Figli violenti e bulli: genitori responsabili per incapacità di educare?
In questi ultimi mesi, complice probabilmente anche una maggiore attenzione da parte degli organi di informazione, sembra che gli episodi di violenza tra i ragazzi abbiamo avuto un’impennata. Non manca giorno in cui non si parli di episodi di bullismo, prepotenza, abuso, spesso di violenza vera e propria. Di fronte a tali episodi, molti tendono a voler sdrammatizzare, parlando di bravate, di atti goliardici. Molti altri invece cominciano a parlare di problema sociale e culturale, generato non solo da una società sempre più insensibile ed abituata alla violenza, ma anche dall’assenza o latitanza dei genitori nell’educazione e nella crescita dei propri figli. Ma, al di là di quelle che possono essere le conseguenze anche penali degli episodi più gravi, una educazione inadeguata può far derivare una responsabilità civile in capo ai genitori nei confronti delle vittime dei propri figli?
L’art. 30 della Costituzione prevede l’obbligo di mantenimento, educazione ed istruzione dei figli da parte dei genitori, indipendentemente dallo status filiationis (cioè, anche se nati fuori dal matrimonio), sancendo così quello che è stato definito un principio di responsabilità per la procreazione, un automatismo tra procreazione e responsabilità genitoriale. Cioè, dal fatto stesso di aver procreato, di essere genitori, deriva automaticamente in capo agli stessi una responsabilità non solo nei confronti dei figli stessi, ma anche nei confronti dei terzi.
Nei confronti dei figli, per l’assolvimento degli obblighi specificati negli artt. 147 e 148 cod. civ., di diretta derivazione dallo stesso art. 30 Cost.
Nei confronti dei terzi, con la presunzione di colpa posta a carico dei genitori dall’art. 2048 cod. civ. per il “danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati …, che abitano con essi…”, e dalla quale sono liberati “soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”.
Secondo un principio pacificamente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, per superare tale presunzione, effetto del suddetto automatismo, e fornire una sufficiente prova liberatoria, è necessario che i genitori offrano non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto impedire il fatto (atteso che si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata. Il tutto, chiaramente, in conformità ed in considerazione delle condizioni sociali, familiari, dell’età, del carattere e dell’indole del minore.
Laddove, pertanto, non venga fornita tale prova positiva, ma anzi si abbia evidenza della inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata sul minore, discende la suddetta responsabilità dei genitori per il fatto illecito dallo stesso commesso.
Ma da cosa si può desumente tale inadeguatezza? Per la giurisprudenza, essa può essere desunta, in mancanza di prova contraria, anche dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 cod. civ., con il quale quindi l’art. 2048 cod. civ. è strettamente collegato.
Al contrario, invece, non sarebbe conforme a diritto, per evidente incompatibilità logica, la valutazione reciproca, e cioè che dalle modalità del fatto illecito possa desumersi l’adeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata (Corte di Cassazione, III sez. civile, sentenza n. 24475/2014).
Quindi, è come se il fatto illecito del minore rivelasse nello stesso tempo un doppio fallimento, una doppia “colpa” dei genitori (nei confronti dei figli stessi e dei terzi) derivante dal mancato assolvimento del medesimo obbligo di educazione e di quelli che ne conseguono.
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Gabriella Sparano
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