tracce assegnate. Solamente in base alla traccia è infatti possibile stabilire quali siano i fondamenti teorici degli istituti rilevanti nel caso di specie e i relativi orientamenti giurisprudenziali, graduandone per così dire l’esigibilità concreta in relazione alle caratteristiche della prova: il che consentirebbe – poniamo – di ritenere sufficienti gli elaborati i quali – ceteris paribus – diano conto almeno della tesi A e della tesi B, anche se non della tesi C (la cui menzione potrebbe essere considerata, invece, ai fini dell’attribuzione di un voto più alto).
Ad avviso del Collegio, in assenza della predeterminazione normativa di un metodo (come quello introdotto de futuro dalla menzionata novella del 2012) è possibile immaginare vari sistemi di motivazione del giudizio, incentrati su un’ulteriore specificazione contenutistica dei criteri di correzione a seguito dello svolgimento delle prove, ovvero sul ricorso a espressioni grafiche o verbali.
Non è invece ammissibile che – come è accaduto nella specie – questo ambito sia sottratto a qualsiasi forma di esternazione e quindi di conoscibilità da parte del destinatario del giudizio.
Si tratta infatti dell’ambito nel quale si celano in realtà gli elementi presupposti essenziali che vanno a costituire una vera e propria “catena di giudizi”, la quale sfocia poi nella valutazione finale, che viene infine sintetizzata nel voto numerico.
Del resto, con riferimento alla motivazione come formula conclusiva di una valutazione che ha preso le mosse dalla proposta di elaborato contenuta nella traccia ed ha autolimitato la sua espansione nel delicato momento della elaborazione, ed ostensione, dei criteri di valutazione, si è espressa anche la Cassazione con riferimento alle prove del concorso notarile: secondo Cass. SSUU n. 14893 del 2010, il legislatore ha richiesto alla commissione esaminatrice di darsi criteri che non si riducano alle note, tautologiche, formule sul necessario omaggio alle esigenze di rigore e correttezza espositiva, di pertinenza argomentativa e di esibizione culturale da parte del candidato, ma che siano le “regole – guida”, predeterminate e pertanto non mutabili, di quanto con la traccia proposta viene richiesto e di quanto (in specie nell’ottica aperta propria della opinabilità delle soluzioni giuridiche) ci si attende, in termini di risultato finale rappresentante lo standard minimo per una valutazione di idoneità.
Il “vacuum” motivazionale si incunea praticamente nel cuore stesso dell’esercizio della funzione amministrativa, pregiudicando la soddisfazione del parametro dell’art. 3 della L. n. 241/1990, interpretato alla luce dei principi costituzionali di imparzialità e dell’art. 41 della Carta di Nizza, che espressamente prevede l’obbligo di motivazione come un aspetto del diritto ad una buona amministrazione.
In particolare, in base a quanto affermato dalla Corte Costituzionale, l’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi è diretto a realizzare la conoscibilità, e quindi la trasparenza, dell’azione amministrativa, ai quali va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stessa amministrazione (artt. 24 e 113 Cost). L’obbligo di motivazione, quindi è radicato da un lato negli artt. 97 e 113 della Costituzione, in quanto costituisce corollario dei principi di buon andamento e d’imparzialità dell’amministrazione e, dall’altro, nell’articolo 24 della Costituzione, in quanto consente al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale (cfr. Corte costituzionale, 5 novembre 2010, n. 310, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art 14 del d.lgs. n. 81 del 2008 che escludeva l’obbligo di motivazione per i provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale per violazione delle norme sul lavoro).