FARMACIA: criteri di indennità di avviamento speciali anche se trasferita tramite testamento
Cass. Civ., sez. II, 22 ottobre 2015 n. 21523
a cura di Claudia Tufano
La natura particolare dell’azienda farmacia, impone una disciplina speciale in materia di avviamento dell’attività, anche nell’ipotesi in cui l’erede risulti beneficiario di una disposizione testamentaria in base alla quale è stata ceduta l’azienda farmaceutica. La deroga rispetto al generale criterio di valutazione dei beni in libero commercio, ai fini della determinazione dell’indennità di avviamento dell’attività in caso di cessione, è strettamente collegata alla necessità di un equo bilanciamento tra interessi privatistici e pubblicistici che sottendono l’attività farmaceutica.
Il fatto
Con atto di citazione, la signora C. , congiuntamente ai tre figli R.T., R.R., R.G., convenivano in giudizio R.L., beneficiario dell’azienda farmaceutica del padre R.M. , nonché coniuge e padre defunto rispettivamente della signora C. e dei tre figli ricorrenti, per effetto di una disposizione contenuta nel testamento olografo redatto dal de cuius. I ricorrenti lamentavano la violazione dei i diritti di comunione legale spettanti ex art. 177 c.c., lett. D) e art. 178 c.c. alla coniuge C., trattandosi di farmacia costituita dopo il matrimonio; che, inoltre, la disposizione testamentaria aveva leso le quote di riserva attribuibili agli attori ai quali spettava il diritto di gestione e partecipazione della farmacia, e che l’indennità di avviamento della stessa doveva essere calcolata ai sensi dell’art. 110 TU con conseguente riduzione delle disposizioni testamentarie a favore del convenuto. Quest’ultimo resisteva in giudizio deducendo che il de cuius aveva disposto, in favore della coniuge, una cospicua rendita vitalizia annuale , a definizione di tutti i diritti che la stessa poteva vantare sull’azienda farmaceutica, aggiungendo che la madre non poteva rivendicare alcun diritto sulla farmacia , in quanto istituita prima della legge che introduceva il regime di comunione legale tra coniugi (l. 151/1975). Richiedeva, altresì, l’applicazione dell’art. 110 TU per la determinazione del criterio di indennità di avviamento dell’azienda farmaceutica. I giudici dei primi due gradi di giudizio rigettavano le istanze dei ricorrenti, che provvedevano a proporre il ricorso in Cassazione.
La decisione
Con un unico motivo di ricorso, gli attori lamentavano l’applicazione e la falsa applicazione dell’art. 110 TU 1265/1934 (legge sanitaria) disciplinante l’indennità di avviamento (“l’autorizzazione all’esercizio di una farmacia, che non sia di nuova istituzione, importa l’obbligo nel concessionario di rilevare dal precedente titolare o dagli eredi di esso gli arredi, le provviste e le dotazioni attinenti all’esercizio farmaceutico, contenuti nella farmacia e nei locali annessi, nonché di corrispondere allo stesso titolare o ai suoi eredi un’indennità di avviamento in misura corrispondente a tre annate del reddito medio imponibile della farmacia, accertato agli effetti dell’applicazione dell’imposta di ricchezza mobile nell’ultimo quinquennio. la commissione indicata nell’art. 105 accerta la somma che deve essere corrisposta a titolo di indennità di avviamento e, in mancanza di accordo tra le parti interessate, determina, in base a perizia, con decisione inappellabile, l’importo del rilievo degli arredi, provviste e dotazioni”) dovuta dal farmacista assegnatario per concorso al precedente gestore della farmacia rimasta vacante o ai suoi eredi e, di conseguenza non applicabile alla fattispecie in esame in quanto, il convenuto R.L,, era subentrato nella gestione della farmacia non già come assegnatario a seguito di concorso della sede vacante per morte del precedente titolare, ma in virtù di lascito testamentario. Sarebbe, in tal caso, estranea la ratio della norma citata, che è quella di riconoscere ope legis un indennizzo in favore di colui che per decadenza o per decesso perde l’esercizio della farmacia. Si discuterebbe, invece, nel caso di specie, della lesione della quota di legittima perpetrata dal de cuius in danno dei propri figli, a causa della cessione, tramite disposizione testamentaria, dell’azienda farmaceutica di famiglia a favore di un unico figlio. L’erronea applicazione del criterio di cui all’art. 110 T.U., in luogo di quello relativo al valore di libero mercato per il calcolo dell’avviamento dell’azienda, darebbe luogo ad un ingiustificato vantaggio da parte dell’erede beneficiario della farmacia, il quale potrebbe liquidare gli altri aventi diritto con un importo di gran lunga inferiore a quello reale. Pertanto, i ricorrenti chiedevano l’applicazione del secondo criterio, che è generalmente utilizzato per calcolare il valore di qualsiasi azienda commerciale, in sostituzione di quello indicato dalla normativa speciale sanitaria inapplicabile perché trattasi di assegnazione di azienda avvenuta tramite successione mortis causa.
I giudici della Suprema Corte rigettavano la doglianza, sulla base del fatto che l’art. 110 T.U. contiene un’esigenza di bilanciamento tra interessi pubblicistici e privatistici sottesi all’azienda farmaceutica. Sebbene, infatti, nell’attività in esame, siano presenti spiccati caratteri di natura privatistica perché trattasi,comunque di attività imprenditoriale, tuttavia non si può negare la presenza di rilevanti caratteri pubblicistici,connessi alla salvaguardia dell’assistenza sanitaria e alla cura della salute pubblica, tali da giustificare la perdurante previsione di rigorosi vincoli di diritto pubblico (quali quelli dettati in tema di limitazione numerica degli esercizi, di predeterminazione della loro ubicazione, di orari di apertura e chiusura, ecc). Tali aspetti influenzano inevitabilmente il margine di profitto conseguibile dall’esercente, pertanto, non consentono di equiparare l’iniziativa economica di un farmacista a quella di un qualunque altro imprenditore. L’art. 110 T.U. appare, così, lo strumento idoneo a bilanciare tali interessi contrapposti, e va applicato anche in caso di trasferimento mortis causa (purché venga accertata la presenza degli elementi di fatto richiesti dalla legge e che la gestione abbia avuto una durata temporale di almeno cinque anni).
Nella stessa sede, la Corte esaminava anche i motivi prospettati dal ricorrente incidentale. Con il primo motivo di ricorso era stata denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 551 c.c. nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata nella parte in cui non ha ravvisato l’esistenza di un legato in sostituzione di legittima nella disposizione testamentaria con la quale il de cuius aveva istituito una rendita vitalizia annuale in favore della moglie C.. Il ricorrente riteneva sussistente il legato in sostituzione di legittima perché, seppure non era stato espresso con formule sacramentali, lo si poteva, comunque, dedurre dal contesto delle disposizioni testamentarie dalle quali si desumeva che, con i predetti lasciti il de cuius voleva tacitare ogni pretesa ereditaria della legittimaria C.. A parer della Corte, il motivo era privo di fondamento. Secondo l’orientamento dei giudici, affinché sia configurabile un legato in sostituzione di legittima è necessario che emerga, dalle disposizioni testamentarie, una volontà chiara ed univoca del de cuius ma se non è espressa con formule sacramentali (quando non sono richieste) , può essere desunta dal giudice dal tenore complessivo dell’atto, volontà che nel caso specifico mancava. Né è accolto il secondo motivo di ricorso con il quale il ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione degli artt. 742 e 751 c.c., art. 177 c.c., lett. b) e c) e art. 210 c.p.c., nonché dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ritenendo che le cospicue elargizioni eseguite dal de cuius alla moglie C. dalle casse della farmacia, erano da intendersi destinati al soddisfacimento delle esigenze di famiglia. I giudici di legittimità, confermavano invece quanto già stabilito dalla Corte d’Appello circa l’insussistenza della prova che tali elargizioni erano effettuate per soddisfare bisogni familiari, quanto piuttosto rappresentavano atti di mera liberalità da parte del de cuius in favore della moglie. Per le ragioni esposte la Corte rigettava sia il ricorso principale che quello incidentale, dichiarando compensate le spese giudiziali.