Esperibilità dell’azione ex art. 2041 c.c. nei confronti di una P.A.?
L’esperibilità di un’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. nei confronti di una p.a. è stata, per parecchio tempo, soggetta ad una disciplina di elaborazione pretoria, oggi ormai abbandonata.
Ed infatti, in sede giurisprudenziale si riteneva che, stante la natura pubblica del soggetto, l’utile esperimento di tale azione dovesse essere connotata da un requisito ulteriore rispetto a quelli civilisticamente previsti dalla norma, ovvero il riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione da parte della stessa p.a.
Si riteneva, infatti, che per esigenze finanziarie di contenimento della spesa pubblica, di discrezionalità della p.a. e dei limiti che connotano l’azione dell’ AGO nei confronti delle scelte pubbliche, la p.a. non potesse essere esposta ad azioni di ingiustificato arricchimento ove lei stessa, con un atto proveniente dai suoi organi rappresentativi, non riconoscesse l’utilità di quanto percepito.
Inoltre, si voleva arginare il rischio che organi non preposti alla rappresentanza dell’ente potessero impegnarne la volontà, esponendo la p.a. al rischio di spesa.
Tale orientamento dava adito a valutazioni discrezionali in merito alla sussistenza dell’utilità dell’opera ed alla sua finalizzazione.
Tale tesi è stata recentemente rivista dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione le quali hanno criticato la precedente impostazione ritenendo che, così argomentando, si poneva in essere un trattamento ingiustificatamente privilegiato per la p.a. quale soggetto arricchito, con detrimento delle esigenze di tutela per l’impoverito.
Alla luce di tale nuovo insegnamento – secondo la Suprema Corte -, ai fini di un’utile esperimento dell’azione ex art. 2041 c.c., non è necessario indagare sull’utilità che l’opera ha recato alla p.a.(elemento non previsto dalla norma e non richiesto nei rapporti tra privati), essendo sufficiente l’accertamento del fatto oggettivo dell’arricchimento.
Pertanto, l’attore impoverito deve provare in giudizio il fatto dell’arricchimento, in una agli altri elementi della fattispecie, mentre la p.a. può solo eccepire che l’arricchimento è stato imposto, ovverosia da lei non voluto. Purtuttavia, l’eccezione sollevata dall’ente pubblico rileva, unicamente, ai fini dell’imputabilità dell’arricchimento e non anche ai fini dell’ esistenza dello stesso che, invece, è accertabile quale fatto oggettivo dal giudice. In tale modo l’organo giudiziario non rischia di travalicare i limiti propri della discrezionalità amministrativa, in quanto la sua valutazione non è altro che un accertamento dell’obiettivo arricchimento della p.a., privo di qualsivoglia valutazione ad esso estranea.
Occorre, altresì, sottolineare che spesso il privato che si attiva nei confronti della p.a. è un professionista, appaltatore, etc…legato all’ente da contratti irregolari, nulli o talvolta inesistenti, poiché posti in essere senza le rigide forme pubblicistiche, quali le regole di evidenza pubblica, richieste dal legislatore.
Controversa, in tali casi, l’entità dell’indennizzo spettante al privato ed i criteri di determinazione dello stesso, e cioè se il predetto indennizzo debba tenere conto del prezzo che egli avrebbe conseguito in presenza di un contratto valido o no.
Sul punto i giudici di legittimità si sono espressi negativamente, ritenendo che la fruttuosa proposizione dell’azione ex art. 2041 cc non possa porre il soggetto impoverito nella stessa posizione in cui si sarebbe trovato ove il contratto fosse stato valido; anche per tale motivo l’indennizzo è determinato tenendo conto del solo impoverimento, con esclusione, quindi, del lucro cessante.
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