Eutanasia e suicidio assistito. Tra morale, etica, normative, pronunce giurisprudenziali e diritto di autodeterminarsi

Eutanasia e suicidio assistito. Tra morale, etica, normative, pronunce giurisprudenziali e diritto di autodeterminarsi

Uno dei temi più dibattuti ed allo stesso tempo di grande complessità nell’attuale società, è il discorso sull’eutanasia. Tra i principali interrogativi vi è quello che impone di domandarci se e quanto sia corretto togliere la vita ad un essere umano.

Si fa riferimento all’eutanasia allorquando un medico provoca, su richiesta, la morte ad un soggetto a seguito di una diagnosi di malattia incurabile oppure se il paziente risulta terminale.

Può essere volontaria o non volontaria. Nella prima ipotesi, la persona esprime la propria volontà sul porre fine alla propria vita. Di contro, nell’ipotesi di incapacità causata dalla malattia, il consenso e la scelta di ricorrere a tale atto, sarà ad opera di una persona terza, solitamente un familiare.

Il fine vita può avvenire per opera diretta di un medico, si parla di eutanasia attiva, o tramite la cessazione della somministrazione delle necessarie cure, e degli alimenti, provocando così una progressiva perdita delle funzioni vitali, mantenute stabili dal supporto medico ora interrotto (eutanasia passiva).

E’ doveroso mettere in evidenza una distinzione di due termini, che spesso vengono tra di loro confusi, ma che vedono azioni diverse, anche se al termine di queste, vi è la morte di una persona consenziente. La distinzione terminologica è quella tra: suicidio assistito ed eutanasia. L’eutanasia, come sopra accennato, è la morte direttamente provocata in risposta di un desiderio da parte del soggetto malato, ad esempio il medico che in prima persona inietta una soluzione letale. Il suicidio assistito, consiste nel conferire i mezzi al malato al fine di potersi, autonomamente, suicidare, ad esempio un medicinale che una volta ingerito (volontariamente) ne provoca la morte.

Ma quando è giusto uccidere un proprio simile, anche se nella morte troverebbe fine alle proprie sofferenze? Trovare una risposta oggettivamente valida a questo quesito non è affatto semplice, e ciò spiega anche il dibattito che ormai prosegue da anni ed ogni caso suscita scalpore ed accende l’interesse mediatico e pubblico.

Innumerevoli fattori subentrano in tale ambito, molti dei quali limitano il ricorso a tale pratica. Tra questi vi rientrano aspetti umani quali: la morale, l’etica, la religione, la compassione, che spesso non permettono di accettare l’idea di uccidere una persona, o che questa si lasci morire (ad esempio sospendendo i trattamenti sanitari). In merito alla sfera religiosa è possibile far riferimento alle parole di Papa Francesco che esorta a non utilizzare la scienza medica per porre fine ad una vita.

Le religioni non accettano nei loro credi, quelli che ad oggi vengono definiti gli omicidi per misericordia, e la morale può ugualmente portare a desistere ad una simile richiesta, tuttavia ripercorrendo le parole di Carmenza Ocha, che afferma: “se un adulto che soffre e sta morendo, chiede l’eutanasia, perché altri dovrebbero avere il diritto di negarla?”, la morale dovrebbe spingere l’uomo a provare compassione ed esaudire il desiderio di fine vita, e quell’atto di compassione non dovrebbe essere rappresentato come un crimine.

A causa di questi limiti spesso anche nella comunità scientifica si ravvisano due fazioni divise tra chi è favorevole a ricorrere al suicidio assistito o all’eutanasia, e chi invece, forse legato alla morale, o all’etica professionale secondo cui la medicina ha lo scopo di salvare le vite, non acconsentirebbe ad una legalizzazione sul fine vita volontario.

Altro limite, ben più difficilmente valicabile, è dato dalle norme imposte dagli ordinamenti e se il suicidio assistito e/o l’eutanasia, è o meno riconosciuto all’interno di uno Stato e se tale azione è considerata un reato dai rispettivi Codici Penali del Paese ove il soggetto malato risiede.

Molti Paesi, nel corso del tempo, stanno legalizzando le pratiche di fine vita, alcuni mediante la legalizzazione dell’eutanasia, altri del suicidio assistito, altri ancora ammettendoli entrambi.

Nel 1997 in America, precisamente in Oregon, si ha il primo Stato del continente americano, a riconoscere legalmente il suicidio assistito, e l’anno successivo, in Svizzera, viene a formarsi “Dignitas” un’associazione che fornisce assistenza nei servizi di eutanasia sia ai loro cittadini che agli stranieri. E, complessivamente, in Occidente inizia il dilagarsi di un’approvazione verso l’eutanasia, riconoscendo quanto possa essere dannoso lo stato di “dolore” cui è afflitto il malato.

In Francia nel 2005, grazie all’intervento della Legge Leonetti, è consentito limitare le cure ai malati terminali, ed in Belgio, dove l’eutanasia è stata pienamente legalizzata (dal 2002), si attestano più di duemila morti (tra cui due minori) ricorrendo al fine vita volontario.

Tuttavia, in Occidente, nonostante le aperture, ancora molti Stati rimangono saldi nella loro convinzione della illegalità di tale pratica, anche se non mancano comportamenti a livello politico e giurisprudenziale che iniziano a mostrare segni di cambiamento.

È il caso, per esempio, dell’Italia.

Il Codice Penale, agli art. 579 e 580 pone l’attenzione all’omicidio del consenziente ed all’istigazione o aiuto al suicidio, punendo coloro che cagionino o determinano la morte di una persona consenziente.

La fattispecie raffigurata dall’art. 579 c.p. viene considerata reato in quanto viene rappresentata come un caso autonomo di omicidio doloso, che tuttavia differisce dal comune omicidio, cui all’art. 575 c.p., a causa del consenso del soggetto passivo. Il consenso non ha potere scriminante. Principio originariamente tutelato dal legislatore è il bene vita, che non può essere “danneggiato” senza una punizione per il soggetto che compie l’azione omicida.

L’art. 579 c.p. rappresenta il pilastro fondamentale sul discorso sull’eutanasia anche se non nasce con la volontà di disciplinare tale fenomeno. Difatti, nel corso del tempo, è stato descritto come incostituzionale, o comunque contrario ai valori costituzionali che vanno a tutelare il diritto alla salute (art. 32 Cost)., i diritti fondamentali della persona (art. 13 Cost.) e il diritto di autodeterminazione (terapeutico) di un individuo, il quale dovrebbe, secondo tale principio, avere la piena facoltà di decidere il trattamento medico, e di contro, se e quando, interrompere le cure mediche.

Ciò è ravvisabile anche nella Legge n° 219 del 2017, la quale tuttavia, benché ponga l’attenzione sull’autodeterminazione individuale, non parla espressamente di suicidio assistito e/o di eutanasia, benché possa essere interpretata come un’iniziale spinta legislativa nei confronti del potere di decidere autonomamente in campo medico.

La Corte di Cassazione si è espressa, con la Sentenza 16/10 del 2007 n° 21748 stabilendo alcuni presupposti che giustificano la sospensione di presidi medici salvavita. Nello specifico, viene stabilito che il consenso è possibile quando il paziente vive in uno stato vegetativo continuo ed irreversibile, e quando ciò corrisponda ad un adempimento della sua volontà (laddove non sia più capace di intendere e volere, facendo ricorso a precedenti sue dichiarazioni e dal suo stile di vita).

Nel 2019, la Corte di Cassazione giunge a stabilire, innescando un’importante precedente, che non è sempre da considerare un crimine il suicidio assistito. Nello stesso anno, con la sentenza n° 242 del 2019, la Corte Costituzionale segna un punto di svolta all’interno dell’ordinamento italiano. Tale sentenza può essere rappresentata come un forziere che racchiude al suo interno le vicende e le lotte che si sono susseguite nel corso degli anni, cercando di dare una risposta a quando è possibile decretare il fine vita, senza incorrere in azioni illegali.

Difatti la Corte Costituzionale, nel 2019 arriva a stabilire nel nostro ordinamento, che il soggetto che aiuta a suicidarsi una persona affetta da malattia irreversibile, non può essere punito in ragione del già citato art. 279 c.p.

Al fine di non essere perseguiti per aver prestato il proprio aiuto al suicidio , devono essere tenuti presenti alcuni necessari elementi, tra i quali: lo stato di sofferenza del malato, l’irreversibilità e l’impossibilità di cura della malattia, la sua sopravvivenza legata alla costante presenza di una macchina, ed il grado di sofferenze ormai intollerabili.

La sentenza 242 da molti è stata definita come una “sentenza storica” per l’Italia, rappresentando un passaggio importante del diritto di autodeterminazione del volere di una persona irreversibilmente malata, dove nella morte può trovare un po’ di pace.

Un fine vita cosciente e senza punibilità nei confronti della persona che provoca la morte di un suo simile. Tutto ciò inizia ad essere reso possibile grazie a una crescente sensibilità sull’argomento e grazie all’opera della giurisprudenza, che, mediante le sue pronunce, sta creando una disciplina unitaria.


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