Fenomenologia del nuovo terrore: dall’11 settembre al cyberterrorismo

Fenomenologia del nuovo terrore: dall’11 settembre al cyberterrorismo

Introduzione

Il mondo occidentale, al giorno d’oggi, si trova ad affrontare cinque tipi particolari di minacce: la permanente criminalità organizzata sempre più transnazionale, il rischio nucleare, la minaccia bellica, sebbene attenuata, il pericolo cibernetico e il terrorismo internazionale.

Quest’ultimo, in particolare nei suoi nuovi volti (islamico-radicale, mobile, cyber), si pone sulla scena internazionale, mettendo in discussione l’architettura delle relazioni internazionali e la stessa sicurezza della compagine statuale. Nuovo attore sullo scacchiere geopolitico, è in grado di cambiare i rapporti di forza e di rimodellare il sistema in funzione della propria accresciuta importanza.

Esso ha assunto con eccezionale esattezza quei caratteri di indeterminatezza e volatilità che complicano e limitano le capacità dello Stato westfaliano di contrastarlo e combatterlo, ma più ancora ha dimostrato una sorprendente flessibilità nello sfruttare le molteplici aperture di società complesse come quelle occidentali, così come la capacità di fare un sapiente uso degli strumenti più sofisticati della rivoluzione informatica portando la guerra asimmetrica anche nel cyberspazio.


SOMMARIO: §I. I nuovi scenari internazionali. – §II. Il terrorismo globalizzato. – §III. Una violenza datata. –  §IV. L’asimmetria del terrorismo. – §V. Il nuovo modello terroristico. – §VI. Foreign fighters e jihadismo di ritorno. – §VII. Islam = terrorismo: un’equazione da evitare. – §VIII. Il marketing dell’Apocalisse. – §IX. Il delicato rapporto tra internet e terrorismo. – §X Il cyberterrorismo. – §XI Considerazioni conclusive.

I. I nuovi scenari internazionali

Le trasformazioni che hanno avuto luogo nel sistema internazionale negli ultimi anni sono così macroscopiche da rendere desuete molte regole e procedimenti su cui si basa tradizionalmente la politica e la politica estera in particolare[1].

Quella attuale è una politica post internazionale, dove attori nazionalstatali si dividono lo scenario globale e il potere con organizzazioni internazionali, gruppi industriali internazionali e movimenti sociali e politici transnazionali[2]

Una politica turbolenta, con una fondamentale caratteristica: l’incertezza[3], che soppianta la prevedibilità e l’ordine internazionale del periodo bipolare.

Il venir meno dell’impero sovietico, con la dissoluzione del Patto di Varsavia del 1955, ha complicato infinitamente il quadro internazionale. Quell’insieme di regole che avevano governato la competizione e che si fondavano sulla razionalità, reciprocamente percepita, dei due contendenti maggiori, ha lasciato il posto ad un assetto ancora da definire nella sua complessità[4].

Nell’arco di cinquant’anni, pace egemonica all’interno dei blocchi, e pace di equilibrio tra i blocchi, avevano convissuto garantendo al sistema internazionale una certa stabilità e permettendo un’apprezzabile prevedibilità[5] nei comportamenti sia degli attori principali che delle pedine che si muovevano, come clienti, alla periferia del sistema[6].

Il confronto simmetrico tra USA e URSS permise, dunque, di prevenire conflitti bellici su scala regionale, così come su larga scala, all’interno delle zone di influenza dei due blocchi.

II. Il terrorismo globalizzato

Oggi, le sfide e le minacce non vengono più da una parte sola e non sono più soltanto militari, ma sono molteplici e di varia natura[7].

Una di queste minacce, fra le più incombenti, è il terrorismo c.d. globalizzato, quello post 11 settembre 2001, di matrice islamico-radicale e rappresentato, oggi, dal Daesh[8].

Un terrorismo che segna l’avvio di un nuovo capitolo nella storia mondiale e che modifica lo scenario internazionale, lasciando lungo il suo corso una scia di sangue che sembra esulare da ogni logica e ragione.

A tal riguardo, gli attentati che hanno colpito al cuore gli Stati Uniti, hanno mostrato per la prima volta e in maniera tangibile la portata e la realtà del terrorismo internazionale, segnando l’inizio di un’epoca caratterizzata da quella che Ulrich Beck, nell’ambito della teoria del rischio, definisce globalizzazione del rischio terroristico[9]. Nella società mondiale del rischio è la percezione della violenza, l’anticipazione del pericolo avvertito a dare impulso alla globalizzazione del terrore[10].

Le azioni come quelle dell’11 settembre 2001 hanno trascinato ancor di più il mondo in un nuovo tipo di guerra: la conflittualità complessa. Una conflittualità sempre latente, in agguato, eventualmente emergente con forme, modi, tempi poco prevedibili. Unica necessità: l’approccio globale[11].

Sun Tzu, padre della strategia militare e autore del trattato “L’Arte della Guerra” (VI-V secolo a.C.), ammoniva: «se conosci inemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia[12].»

Ma, effettivamente, conosciamo questo nuovo nemico?

Secondo Umberto Gori: «[…] non lo conosciamo, mentre loro, i terroristi, ci conoscono molto bene e conoscono anche la nostra storia. La data dell’11 settembre 2001, data tragica per le tre mila vittime e per le torri del World Trade Center di New York non è stata scelta a caso. Nel lontano 11 settembre 1683, gli eserciti ottomani, dopo furibonde battaglie, furono respinti sotto le mura di Vienna dalla Lega Santa: era il tentativo di assaltare l’Europa.»

L’11 settembre 2001 rappresenta, dunque, il tentativo di rivincere contro l’Occidente intero e prende le mosse un terrorismo c.d. a-tellurico, di derivazione radicale islamica, che non mira più a rivendicare la sovranità o l’autonomia in un determinato territorio, bensì avente come obiettivo il rovesciamento dell’ordine internazionale esistente. In altre parole, ha la stessa funzione di quelle guerre che la teoria delle Relazioni Internazionali chiama costituenti, e cioè costitutive di un nuovo assetto nella disposizione del potere mondiale[13] (come lo sono state le guerre mondiali).

Il terrore del terrore generato dagli attacchi jihadisti mira a raggiungere il suo principale bersaglio: spaventare a tal punto gli Stati miscredenti da paralizzarli all’inazione o da obbligarli a una reazione spropositata[14].

III. Una violenza datata

Nonostante la presente disamina sia volta a prendere in considerazione soprattutto alcuni dei nuovi volti del terrore (quali: il terrorismo c.d. mobile dei foreign fighters, quello di matrice islamica incarnato dall’ISIS e, non da ultimo, il cyberterrorismo), è necessario sottolineare, in via preliminare, che il terrorismo tout court non rappresenta affatto un fenomeno tipico dell’epoca contemporanea.

Al contrario, come sottolineato da esperti del settore, fra cui Chaliant e Blin[15], si tratta di una forma di violenza politica, per così dire, datata, che era già ben nota e invalsa non solo fra gli Zeloti[16] e i Sicarii[17], ma anche fra i Thug[18] e i Nizariti[19].

Si aggiunga poi che, stando alla studiosa di religioni Shadia Drury, il primo esempio di attentatore suicida sarebbe individuabile nella figura biblica di Sansone il quale, dopo essere caduto prigioniero dei Filistei scelse, con un’unica azione, di porre termine alla propria esistenza e al contempo a quella dei suoi nemici distruggendo con la sua sola forza le colonne del tempio di Dagon che, una volta crollato, seppellì­­­ sé stesso e tutti i Filistei che vi stavano all’interno[20].

IV. L’asimmetria del terrorismo

L’11 settembre rappresenta la più riuscita operazione di guerra senza limiti.

Una guerra che si distingue da quella tradizionale per via di una serie di caratteristiche quali: l’omnidirezionalità, la sincronia, le risorse illimitate e, soprattutto, l’asimmetria[21].

Proprio per la sua natura di conflitto allo stesso tempo concreto e astratto, che muove eserciti fisici e virtuali in uno spazio potenzialmente infinito, la guerra senza limiti è tale quando agisce su più fronti nello stesso momento, dove, ovviamente, per fronti si intendano campi d’azione e non terreni materiali[22].

Gli attentati dell’isola di Manhattan hanno preso di mira più obiettivi (omnidirezionalità) allo stesso tempo (sincronia), mandando a schiantare sulle Torri Gemelle aerei di linea americani guidati da piloti suicidi (mezzi illimitati). Ma, molto più dell’esempio appena riportato, l’elemento forte e contraddistintivo degli attacchi al World Trade Center, che è anche la caratteristica più emblematica della guerra senza limiti, è stata l’asimmetria[23].

I fatti occorsi l’11 settembre 2001 hanno dimostrato quanto sia stato sottovalutato il ruolo della guerra asimmetrica nell’odierna conflittualità. Storicamente abituati ad avere un nemico e a poter identificare un avversario, si rimane attoniti nel non sapere su chi concentrare una qualsivoglia reazione a quanto accaduto, nell’essere da soli sul fronte, nel non sapere nemmeno se e dove si nasconde l’antagonista[24].

La situazione disarma anche chi può vantare il più fornito arsenale militare e mette in crisi chi faceva conto sulle barriere naturali costituite dagli oceani e dalle relative miglia di distanza che fino all’11/9 prospettavano in estrema lontananza sia la guerra sia la relativa paura[25].

Chi, protagonista o spettatore, credeva nell’invulnerabilità degli Stati Uniti ha ricordato, obtorto collo, il mito omerico del pelide Achille e del suo tallone[26].

Unitamente alla prerogativa di colpire obiettivi civili, inermi e non militari in modo imprevedibile, l’elemento caratteristico e propriamente strutturale del terrorismo, aspetto che si riscontra in tutte le varianti e in tutte le manifestazioni di questa peculiare forza di violenza, è rappresentato dal fatto di costituire l’extrema ratio strategica alla quale ricorrono attori c.d. deboli[27].

Ed è per questo motivo che si parla di asimmetria del conflitto intendendo, con tale espressione, una forma di inimicizia e di ostilità che coinvolge due parti fra le quali sussiste uno sbilanciamento di forze militari, economiche e politiche decisamente tangibile[28] e dove la parte più debole, per azzerare le proprie carenze qualitative e quantitative, neutralizza un avversario ritenuto più potente attraverso l’aggiramento delle sue potenzialità e lo sfruttamento delle sue debolezze, criticità o vulnerabilità, appunto come avvenuto l’11 settembre 2001.

V. Il nuovo modello terroristico

Il terrorismo internazionale negli ultimi anni ha subìto cambiamenti sostanziali che ne hanno ridefinito strategie e spazi d’azione.

L’inizio della transizione verso un nuovo modello di terrorismo è stato segnato dai tragici eventi dell’11 settembre 2001 che ha cambiato la percezione del pericolo agli occhi dell’opinione pubblica mondiale[29].

La dichiarata War on Terror cui gli Stati Uniti hanno dato corso su larga scala ha certamente contribuito a proiettare il fenomeno terroristico sulla scena geopolitica globale determinando, così, quelle dinamiche che avrebbero posto le basi per un ulteriore momento evolutivo di alcune organizzazioni terroristiche[30].

La successiva destrutturazione (tanto nel nucleo quanto nei rapporti con gruppi associati e cellule sparse) di al-Qaeda, profondamente indebolita dalla strategia militare[31] messa in atto dall’amministrazione Bush, ha fatto in modo che i suoi veterani si ricollocassero altrove e sotto altre organizzazioni, nuove o esistenti, dando seguito a una sorta di disseminazione ideologica e facendo in modo che si costituissero e rafforzassero delle realtà particolari che hanno iniziato a operare, in modo sempre più incisivo, su scala regionale.

Ne sono un classico esempio al-Qaeda nel Maghreb Islamico e al-Qaeda in Iraq, cellula madre di quello che oggi si è autodeterminato come Stato Islamico, il quale si è dimostrato più efficiente dell’organizzazione fondata da Osama Bin Laden alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso.

Il terrorismo, dunque, non cessa di esistere ma, proprio a seguito di importanti eventi geopolitici, ha la capacità di rigenerarsi sotto altre forme anche al fine di perseguire nuovi obiettivi, e lo farà sempre più velocemente. Su questa base, in determinate aree dove era presente un vuoto di potere, l’organizzazione terroristica ha avuto modo di sostituirsi ai poteri statuali legittimi e di acquisire, in modo progressivo, un sempre più esclusivo controllo del territorio[32].

Al controllo del territorio ne è conseguita l’imposizione di una propria logica statuale su dei territori rendendoli diversamente governati[33], la creazione di una economia parallela che ne consentisse il sostentamento e una successiva politica sociale di coinvolgimento della popolazione in modo tale da acquisire un certo consenso sociale. Questi caratteri definiscono la nuova natura di un terrorismo che da semplice organizzazione diventa un sistema caratterizzato da una serie di complesse variabili[34].

L’aspetto statuale e organizzato, abilmente propagandato dallo Stato Islamico, ha attratto decine di migliaia di musulmani, tra i quali molti convertiti occidentali ed europei in particolare, che si sono recati in Siria e Iraq per combattere e concorrere alla costituzione del califfato[35].

VI. Foreign fighters e jihadismo di ritorno

­Negli ultimi anni l’opinione pubblica mondiale è stata ripetutamente scossa dalla violenza e dalle immagini che hanno accompagnato mediaticamente la rapidissima ascesa ed espansione dell’autoproclamato Stato Islamico. L’attenzione dell’intelligence e del mondo accademico è stata attirata soprattutto dal fenomeno dei c.d. foreign fighters[36] coinvolti nel conflitto siro-iracheno, per le modalità̀ di attivazione e sviluppo, nonché per la mobilitazione raggiunta in brevissimo tempo[37]; jihadisti attratti dal califfato che,  giunti da Paesi terzi rispetto a quelli dove si svolge il conflitto, vanno a combattere nelle fila dello Stato Islamico.

Si tratta di giovani generazioni attratte da un progetto ideologico superiore che per loro rappresenta un’opportunità, anche economica, oltre che un’avventura. Giovani che vedono nella jihad un mezzo per la realizzazione personale.

Il fenomeno di rientro dai teatri di crisi, c.d. jihadismo di ritorno, in numero considerevole, nei propri Paesi di origine dopo avere acquisito i metodi, le tecniche e le ideologie di combattimento apprese sul campo di battaglia per dar corso ad azioni terroristiche, rappresenta una delle nuove strategie adottate con l’intento di colpire per destabilizzare[38], nonché una vera criticità che sta mettendo a dura prova l’antiterrorismo dei paesi interessati che spesso non conoscono l’identità di chi rientra magari dopo essere transitato, al fine di non destar sospetti, da un Paese considerato non a rischio.

L’alto livello della minaccia rappresentata dai returnees, una volta terminata l’esperienza nei teatri di guerra, è dovuto al fatto che i foreign fighters presentano i requisiti strategici per colpire in Europa: addestramento alla guerriglia, capacità di eseguire attacchi terroristici complessi e coordinati, potenziale libertà di circolazione nello spazio Schengen, possibilità di praticare ulteriore proselitismo e contatti con gli estremisti operanti in Medio Oriente[39].

A questo va aggiunto il rischio di un rapido processo di radicalizzazione che i returnees possono innescare in giovani emarginati delle grandi metropoli occidentali, anche grazie al fascino esercitato dal veterano della jihad[40].

Ma cosa spinge un giovane cristiano europeo a convertirsi a una visione radicale e violenta dell’Islam e cosa spinge un giovane musulmano a sposare la causa jihadista?

Probabilmente non si è in grado di dare una risposta unica, perché una risposta che sia univoca e onnicomprensiva non sembra esistere. 

Di certo questi soggetti nutrono un forte senso di rivalsa verso le comunità che li ospitano. Da un lato sono persone diventate a tutti gli effetti di nazionalità europea, ma dall’altro riversano sull’Occidente un sentimento di insoddisfazione e frustrazione per la loro condizione sociale che non li soddisfa. Per loro, diventare foreign fighters e abbracciare il fondamentalismo, rappresenta un modo per provare a riscattarsi e trovare nella jihad una ragione profonda di esistenza[41].

Sentimento di rivalsa e di disprezzo verso un modello, quello occidentale, nel quale si vive, ma nel quale non ci si vuole più riconoscere.

VII. Islam = terrorismo: un’equazione da evitare

Diversamente da quello che si potrebbe essere portati a credere soprattutto in un momento storico come quello contingente, caratterizzato da una multiculturalità e da una multireligiosità spesso guardate con avversione, il terrorismo non può, e non deve essere, associato semplicisticamente a una certa cultura e a una determinata religione[42].

In tal senso, è bene chiarire che sebbene si debba ammettere che oggi la più forte spinta ideologia del terrorismo, e in particolar modo di quello suicida, rinvia a visioni distorte e, per molti versi, del tutto snaturate dell’Islam, tuttavia, la religione islamica in sé, non rappresenta né un pericolo né un problema[43].

Diversamente, rischi e problematicità sono da attribuirsi in via esclusiva all’abilità di gruppi terroristici che, ricorrendo a una versione distorta dell’Islam e del Corano, associano l’attentato terroristico al martirio così da tentare di nobilitare e, in qualche misura, di giustificare il ricorso alla violenza[44].

Prendendo poi in considerazione la nozione di jihad, bisogna rilevare che la traduzione che generalmente viene data del termine è quella di guerra. Una traduzione, questa, che però non ci restituisce nemmeno minimamente la sua valenza.

Nel Corano, infatti, il concetto di jihad indica lo sforzo, da intendersi come continuo anelito del fedele al perfezionamento e come impegno morale necessario a mettere in pratica i precetti religiosi[45].

Diversamente da quello che si possa pensare, allora, l’accezione di guerra contro i miscredenti[46], costituisce solo l’ultimo dei possibili significati di cui si colora questo lemma. Un significato decisamente secondario che le organizzazioni terroristiche si sono affrettate ad abbracciare e a diffondere.

VIII. Il marketing dell’Apocalisse

La Rete, moderna frontiera di libertà e democrazia, si presta a essere il nuovo teatro del mondo dove si consumano i grandi conflitti di questo tempo e, nel giro di poco tempo, si è trasformata nel più efficiente dispositivo per controllare, manipolare, deformare la realtà e, in definitiva, dominare grandi masse orientandone le scelte.

Sul piano mediatico l’ISIS rappresenta in un certo senso l’11 settembre di Internet, la prima grande sconfitta della Rete, così come l’attacco alle Torri Gemelle ha segnato la sconfitta dell’intelligence statunitense[47].

Analizzando brevemente l’interazione ISIS-Rete, un aspetto che colpisce è che lo Stato Islamico non abbia mai voluto utilizzare lo strumento virtuale per far comprendere al mondo intero quali siano le sue motivazioni argomentando politicamente e in modo circostanziato. Non ha mai intavolato una discussione globale proprio sfruttando la caratteristica dialogica dei social media. L’ISIS ha scelto di utilizzare questi canali di comunicazione in modo anomalo, eliminando l’interattività: i suoi spot si limitano, infatti, ad annunciare, di volta in volta, una nuova rappresaglia, in risposta a un attacco o a un’offesa presunta già ricevuta[48].

Tale nuova strategia comunicativa, che rappresenta uno dei nuovi volti del terrore, è quella che Bruno Ballardini definisce marketing dell’Apocalisse: violenza mediatica pura sotto forma di spot pubblicitari che sono concepiti con la duplice finalità di terrorizzare gli infedeli occidentali di esaltare le menti per reclutare sempre più adepti e miliziani. 

L’ISIS ragiona in modo anche occidentale: sa perfettamente che viviamo in una dimensione totalmente immersa nei media e che è quindi necessario portare la guerra prima di tutto nel virtuale, in quel nuovo regno coincidente con lo spazio cibernetico, qualificato come quinto dominio della conflittualità[49]: teatro artificiale di guerra supplementare ai teatri naturali di terra, di mare, d’aria e di spazio extra-atmosferico.

Quella dell’ISIS è una guerra asimmetrica anche sul piano mediatico, non solo su quello militare. E Internet è lo strumento perfetto.  È dalla fine degli anni Novanta che i gruppi terroristici utilizzano la Rete. Ma mai prima d’ora in questo modo, come un’arma[50].

Un regime paradossalmente retrogrado, ma ipermoderno che usa con sapienza gli strumenti più sofisticati della rivoluzione informatica al servizio di un ideale.

IX. Il delicato rapporto tra Internet e terrorismo

Grazie alle caratteristiche intrinseche del cyberspace[51] che si presenta, per sua stessa natura, come de-territorializzato, de-centralizzato[52] e contraddistinto dalla simultaneità, dall’anonimato e dalla spersonalizzazione, la nuova strategia terroristica da nazionale e transnazionale è ormai divenuta globalizzata.

A partire dall’11 settembre il terrorismo ha acquisito declinazioni virtuali e connotazioni cyber. Il terrorismo, così come la criminalità organizzata, ha compreso i notevoli vantaggi scaturenti dalla Rete dal momento che questa:

  • Amplifica la forza e il riverbero del terrorismo stesso poiché la Rete tramuta un accadimento locale (circoscritto nel tempo e nello spazio) in un evento globale (privo di confini, a-spaziale e a-temporale);

  • Permette di far pervenire la propaganda jihadista a un bacino di utenti sempre più vasto e di parlare ai giovani andando a manipolare quei sentimenti di rabbia, protesta e confusione che serpeggiano tra i soggetti di seconda o terza generazione delle grandi metropoli occidentali. Una volta reclutati i nuovi adepti su Facebook, Twitter o forum vari, la fase successiva di radicalizzazione avviene in un ambiente virtuale privato basato su conversazioni crittografate person-to-person;

  • Permette operazioni di data mining, ovverosia di ricerca di know-how utile per azioni di terrore. Internet può̀ fornire informazioni dettagliate su infrastrutture critiche quali linee di trasporti, edifici pubblici, aeroporti, porti oppure informazioni sulla progettazione e l’utilizzo di armi chimiche, bombe artigianali e sostanze velenose;

  • Agevola la raccolta di fondi. Tramite la Rete viene creato un vero e proprio groviglio di organizzazioni, fondazioni ed enti che hanno il solo scopo di raccogliere fondi per la causa jihadista;

  • Facilita la comunicazione strategica tra terroristi e il coordinamento delle azioni di cellule terroristiche e lupi solitari dislocati in Occidente.

X. Il cyberterrorismo

Aderendo alla posizione di Umberto Eco, si può dire che i media, pur non volendolo, si sono rivelati come il più grande alleato del terrorismo e che, unitamente all’impiego delle più moderne e aggiornate ICT[53] (Information and Communication Technologies), hanno concorso all’emersione di quella che potrebbe definirsi come la versione 2.0 della violenza terroristica, vale a dire il cyberterrorismo.

Tuttavia, bisogna rilevare, che il concetto di cyberterrorismo, come quello di cybercrime[54], è uno dei più abusati e fraintesi dell’Era dell’Informazione.

Occorre fare, pertanto, un’importante precisazione: oltre a intendere il cyberterrorismo secondo un approccio tool oriented dove la Rete s’identifica quale strumento e supporto (come analizzato appena sopra), in ambito accademico si riscontra, inoltre, un approccio target oriented dove la Rete è intesa come obiettivo e arma.

Le organizzazioni terroristiche, infatti, possono utilizzare lo strumento informatico e Internet con diverse finalità: sia per svolgere tutte le attività inerenti alla gestione e alla sopravvivenza dell’organizzazione terroristica, quali la propaganda, la raccolta di fondi e informazioni, la comunicazione, l’organizzazione e il reclutamento, sia per paralizzare o compromettere i sistemi informatici di centrali elettriche, banche, ospedali o i nodi critici di Internet, delle comunicazioni e dei servizi di emergenza, in modo da attentare al benessere della popolazione, alla sicurezza, al buon funzionamento dello Stato e, infine, alla crescita economica di quest’ultimo.

XI. Considerazioni conclusive

L’attentato del 7 gennaio 2015 contro il giornale satirico francese Charlie Hebdo a Parigi, che ha causato la morte di dodici persone, ha inaugurato una lunga serie di spargimenti di sangue attraverso l’Europa e ha presentato alla nostra civiltà i nuovi attentatori delle democrazie occidentali.

Nel giro di due anni e mezzo, fino al recentissimo attentato di New York del 31 ottobre 2017 (ultimo attentato al momento in cui si scrive), il Vecchio Continente si è fatto teatro di efferati attacchi reiterati, imprevedibili e sempre portati a termine con esito positivo e con lo scopo prefissato dalle diaboliche menti del sedicente Stato Islamico: disseminare terrore e sgomento tra i miscredenti occidentali colpendo i simboli tanto cari alla nostra cultura, ma visti con ribrezzo da questi soggetti, che agiscono con la scusa dell’Islam e dei dettami del Corano per legittimare il ricorso alla violenza.

Gli attacchi jihadisti non si rivolgono più al cuore della politica o dell’economia degli Stati come nel caso dei tragici eventi dell’11/9 (in quel caso, il World Trade Center era un’infrastruttura critica e un’arteria dell’economia e della finanza statunitense).

Oggi, invece, il target sembra mutato: si assiste a degli attacchi mirati non più verso i grandi eventi o gli obiettivi sensibili classici quali, ad esempio, la sede del Parlamento o del Governo, dell’Economia o della Finanza di uno Stato, ma verso le zone affollate dove le persone, presunte colpevoli, stanno condividendo momenti di spensieratezza.

L’obiettivo sensibile diventa, quindi, la quotidianità, la serenità e il normale svolgimento della vita.

Dovremmo forse abituarci al terrore imposto dal nemico?

Il rischio che ci si abitui agli attacchi terroristici nel cuore dell’Europa, e anche alle reazioni sempre più prevedibili ma inefficaci a ognuno di essi, è concreto. Col risultato che, poco alla volta, senza quasi accorgercene, si finisca per rinunciare a ciò che abbiamo di più caro e che è stato una conquista degli ultimi decenni: la tranquillità e la sicurezza delle nostre strade, piazze e città.

 


[1] Gori U., Intelligence e terrorismo nel sistema internazionale post-bipolare, in Osservatorio dell’Istituto di Studi Militari Marittimi, Anno XVI – n.138, 2006.

[2] Rosenau J. N., Study of world politics: volume II: globalization and governance, Routledge, London-New York, 2006.  

[3] L’incertezza oggi è la regola. I c.d. eventi inaspettati diventano casi comuni. L’unico modo per dominare il mutamento e vincere la turbolenza è la capacità di apprendere e di adattarsi alle nuove situazioni. Ciò̀ implica capacità di analisi, d’intelligence, di previsione e di pianificazione/programmazione. In una parola: capacità di analisi strategica. (Gori U., op.cit.)

[4] Batacchi P., L’evoluzioni dei conflitti moderni, Ricerca Ce.Mi.S.S., 2010.

[5] Nel quadro di questa trasformazione il rischio ha perso il carattere di certezza e prevedibilità, legato alla probabilità di un attacco su larga scala contro l’Occidente proveniente dalle truppe del Patto di Varsavia, per assumerne uno nuovo e diverso, più indeterminato e quindi soggetto alla volatilità di un assetto in profonda trasformazione. (Batacchi P., op.cit.)

[6] Batacchi P., op.cit.

[7] A giudizio di chi scrive, il mondo occidentale, al giorno d’oggi, si trova ad affrontare cinque tipi particolari di minacce: la permanente criminalità organizzata sempre più transnazionale; il rischio nucleare; la minaccia bellica, sebbene attenuata; il pericolo cibernetico; il terrorismo, di cui presto si dirà.

[8] ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāqi wa sh-Shām. A differenza di al-Qaeda, che non aveva pretese territoriali, il Daesh si appropria simbolicamente, in attesa di farlo di fatto, di territori europei. Gli attentati nelle varie capitali del nostro continente servono ad ammonire che quei territori sono già province del Califfato. (Sanfelice di Monteforte F., ONU, NATO e UE contro il terrorismo, in Gori U., Lisi S. (a cura di), Cyber Warfare 2016. Dalle strategie e tecnologie cyber contro il terrorismo all’IOT e Impresa 4.0, FrancoAngeli, Milano, 2017).

[9] Beck U., Conditio Humana. Il rischio nell’età globale, Laterza, Bari, 2008.

[10] Ibidem.

[11] Carli C., Cyber Warfare vs Leggi Umanitarie, Informazioni della Difesa, 5/2013.

[12] Tzu S., L’arte della guerra, cura e trad. it. Fracasso R., Newton Compton Editori, Roma, 2013.

[13] Gori U., Intelligence e terrorismo nel sistema internazionale post-bipolare, cit.

[14] Plebani A., Jihadismo globale. Strategie del terrore tra Oriente e Occidente, Giunti Editore, Firenze, 2016.

[15] Blin A., Chaliant G., L’invenzione del terrore moderno, in AA.VV., Storia del terrorismo. Dall’antichità ad Al Qaeda, Blin A. Chaliant G. (a cura di), UTET, Padova, 2007.

[16] Temporalmente collocabili nel I secolo a.C. in Israele, gli Zeloti erano un gruppo politicoreligioso giudaico. Considerati dai romani alla stregua di terroristi e criminali comuni, si ribellavano con le armi alla presenza romana in Israele, in https://it.wikipedia.org/wiki/Zelota, ultimo accesso il 12 febbraio 2018.

[17] La setta ebraica dei Sicarii era l’ala politica estrema degli Zeloti. Dotata di grande fervore nazionalistico, combatteva la presenza romana nella regione, ma soprattutto tutti gli ebrei acquiescenti verso gli stranieri pagani. (Campagnoli M. N., op.cit.)

[18] Setta inneggiante la dea Kalì, che operò in India dal 480 a.C. al 1836 d.C. L’attività principale dei Thug era la depredazione di carovane di pellegrini o di mercanti e l’uccisione, mediante strangolamento, delle vittime, in https://it.wikipedia.org/wiki/Thug, ultimo accesso il 12 febbraio 2018.  

[19] Setta operante in via prevalente in Persia e in Siria a partire dal 1080 a.C., i Nizariti si servivano dell’omicidio come mezzo per raggiungere i propri traguardi ed erano tanto più temibili perché non si preoccupavano della morte. Anzi, le loro missioni suicide erano considerate garanzia di vita eterna e la chiave per l’ingresso del Paradiso: per questa ragione vengono accostati ai terroristi moderni.(Campagnoli M. N., op.cit.).

[20] Drury S., Terrorism: from Samson to Atta, in Arab Studies Quarterly, vol.25, No.1/2, Special double issue: global relations after 11 september: myths and realities, Winter and Spring, 2003.

[21] Xiangsui W., Lang Q., Unrestricted Warfare: China’s master plan to destroy America, PLA Literature and Arts Publishing House, Pechino, 1999.

[22] Ghioni F., Preatoni R., Ombre asimmetriche. La guerra cibernetica e i suoi protagonisti, Robin Edizioni, 2005.

[23] Ibidem.

[24] Di Nunzio R., Rapetto U., Le nuove guerre. Dalla Cyberwar ai Black Bloc, dal sabotaggio mediatico a Bin Laden, BUR, Milano, 2001.

[25] Ibidem.

[26] Ibidem.

[27] Campagnoli M. N., I nuovi volti del terrore. Dal terrorismo islamico al cyberterrorismo, Key, Vicalvi, 2017.

[28] Ibidem.

[29] Sperini A, Evoluzione del fenomeno terroristico: una necessaria premessa storica, in Mugavero R., Razzante R. (a cura di), Terrorismo e nuove tecnologie, Pacini Giuridica, Pisa, 2016.

[30] Sperini A, Evoluzione del fenomeno terroristico: una necessaria premessa storica, cit.

[31] La dichiarata War on Terror, iniziò con le due invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq. La risposta militare all’estero (campagna Enduring Freedom) contro rogue States ritenuti protettori di al-Qaeda si svolse anche nelle Filippine, nel Sudan e nel Pakistan. A seguito dei bombardamenti a tappeto che distrussero la quasi totalità delle strutture militari di al-Qaeda (campi di addestramento e depositi di armi e mezzi), già nei primi del 2002 cadde il regime dei talebani.

[32] Sperini A, Evoluzione del fenomeno terroristico: una necessaria premessa storica, cit.

[33] AA.VV, Ungoverned Territories, Rand Corporation, Pittsburg, 2007.

[34] Sperini A, Evoluzione del fenomeno terroristico: una necessaria premessa storica, cit.

[35] Ibidem.

[36] Il fenomeno è nato e si è sviluppato dapprima in Francia e in Inghilterra, coinvolgendo rapidamente i figli di quarte e terze generazioni di immigrati musulmani, tradizionalmente presenti nei due Paesi. Con tale nome, che si può tradurre con combattenti stranieri, ci si riferisce a militanti europei (o a ogni modo occidentali) che combattono all’estero ingrossando le fila dei gruppi terroristici e delle milizie in conflitti non convenzionali, come quello siriano..

[37] Bennett J., National Counterterrorism Center Head: many if not most foreign ISIS fighters will fight to the death for the caliphate, in http://dailycaller.com/2017/07/21/national-counterterrorism-center-head-many-if-not-most-foreign-isis-fighters-will-fight-to-the-death-for-the-caliphate/, ultimo accesso il 25 febbraio 2018.

[38] Sperini A, Evoluzione del fenomeno terroristico: una necessaria premessa storica, cit.

[39] Oltre a strategie di guerra non convenzionale, i foreign fighters hanno la capacità di riversare in contesti occidentali forme di conflittualità convenzionale, grazie all’esperienza acquisita nei centri urbani della Siria, nonché di gestore situazioni critiche sia in piccoli gruppi che autonomamente.

[40] Carenzi S., Varvelli A., Dopo il Califfato: quali scenari per lo Stato Islamico, in Focus Mediterraneo allargato, n. 5, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale per l’Osservatorio di Politica Internazionale, Parlamento e del Ministero degli Affari Esteri, luglio-settembre 2017.

[41] Pierri M, Foreign fighter, chi sono e cosa vogliono i jihadisti della porta accanto, in http://formiche.net/2014/06/foreign-fighters/, consultato in data 22 febbraio 2018.

[42] Campagnoli M. N., I nuovi volti del terrore. Dal terrorismo islamico al cyberterrorismo, Key, Vicalvi, 2017.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem.

[45] Di qui, la possibilità di distinguere ben quattro diverse tipologie di jihad: la prima, che si realizza con lo sforzo dell’animo; la seconda, che si compie con la parola; la terza, che richiede l’uso delle mani; e infine, la quarta, che prevede il possibile ricorso alla spada.

[46] Fiorita N., Se Dio lo vuole. L’insospettabile modernità della guerra “religiosamente corretta”, in Jura Gentium, 4/2008.

[47] Ballardini B., ISIS. Il marketing dell’Apocalisse, Baldini&Castoldi s.r.l., Milano, 2015.

[48] Ibidem.

[49] Lynn III W. J., Defending a New Domain: the Pentagon’s cyber strategy, Foreign Affairs, \2010.

[50] Ballardini B., ISIS. Il marketing dell’Apocalisse, op.cit.

[51] Con tale termine, coniato dal romanziere di fantascienza William Gibson in Neuromancer (1984), si intende l’insieme delle infrastrutture informatiche interconnesse, comprensivo di hardware, software, dati e utenti, nonché delle relazioni logiche, comunque stabilite, tra di essi.  Dimensione immateriale che mette in comunicazione i computer di tutto il mondo in un’unica rete che permette agli utenti di interagire tra di loro; spazio concettuale dove le persone interagiscono usando tecnologie per la comunicazione mediata dal computer.

[52] Levy P. Il Virtuale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997.

[53] Tecnologie riguardanti i sistemi integrati di telecomunicazione (linee di comunicazione cablate e senza fili), i computer, le tecnologie audio-video e relativi software, che permettono agli utenti di creare, immagazzinare e scambiare informazioni. Rilevanti incentivi economici favoriscono questo processo di integrazione, promuovendo la crescita delle imprese attive nel settore.

[54] Il cybercrime (cyberspace + crime) non rappresenta una categoria definita giuridicamente, anche se compare in fonti europee e sovranazionali. Allo stesso modo, non si rinviene una definizione internazionalmente riconosciuta del fenomeno. Tuttavia, mediante una semplicistica definizione, lo si può intendere come un nuovo scenario criminale, dove la commissione dell’illecito avviene nel cyberspace tramite l’utilizzo di tecnologie informatiche e telematiche. In altre parole, il cybercrime consiste nell’effettuare operazioni delittuose principalmente attraverso Internet.


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