Fine vita e autodeterminazione del paziente. L’eutanasia tra legalità ed utopia
Sommario: 1. Introduzione – 2. Un binomio tra eutanasia attiva e passiva – 3. Dignità della persona e fine vita. Il caso Cappato e il ruolo della giurisprudenza – 4. L’eutanasia in Italia e la decisione della Corte Costituzionale – 5. Conclusioni
A cura di: dott.ssa Sara Spanò e dott.ssa Ilaria Guzzo
Abstract: The publication deals with the question of the end of life and consequently euthanasia. It is a highly topical issue behind which lies the unfathomable mystery of life and death. On the “end-of-life” issue, since the spring of 2000, three cases have been particularly discussed on the pages of newspapers, but also in the courtrooms, since they have led the case law to undergo important changes: this is the Welby, Englaro and Cappato. Euthanasia is an issue that has always divided the Italian Parliament, which is why legislation has always been deferred and never considered necessary. Almost all states in the world have faced or are facing this problem and most have ad hoc legislation. In Italy, the battle for legal euthanasia began about 40 years ago with countless bills, appeals, sentences that Parliament has never really taken into consideration. Politics in all these years has not only stood by, but has also rowed against it, supported above all by the clerical opposition.
1. Introduzione
Fino a non molto tempo fa, pochi avrebbero potuto immaginare che l’art. 32 della Costituzione sarebbe divenuto oggetto di importanti e accessi dibattiti che hanno interessato e tuttora interessano non solo il mondo giuridico ma, anche quello medico-scientifico, filosofico- morale e religioso fino a giungere agli onori della cronaca, mobilitando l’opinione pubblica.
Il dibattito ha ad oggetto la questione sul fine-vita e di conseguenza l’eutanasia; si tratta di un tema di grande attualità, dietro cui si cela l’insondabile mistero della vita e della morte.
L’eutanasia è un argomento che ha sempre diviso il Parlamento italiano, motivo per il quale la legiferazione è stata spesso differita e mai ritenuta come necessaria.
Prima di analizzare nello specifico questo tema è però doveroso soffermarsi su un’altra questione, che è correlata, anzi che sembrerebbe porre un freno all’eutanasia, si tratta del c.d. “diritto alla vita”, che al pari di tutti gli altri diritti individuali, si caratterizza per la sua necessarietà, imprescrittibilità, astrattezza, non patrimonialità e indisponibilità.
Quest’ultimo requisito, nel rapporto intercorrente tra il diritto alla vita e le scelte operanti nel fine vita, ha suscitato non poche perplessità, in quanto l’art. 2 Cost. riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell’uomo, proibirebbe in modo assoluto, seppur implicito, il compimento di qualsiasi atto diretto ad abbreviare o interrompere la vita dell’uomo; si spiega in tal senso l’art. 5 c.c., il quale “vieta gli atti dispositivi del proprio corpo quando arrechino nocumento al valore giuridico della persona, mentre sono generalmente ammessi, se non sono contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume e non cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica della persona”.
Il bene vita non è considerato da tutti “intangibile”, la sua indisponibilità è riferita soprattutto alla necessità di difendere la persona da qualunque atto di aggressione da parte di terzi, senza che ciò escluda la possibilità del titolare di disporre liberamente della propria vita secondo un principio di autodeterminazione individuale.
Attraverso l’interpretazione degli artt. 2, 3 e 13 Cost., non è possibile ritenere che sussista un obbligo coercibile di vivere contro la volontà del soggetto.
Hans Küng diceva che: “il diritto di continuare a vivere non può diventare un dovere, il diritto alla vita non equivale a una coercizione a vivere”[1]
Si potrebbe, allora, sostenere la legittimità di chiedere al sanitario di porre fine alla vita di quei soggetti che, tenuto conto della propria condizione di salute, ritengano non decorosa, ma soprattutto non dignitosa, la prosecuzione della loro esistenza.
Queste pretese sono legate alla questione riguardo la qualità della vita della persona ed alla domanda se “qualsiasi tipo di vita, anche la più limitata e dolorosa valga la pena di esser vissuta” [2]
La questione principale è però rappresentata da “chi è il padrone della vita”, ovvero, se esista in capo ad un soggetto una titolarità assoluta che gli consenta di darle il destino voluto.
Dunque, la discussione avente ad oggetto la configurabilità, nel nostro Paese, di un “diritto a morire dignitosamente”, si interseca con il dibattito sull’ammissibilità giuridica dell’eutanasia e del suicidio assistito, questione resa ancor più problematica data l’assenza di una chiara definizione normativa del concetto di “eutanasia”.
Tuttavia, nonostante l’assenza di una definizione generale e univoca di eutanasia che la descriva specificatamente [3], le pratiche ad essa ricondotte sono qualificate attraverso tre binomi categoriali: eutanasia attiva o passiva, a seconda rispettivamente, dell’intenzionalità o meno di cagionare la morte; commissiva o omissiva, a seconda della condotta posta in essere, e infine, volontaria o involontaria, a seconda che vi sia o meno il previo consenso del paziente.
Alla luce delle diverse definizioni eutanistiche esistenti è possibile individuare tra queste elementi comuni che ci permettono di identificare le sue tre principali caratteristiche, ovvero: l’oggettiva sofferenza del malato, correlata al suo essere in una condizione di inguaribilità o terminalità, la pietà del soggetto agente, provocata dallo stato di salute del malato, ed infine, la possibilità di agevolare il fine vita nel modo meno doloroso possibile.
2. Un binomio tra eutanasia attiva e passiva
Il termine eutanasia deriva dal greco εὐθανασία, che è la crasi tra “εὐ” (bene) e θάνατος (morte) significando letteralmente “buona morte”, intesa nel senso di morte procurata intenzionalmente nell’interesse di un individuo, la cui qualità di vita sia compromessa in modo grave e permanente, con lo scopo di porre fine alle sue sofferenze [4]
Di grande importanza appare il binomio tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, riconducibili alle due situazioni giuridiche dell’uccidere e del lasciar morire.
La differenziazione tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, ossia rispettivamente tra atti ed omissioni, evidenzia una diversa qualificazione morale e giuridica della condotta del medico, relativa – parlando in termini di diritto penale – al differente apporto causale nella produzione dell’evento.
Infatti, mentre nell’eutanasia passiva, l’omissione del medico si inserisce in un processo causale già attivatosi autonomamente che conduce alla morte, nell’eutanasia attiva invece, la condotta umana è il fattore causale che determina l’evento letale. Pertanto, la distinzione tra “lasciar morire” (eutanasia passiva) e “uccidere” (eutanasia attiva) rifletterebbe un diverso disvalore morale e giuridico del fatto, poiché nel primo caso la morte è la conseguenza di una malattia terminale di cui il medico non ha impedito l’evolversi; nel secondo caso è proprio la conseguenza della sua azione, ragion per cui l’eutanasia attiva è considerata ben più grave di quella passiva [5].
Più precisamente nella tipologia passiva, detta anche “desistenza terapeutica” [6], la condotta volta ad alleviare le sofferenze del soggetto la cui vita stia già naturalmente terminando, anche mediante la somministrazione di medicinali, come la morfina, che possono accorciare l’esistenza, senza che esse siano la causa della morte già in atto; si pensi alla c.d. sedazione profonda, o, ancora, la sospensione di terapie c.d. salvavita che tengono in vita artificialmente il paziente, senza la somministrazione delle quali, il malato morirebbe in modo naturale, come l’interruzione dell’idratazione, dell’alimentazione o ventilazione artificiale. [7]
La c.d. eutanasia attiva, invece, ricomprende l’omicidio del consenziente ed il suicidio assistito, entrambe condotte illecite. La prima condotta è penalmente sanzionata in quanto sussumibile nel delitto di cui all’art. 579 c.p., la seconda condotta rientra nella fattispecie sanzionata ai sensi dell’art. 580 c.p. In questo caso ci troviamo di fronte ad un comportamento commissivo – la somministrazione di un farmaco letale-, a cui è direttamente riconducibile la morte del paziente.
L’eutanasia attiva può essere consensuale o non consensuale; la prima costituisce l’oggetto, il focus degli attuali dibattiti, e si sostanzia nella richiesta del sofferente affetto da una malattia incurabile di porre fine alla propria vita; l’eutanasia non consensuale è invece equiparata ad un’ipotesi di omicidio, proprio perché manca la volontà del paziente sulla scelta di fine-vita.
Quindi, esaminato il discrimen tra queste due tipologie eutanistiche potremmo asserire che è sul piano della causalità che si nota la principale differenza tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva: se in quest’ultima l’omissione del medico si inserisce in un processo causale avviatosi autonomamente che conduce alla morte, nell’eutanasia attiva la condotta umana è il fattore causale, unico o concorrente con altri dell’evento morte.
3. Dignità della persona e fine vita. Il caso Cappato e il ruolo della giurisprudenza
Nel dibattito sul fine-vita la dignità dell’uomo ha assunto un ruolo importantissimo, in quanto molti ritengono che: “dignitosa è la vita della persona che non è esposta a momenti di negazione, che non è piegata dal bisogno, abbandono, ignoranza a negare a sé stessa il sentimento del confine e la concreta capacità di ricerca della propria espansione; è dignitosa quella vita che consente di vivere per dar forma alla vita”. [8]
“Non vivere bonum est, sed bene vivere:” [9] così Seneca nell’affermare che la qualità della vita è decisamente più importante del vivere a lungo, considera la morte volontaria come una via d’uscita fornita all’uomo, nel momento in cui egli diviene consapevole di non poter più essere sereno.
Se homo dignus è sinonimo di libertà, allora dovrebbe essere garantito il rispetto delle scelte, dei valori e delle sue volontà, poiché al contrario, imponendo di vivere una vita che non sente come propria, l’uomo vedrebbe minacciata la sua dignità. Ed è proprio su questo punto che nascono le discussioni in merito al riconoscimento nel nostro Paese delle pratiche eutanistiche; considerato espressione del principio di autodeterminazione, attraverso cui al paziente dovrebbe essere data la possibilità di scegliere autonomamente il momento del commiato.
Circa cinquecento anni fa, il radicale Tommaso Moro nella sua opera “Utopia”, inseriva il tema dell’eutanasia tra le forme di trattamento praticabile ai malati terminali. Fu il primo autore credente, in epoca moderna, che nel suo scritto fermamente sosteneva che è lecita l’eutanasia quando la malattia è inguaribile, e dovrebbero essere gli stessi “interpreti della volontà di Dio” ovvero i sacerdoti, ad esortare il malato a non prolungare la sua vita, per cui sarebbe saggio interrompere il corso della vita, quando la stessa ne è divenuta un martirio. [10]
Il tema del fine vita, in Italia, torna in auge con il caso che vede protagonisti Fabiano Antonini e Marco Cappato.
La vicenda iniziava nel 2014 quando Fabiano Antonini, noto con il nome Dj Fabo, diveniva tetraplegico e cieco a causa di un incidente automobilistico, rimanendo in una condizione che egli descriveva come insopportabile.
Antonini nel suo testo autobiografico inedito, consegnato all’Associazione Luca Coscioni, scriveva “le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione, non trovo più il senso della mia vita ora. Fermamente deciso, trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia.” Dopo l’incidente infatti, rimase -proseguiva Antonini- “immerso in una notte senza fine” e lottò giorno dopo giorno con la fidanzata e con l’Associazione Luca Coscioni per scegliere di morire senza soffrire. Così l’attivista ed esponente politico radicale Marco Cappato, entrato in contatto con la famiglia Antonini, gli forniva informazioni riguardo le pratiche di “suicidio assistito” in Svizzera.
Il giovane, dopo essersi messo in contatto con la clinica “Dignitas”, dopo aver compilato la documentazione e, aver seguito l’iter previsto secondo le leggi elvetiche, nel febbraio 2017 veniva trasportato a bordo di un auto guidata da Cappato in Svizzera, ove si sottoponeva a una procedura di eutanasia attiva e legale in quell’ordinamento.
Al suo ritorno in Italia Marco Cappato si autodenunciava e il suo nome veniva iscritto nel registro degli indagati presso il Tribunale di Milano per il reato di aiuto al suicidio (ex art. 580 c.p.).
La Procura di Milano dopo aver svolto le indagini, chiedeva l’archiviazione, sostenendo che l’aiuto al suicidio rilevante sarebbe solo quello prestato nella “fase esecutiva” della volontà suicidaria, e non anche in quella meramente prodromica, e in subordine che fosse sollevata la questione di costituzionalità del reato di aiuto al suicidio. [11]
Il GIP rigettava, però, tale richiesta, e dopo lo svolgimento dell’udienza in camera di consiglio, ordinava l’imputazione coatta per il reato di assistenza al suicidio, in quanto a suo parere la condotta del Cappato “è sussumibile nell’alveo della fattispecie di cui all’art. 580 c.p. sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, per aver agevolato l’esecuzione materiale del suicidio e per aver rafforzato l’intento suicida di Fabiano Antonini”. [12]
Il 14 febbraio 2018, la prima sezione della Corte di Assise di Milano adottava un’ordinanza con cui sospendeva il processo e rimetteva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale alla Corte Costituzionale.
La Corte dubitava della legittimità di tale articolo nella parte in cui “incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo e, nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 della Costituzione”. [13]
Benché la Corte non risolveva il quesito di legittimità costituzionale sollevato, con l’ordinanza n°207 del 2018 dava, in ogni caso, una pronuncia storica nella forma e nel contenuto.
Difatti, l’ordinanza n. 207/2018 della Corte si segnala, oltre che per i profili sostanziali della vicenda, anche per gli inediti profili processuali, che hanno finito con l’attrarre da subito l’attenzione della dottrina. Con l’invenzione di una singolare tecnica decisoria, che non ha precedenti nell’oltre sessantennio della nostra giurisprudenza costituzionale, la Corte, di fronte alle difficoltà di optare tra una decisione di inammissibilità per rispetto della discrezionalità del legislatore o una di accoglimento sotto forma di un’additiva di principio, sì da divenire essa stessa legislatore, perviene ad effetti simili ad una sentenza-monito ovvero ad una decisione di incostituzionalità accertata ma non dichiarata mediante l’adozione di un’originale ordinanza interlocutoria ad incostituzionalità differita, in quanto la Corte rinviava la trattazione della questione, all’udienza del 24 settembre 2019, il tutto per consentire al Parlamento, nello spirito di una «leale e dialettica collaborazione istituzionale» «ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale. Per tale motivo invitava il Parlamento ad intervenire, entro 11 mesi, con un’appropriata disciplina. Tuttavia l’inerzia del legislatore costrinse il Giudice delle leggi ad attivarsi e con la sentenza n. 242 del 2019, la Corte Costituzionale si pronunciava sull’illegittimità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui “non esclude la punibilità di chi con modalità previste dagli art. 1 e 2 della legge 219/2017, ovvero quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, agevola l’esecuzione materiale del proposito suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tale condizioni e modalità siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale.
Il 23 dicembre del 2019 Marco Cappato veniva definitivamente assolto perché il fatto non sussiste.
4. L’eutanasia in Italia e decisione della Corte Costituzionale
Alcune vicende, legate alla questione sul fine-vita, hanno avuto un forte impatto mediatico sulla società civile, tanto da risvegliare la coscienza di molti, tranne quella del legislatore, sempre più incapace di assumere il delicato compito che gli è proprio.
In merito alla questione “fine vita”, dalla primavera del 2000 tre casi sono stati particolarmente dibattuti sulle pagine dei giornali, ma anche nelle aule dei tribunali, in quanto hanno portato la giurisprudenza a subire importanti mutamenti. Si tratta delle vicende Welby, Englaro e Cappato.
In Italia la legge n. 219 del 2017, la c.d. legge sul “fine vita”, riconosce al malato il diritto di essere informato sulle proprie condizioni di salute, ad essere aggiornato sulle diagnosi, sulla prognosi, sui benefici e rischi degli accertamenti e dei trattamenti sanitari. La medesima, dispone che un paziente “può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni”, come può anche rifiutare parte o tutti i trattamenti, ha la facoltà di interrompere le cure in qualsiasi momento e richiedere le cure palliative accedendo persino alla sedazione profonda dopo essersi staccato dai macchinari che lo tengono in vita.
La novella introduce il c.d. testamento biologico, mediante il quale una persona, maggiorenne e capace di intendere e di volere, “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo aver acquisito le adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”.
Il nostro Paese possiede, dunque, una legge che permette di scegliere se fare o non fare o addirittura interrompere alcuni trattamenti medico-assistenziali. L’evoluzione giurisprudenziale ha condotto ad approdi, un tempo, poco lontano, impensabili, ma nonostante ciò, soprattutto i casi summenzionati hanno dimostrato l’inadeguatezza e gli evidenti limiti della normativa vigente, dando vita ad una serie di reazioni tali da dare il via ad un dibattito senza precedenti in merito alla liceità e alla compatibilità costituzionale dell’eutanasia
Come spesso avviene, lo stallo della politica ha indotto la giurisprudenza a compiere uno sforzo enorme volto a colmare il vuoto normativo in essere.
Nel mondo quasi tutti gli Stati hanno affrontato o stanno affrontando questo problema e la maggior parte si sono dotati di una legislazione ad hoc.
In Italia, invece, la battaglia per l’eutanasia legale è iniziata circa 40 anni fa con innumerevoli proposte di legge, appelli, sentenze che il Parlamento non ha mai preso realmente in considerazione. La politica in tutti questi anni, non solo è “rimasta a guardare”, ma ha remato anche contro, sostenuta soprattutto dalle opposizioni clericali. Difatti, l’eutanasia è un argomento che ha sempre diviso il Parlamento italiano, motivo per il quale la legiferazione è sempre stata differita e mai ritenuta come necessaria.
La prima proposta di legge risale al 1984 quando l’ex ministro Loris Fortuna, già estensore della legge sul divorzio, aveva richiesto norme sulla tutela della dignità del malato, nonché sulla disciplina dell’eutanasia passiva.
Nel corso degli anni sono state presentate tante altre proposte, tutte accomunate da un risultato infausto, dovuto soprattutto agli innumerevoli rinvii. Per ultima, l’Associazione Luca Coscioni, sostenuta da una lunga lista di organizzazioni, partiti politici, parlamentari e amministratori locali, ha organizzato una raccolta firme per il referendum costituzionale sull’eutanasia legale. Un referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 c.p. sul c.d. omicidio del consenziente.
Tecnicamente il quesito lasciava intatte le tutele per le persone vulnerabili, i minori degli anni 18, le persone incapaci di intendere e di volere, quelle il cui consenso è stato estorto, con il solo scopo di introdurre nel nostro Paese il diritto all’aiuto medico alla morte volontaria, per abbattere le discriminazioni oggi esistenti e consentire la possibilità di scegliere un fine vita sereno, consapevole e controllato, anche alle persone che necessitano di un aiuto esterno per porre fine alle proprie sofferenze.
La raccolta delle 500 mila firme necessarie per poter procedere con l’iter è iniziata lo scorso 12 agosto 2021 che ha confermato lo straordinario successo raggiunto dall’Associazione promotrice e non solo, la quale ha dato voce al popolo e al suo innato desiderio di poter decidere fino alla fine della propria vita. Ma purtroppo, la risposta favorevole della collettività veniva messa a tacere dalla Suprema Corte Costituzionale.
Com’è noto, con sentenza n.50/2022 del 15 febbraio, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum popolare.
Il ragionamento da cui la Corte ha mosso la propria decisione finale è da ricondurre alla volontà di mantenere vivente la tradizionale giurisprudenza rispetto alle caratteristiche fisionomiche del bene vita, da intendersi come diritto indisponibile e “riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost. (…)tra i diritti inviolabili, cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione privilegiata” [13].
La Corte, altresì, ha ritenuto che il testo referendario non fosse sufficiente a garantire questo carattere irrinunciabile del bene vita, ma anzi, non ponendo vincoli ultronei alla libera manifestazione del consenso ai fini della liceità della condotta, liberalizzasse la facoltà di disporre della propria vita anche in situazioni di disagio momentaneo (sociale, economico, affettivo, professionale etc.).
Come fatto notare da alcuni commentatori, la volontà di chi chiede di morire assume pertanto un nuovo valore [14]: assurge a presupposto scriminante di tali comportamenti, salve le residuali eccezioni relative alla condizione delle persone offese di cui al comma terzo, e in questo senso, l’art. 579 c.p., da “norma-baluardo dell’indisponibilità del diritto alla vita, sembra diventare norma-riconoscimento della sua disponibilità [15]”.
La codificazione del bene vita a diritto disponibile che ammetterebbe il suo titolare ad atti di disposizione del proprio corpo, significherebbe un’indebita rimozione di una legge “diretta a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona (…) – cioè il diritto alla vita – che è «il primo dei diritti inviolabili dell’uomo e presupposto per l’esercizio di tutti gli altri [16]”.
Trattasi, secondo la qualificazione della Corte, di una legge da considerarsi «costituzionalmente necessaria» e che, come detto poc’anzi, deve sfuggire ai contorni di ammissibilità di una proposta referendaria perché non passibile di essere puramente e semplicemente abrogata senza che vi fosse “la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale” che si impegna a tutelare.
Verrebbe a configurarsi, spiega in altre battute la Consulta, un incongruo contemperamento, meglio sbilanciamento, del diritto all’autodeterminazione del consenziente che, “in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale”, prevarrebbe in modo incondizionato su un diritto inviolabile della persona ex. art.2 Cost., facendo sottacere il “cardinale rilievo del bene vita”.
Inoltre, la Corte non ha mancato di addurre alcune motivazioni di carattere pratico, affermando che la liberalizzazione latusensu dell’omicidio del consenziente non assicurerebbe sufficienti garanzie sull’identità del soggetto attivo, qui si aggiunga a titolo personale sull’opportunità di un avveduto accertamento sulle relazioni interpersonali di egli con il consenziente (es. rapporti di debito, inimicizia pregressa etc.), nonché sull’eventualità che il consenso sia stato espresso per errore oppure estorto con violenza o inganno [17].
5. Conclusioni
Friedrich Nietzsche diceva che: “bisogna morire con fierezza, se non è più possibile vivere con fierezza. La morte scelta di propria volontà, la morte attuata al momento giusto, in chiarezza e serenità, in mezzo a figli e testimoni: cosicché sia ancora possibile un reale congedo, quando colui che si accommiata è ancora presente, come pare una reale valutazione di quel che si è raggiunto e voluto, una somma della vita” [18].
Orbene, sulla base di quanto esaminato, si ritiene che riconoscere nel diritto esclusivamente l’aspetto prettamente normativo a discapito di quello morale, è fortemente riduttivo e controproducente, sicché forte sarebbe il rischio di abusi e di soprusi. Si deve infatti affermare che, quantomeno in materia di bioetica, il diritto penale potrebbe, e anzi dovrebbe, tutelare anche i sentimenti e quindi essere connesso alla morale, senza tuttavia trascendere in concezioni soggettivizzanti e sprovviste di contrasto empirico, ma recuperando, al contrario, nell’ambito della prassi, la concretezza dei valori morali.
Sarebbe quindi possibile umanizzare il diritto penale, senza al contempo violare la sua necessaria laicità, non affermando una morale specifica e trascendentale, bensì intendendo la morale quale procedura conoscitiva ed epistemologica cui il giurista, ovvero lo studioso di diritto penale, debba attingere nel caso concreto per risolvere questioni attinenti alla bioetica.
Nel nostro Pese, la richiesta di legalizzare l’eutanasia è un grido di battaglia di essere “Liberi fino alla fine”, che rappresenta senza alcun dubbio un cambiamento epocale di paradigma, che consiste nel progressivo passaggio dal tradizionale modello dell’indisponibilità della vita, secondo cui la vita non ci appartiene e quindi l’individuo non può lecitamente rinunciare ad essa, (tesi supportata soprattutto dalla Chiesa Cattolica, sempre molto presente nelle scelte del legislatore, la quale sostiene che l’eutanasia non può essere altro che un comportamento da riprovare e condannare, contrario al bene più grande che è stato donato all’uomo da Dio: la vita); al nuovo modello della disponibilità della vita, secondo cui questa ci appartiene e quindi ognuno di noi, in determinate circostanze, può lecitamente rinunciare ad essa.
Dunque è vero che diritto e morale sono ambiti ontologicamente differenti, ma ciò non significa che non vi sia alcuna interconnessione tra essi, anzi, un diritto totalmente a-morale è rischioso per la collettività ed il diritto positivo dovrebbe sempre attingere, ove possibile, dal diritto naturale: solo così legalità e giustizia diventerebbero una cosa sola. [19].
Bibliografia:
[1] H. Küng e W. Jens, Della dignità del morire, trad. it. A. Corsi e V. Rossi, Bur, 2017, p. 73.
[2] M. Sella, I danni non patrimoniali, Giuffrè Editore, 2010, p. 24.
[3] J. Y. Goffi, Pensare l’eutanasia, Gli struzzi Einaudi, Cles (Trento), 2006.
[4] F. Bacon, Della dignità e del progresso della scienza, in Opere filosofiche, in F. de Mas (a cura di), Laterza, Bari, 1965, vol. II, p. 214
[5] M. L. Verduci, scelte di fine vita e diritto penale Aracne editrice s.r.l., 2014 p.94 .
[6]P. Borsellino, Bioetica tra morali e diritto, Milano, 2018.
[7] S. Canestrari, Principi di Biodirittopenale, Bologna, Il mulino, 2016.
[8] P. Zatti, La dignità dell’uomo e l’esperienza dell’indigeno, in Riv. Nuova giur. civ., 2012, p.6
[9] L. A. Seneca, Epistulaemorales ad Lucilium, ep. 70, p. 4.
[10] T. Moro, Utopia, Editori Laterza, 2010, p. 97–98 […] “i malati, li curano con grande affetto e non lasciano proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e il vitto; anzi alleviano gl’incurabili con l’assisterli, con la conversazione e porgendo loro infine ogni sollievo possibile. Se poi il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri: sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sarebbe un atto religioso e santo, poiché in tal faccenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia convincere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel curarlo. Morire a questo modo, quando lo hanno convinto della cosa, è onorevole; altrimenti chi si dà morte per motivi non giusti agli occhi dei sacerdoti e del senato, non lo ritengono degno di esser seppellito o cremato, ma viene ignominiosamente gettato senza tomba in qualche pantano” […]
[11] P. Bernardoni, Tra reato di aiuto al suicidio e diritto ad una morte dignitosa: la Procura di Milano richiede l’archiviazione per Marco Cappato, in Riv. Diritto Penale Contemporaneo, 2017.
[12] Tribunale di Milano, sez. GIP, ord. 10 luglio 2017.
[13]Corte d’Assise di Milano, sez. I, ord. 14.2.2018, p. 18.
[14] Corte cost., sentenza n. 1146/1988.
[15] F. Paruzzo, Referendum abrogativo sull’eutanasia legale. Tra (in)ammissibilità del quesito e opportunità dello strumento referendario, in Costituzionalismo.it, 2/2021, p.100.
[16] T. Padovani, Note circa il referendum sull’art.579 c.p. e la portata sistematica della sua approvazione, in Giurisprudenza Penale, 7-8/2021, p. 2.
[17] Corte cost., sentenza n.223/1996.
[18] “(…) Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere). Né può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione”.
[19]F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, 1888.
[20] M.L. Verduci, Scelte di fine vita e diritto penale, Aracne Editrice S.r.l., Roma 2014
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Avv. Sara Spanò
Laurea Magistrale in Giurisprudenza conseguita presso l'Università "La Sapienza" di Roma .
Avvocato del Foro di Catanzaro
Master di II livello in HR & Management d'Azienda, conseguita presso l'UMG di Catanzaro.
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