Fatti e circostanze favorevoli all’indagato. L’art. 358 c.p.p. tra realtà applicativa e prospettive di riforma

Fatti e circostanze favorevoli all’indagato. L’art. 358 c.p.p. tra realtà applicativa e prospettive di riforma

Tracciando il perimetro delle attività prodromiche rispetto alla fase strico sensu processuale, l’art. 358 del codice di rito recita così:

Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’art. 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. “

Direzione e controllo delle indagini preliminari, dunque, spettano al magistrato del pubblico ministero (coadiuvato dalla polizia giudiziaria), consentendogli in tal modo di assumere le necessarie determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale.

Al centro delle riflessioni che seguiranno, il secondo periodo della norma richiamata, che prevede l’attivarsi del titolare delle indagini altresì in favore dell’indagato, e ciò mediante l’estensione dell’attività ricognitiva anche in ordine a quegli elementi di prova che potrebbero scagionarlo.

Sul versante dottrinale e giurisprudenziale, tali accertamenti rappresentano un vero e proprio dovere da espletare, sebbene il dettato codicistico non lo espliciti in maniera limpida.

Tuttavia, alla luce della prassi invalsa nelle aule di giustizia, sembra lecito domandarsi se si è al cospetto di una disposizione in grado di garantire effettivamente l’imparzialità dell’accusa nell’espletamento della funzione inquirente oppure – come spesso accade – la norma in questione è destinata ad essere lettera morta.

Va anzitutto rilevato come la questione relativa all’assenza di sanzioni processuali discendenti dall’inosservanza di tale dovere/obbligo da parte dell’organo dell’accusa venne portata all’attenzione del giudice delle leggi già nel 1997, con la Consulta che però non individuò alcun contrasto tra siffatto profilo e diritti costituzionalmente garantiti. Al riguardo, l’iter argomentativo della Corte partì dall’individuazione della ragione posta a fondamento della previsione contenuta nella seconda parte dell’art. 358 c.p.p., finalizzata ad evitare l’incardinamento di un processo superfluo, atteso che trattasi di una disposizione che si innesta sulla natura di parte pubblica del magistrato del pubblico ministero e sull’ufficio che quest’ultimo è chiamato ad assolvere nell’ambito delle determinazioni da assumere ai sensi dell’art. 326 c.p.p.〈1〉 Non dunque l’esigenza di dare piena attuazione al diritto di difesa e al principio di eguaglianza tra accusa e difesa: la norma in esame tenderebbe, stando a tale esegesi, a venire in rilievo soltanto in risposta alla necessità di dare corretto impulso all’azione penale.

Negli anni a seguire non sono mancate istanze – rimaste tali – volte a responsabilizzare maggiormente l’accusa, con proposte di emendamento del dettato codicistico in esame〈2〉 in grado di conferire concretezza ai diritti della difesa. Muovendosi lungo tale direttrice, alcune forze del parlamento proponevano, quale sanzione processuale, l’inutilizzabilità della totalità degli atti di indagine svolti dal pubblico ministero in caso di mancata attività ricognitiva espletata pro inquisito, rendendo in tal modo davvero vincolante il dovere sancito nel codice di rito.

Tale innesto nel nostro sistema si è più volte scontrato con la tesi che suole distinguere tra ritardo nello svolgimento delle indagini preliminari, nel qual caso potrebbe trovar applicazione l’istituto dell’avocazione〈3〉 da parte del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, e le attività in concreto poste in essere dall’organo dell’accusa: in tale ultima ipotesi, il perimetro tracciato dal combinato disposto degli artt. 326 e 358 c.p.p. è caratterizzato pur sempre da una certa discrezionalità del pubblico ministero non sindacabile da altro giudice.

Sebbene tale argomentazione risulta condivisibile, a parere di chi scrive una prima soluzione al fine di rendere davvero effettivo il dovere previsto all’art. 358 c.p.p. è offerto proprio da una reductio ad unum delle due ipotesi poc’anzi esposte: equiparare l’inerzia del pubblico ministero nello svolgimento delle indagini preliminari all’omissione delle indagini a favore dell’indagato offrirebbe, infatti, un rimedio processuale già disponibile, quello, per l’appunto, dell’avocazione ex art. 412 c.p.p.

Invero, un’analisi davvero esaustiva della questione che si va esaminando deve tener conto di ulteriori aspetti che impediscono (rectius parrebbero impedire) l’ingresso nel sistema di un presidio processuale a tutela dell’obbligo in oggetto. Il riferimento è alle investigazioni difensive, frutto della l. 397/2000, in forza delle quali si è sostenuto in giurisprudenza〈4〉 che le lacune in punto di attività ricognitive pro inquisito del pubblico ministero devono essere colmate dalla difesa.

Ma può tale dictum ritenersi davvero degno di un sistema garantista?

Sembra proprio di no: le armi a disposizione degli attori della fase procedimentale non sono certamente alla pari, non godendo il difensore, nell’espletamento delle sue investigazioni, di poteri e garanzie proprie dell’organo dell’accusa〈5〉.

A ben vedere, nemmeno l’integrazione probatoria da parte del giudice riesce a sopperire a tale vulnus del sistema, considerato che i poteri accordati in tal senso all’organo giudicante fanno capo al momento strico sensu processuale (udienza preliminare – dibattimento – appello).

Si impone pertanto, a giudizio di chi scrive, un ripensamento della norma del codice di rito, che prenda anzitutto le mosse dal dato letterale, arrivando così a prevedere testualmente nel corpo dell’art. 358 c.p.p. un imperativo – nella formula, ad esempio, di “dovere” – in grado di rafforzare la responsabilità del magistrato del pubblico ministero nella ricerca della verità in chiave super partes, evitando la marginalizzazione di tale obbligo che sovente si riscontra nella prassi giudiziaria. Nondimeno sarà necessaria la predisposizione di una vera e propria sanzione processuale in caso di inottemperanza, alla stregua di quella sopra già illustrata: rendere possibile l’avocazione da parte del Procuratore Generale non solo in caso di inerzia dell’accusa, ma anche laddove quest’ultima ometta atti investigativi in favore dell’indagato, predisponendo financo un potere d’impulso in tal senso da parte della difesa.

 

 

 

 

 


〈1〉 Corte Cost. ord. 11 aprile 1997 n. 96.
〈2〉 Il riferimento è alla proposta di legge, non approvata, del 2008.
〈3〉 Art. 412 c.p.p.
〈4〉 Cass. pen. n. 34615/2010.
〈5〉 É chiaro che il difensore dell’indagato non potrà, ad esempio, attivarsi per delegare determinati atti d’indagine alla p.g.

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Dott. Giovanni Ciscognetti

Nato nel 1992, ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo con il Prof. Vincenzo Maiello una tesi in Diritto Penale dal titolo "Le circostanze del reato". È iscritto al registro dei praticanti abilitati alla sostituzione ex art. 41 co. 12 L. 247/2012 dell'Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata (dal 28/09/2022). È attualmente membro della Scuola Forense Enrico De Nicola.

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