Fonti sovranazionali e regime di stabilità degli atti amministrativi e giurisdizionali nazionali
Le fonti sovranazionali rivestono attualmente un ruolo centrale nel nostro ordinamento. Tra di esse vengono in particolare rilievo le fonti euro-unitarie, alcune delle quali sono caratterizzate dalla peculiarità di essere direttamente applicabili negli ordinamenti nazionali degli Stati membri. A seguito di un lungo percorso compiuto dalla nostra giurisprudenza costituzionale, si è giunti a riconoscere il principio della primazia del diritto euro-unitario, il cui fondamento va ravvisato nell’art. 11 Cost.: esso ha pertanto un rango che può definirsi super primario, con ciò intendendosi la sua prevalenza sulla Costituzione, con il solo limite del rispetto dei c.d. controlimiti, costituiti dai principi fondamentali, ossia quelli che individuano l’identità nazionale di uno Stato membro, e dai diritti inalienabili della persona. Questi ultimi, in particolare, si ritengono ormai pacificamente tutelati dal diritto dell’Unione europea a far data dalla intervenuta comunitarizzazione della Carta dei diritti fondamentali, o Carta di Nizza, operata dal Trattato di Lisbona, con il quale è stato ad essa riconosciuto lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6, paragrafo 1 TUE). E’ stato tuttavia chiarito, nel paragrafo 2 del medesimo articolo, che in conseguenza di ciò non vi è stato alcun ampliamento delle competenze dell’Unione, in relazione alle quali continua pertanto a valere il principio di attribuzione (art. 5 TUE).
I controlimiti sono attualmente oggetto di un vivace dibattito: l’individuazione dei principi fondamentali che delineano l’identità costituzionale degli Stati membri è stata infatti tradizionalmente affidata alle Corti costituzionali degli stessi, che vi hanno provveduto ciascuna in via autonoma. Da ciò è tuttavia inevitabilmente scaturita un’applicazione frammentaria del diritto euro-unitario, ben potendo una stessa norma comunitaria trovare ingresso in uno Stato ed essere invece ritenuta in contrasto con i principi fondamentali di un altro, rimanendone al di fuori.
Proprio al fine di porre rimedio a tale inconveniente, vi è chi sostiene che il Trattato di Lisbona abbia effettuato una comunitarizzazione di tali controlimiti, aprendo la strada alla configurazione degli stessi quali limiti interni all’ordinamento comunitario. In conseguenza di ciò, dunque, laddove una norma euro-unitaria dovesse porsi in contrasto con taluno dei principi fondamentali che esprimono l’identità nazionale di uno Stato membro, dovrebbe essere sollevata questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia affinché essa, verificato il contrasto, sancisca l’invalidità comunitaria della norma in questione: quest’ultima, quindi, sarebbe invalida già sul piano dell’ordinamento comunitario.
Si evidenzia a questo punto che, fatto salvo il rispetto dei menzionati controlimiti, il primato del diritto euro-unitario comporta l’obbligo di disapplicare le norme interne contrastanti con le norme comunitarie direttamente applicabili: a tale conclusione si è giunti solo con il passaggio dall’approccio dualista, che considerava l’ordinamento nazionale e quello comunitario come due ordinamenti distinti, sebbene coordinati, all’approccio monista, che ravvisa invece l’esistenza di un unico ordinamento, di cui le fonti euro-unitarie sono parte integrante.
Quanto invece alle fonti sovranazionali non comunitarie, si ritiene che il diritto internazionale pattizio trovi ora fondamento nel novellato art. 117, comma 1 Cost., ove si prevede che la potestà legislativa venga esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto degli obblighi internazionali. Nell’ambito di tali fonti sovranazionali particolare rilievo viene ad avere la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), la quale dà vita ad un vero e proprio sistema istituzionale, dotato di una specifica Corte, ossia la Corte Europea dei diritti dell’uomo. Proprio a quest’ultima le note sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349/2007 (cc.dd. ‘sentenze gemelle’) hanno riconosciuto il monopolio interpretativo delle norme convenzionali, le quali pertanto incidono nell’ordinamento interno, e da esso vanno prese in considerazione, in base all’interpretazione specifica che ne fornisce la Corte europea. Tale affermazione risulta tuttavia ad oggi ridimensionata a seguito della sentenza interpretativa di rigetto n. 49/2015, con cui il giudice delle leggi ha ritenuto vincolanti per la giurisprudenza nazionale i soli orientamenti consolidati della Corte di Strasburgo, riservandosi quindi, a fronte di sentenze isolate, la possibilità di fornire una differente interpretazione delle norme Cedu rispetto a quella prospettata in sede convenzionale.
Le sentenze gemelle sopra citate hanno altresì pacificamente riconosciuto alle norme Cedu il rango di norme interposte: esse si collocano, nella gerarchia delle fonti, al di sopra delle leggi ordinarie, ma al di sotto della Costituzione. Ne consegue, pertanto, che in relazione ad esse i controlimiti operano in maniera più pressante rispetto a quanto avviene nei confronti del diritto comunitario, essendo queste tenute al rispetto di tutte le norme costituzionali e non soltanto di quelle che esprimono principi fondamentali e diritti inalienabili della persona.
Deve allo stesso tempo escludersi che possa avere luogo la disapplicazione della norma interna contrastante con la norma convenzionale: il giudice nazionale, ravvisata l’antinomia, dovrà piuttosto tentare una interpretazione convenzionalmente orientata della norma interna e, laddove ciò non si riveli possibile, si vedrà costretto a sollevare questione di legittimità costituzionale della norma nazionale per contrasto con l’art. 117, comma 1 Cost., come integrato dal parametro interposto.
In considerazione del ruolo di primaria importanza attualmente ricoperto nell’ordinamento interno dalle fonti sovranazionali, ci si interroga in particolare sull’impatto che esse possano avere sul regime di stabilità degli atti amministrativi e giurisdizionali nazionali e, conseguentemente, sul loro regime di impugnazione.
Occorre preliminarmente osservare che ogni rapporto giuridico necessita di stabilità, per il conseguimento della quale l’ordinamento nazionale prevede degli appositi istituti: il riferimento è, in particolare, al giudicato, relativamente agli atti giurisdizionali, e all’inoppugnabilità, in relazione agli atti amministrativi.
E’ proprio in riferimento a questi ultimi che la questione si è originariamente delineata: gli atti amministrativi, infatti, ove ritenuti illegittimi, devono essere impugnati entro un termine di decadenza, ordinariamente di sessanta giorni, decorso il quale essi non possono più essere rimossi. E’ altresì escluso che il giudice amministrativo abbia il potere di disapplicare il provvedimento, ritenendolo illegittimo incidenter tantum.
Sennonché ci si è chiesti se una tale conclusione possa ritenersi valida anche nel caso in cui l’atto amministrativo consolidatosi sia anti-comunitario, ossia si ponga in contrasto con il diritto euro-unitario. E’ parso in effetti illogico che il diritto comunitario, in ragione del primato che, come visto, lo contraddistingue, sia idoneo a comportare la disapplicazione non solo delle disposizioni di legge con esso contrastanti, ma addirittura delle norme costituzionali (pur nel rispetto dei citati controlimiti), e non risulti invece in grado di rimuovere un atto amministrativo, nonostante esso si collochi ad un livello inferiore nella gerarchia delle fonti.
Vi è, a riguardo, chi ha sostenuto che, in caso di consolidamento di atto amministrativo anti-comunitario, quest’ultimo dovrebbe essere considerato non annullabile, bensì nullo: tale tesi, tuttavia, non pare sostenibile, dal momento che la violazione del diritto comunitario non è annoverata dal legislatore tra le cause tassative di nullità del provvedimento amministrativo di cui all’art. 21-septies, L. 241/1990: il regime generale, nel diritto amministrativo, è infatti quello dell’annullabilità.
Altri, invece, hanno sostenuto che in siffatte ipotesi sarebbe eccezionalmente possibile per il giudice amministrativo la disapplicazione del provvedimento anticomunitario.
La questione si è posta, in particolar modo, in materia di appalti, la cui disciplina nazionale è di derivazione comunitaria. Si sostiene, tradizionalmente, che il bando di gara non sia immediatamente impugnabile in quanto atto amministrativo generale e quindi inidoneo a determinare una lesione attuale, per il configurarsi della quale sarà necessario attendere il corrispondente atto applicativo: solo una volta adottato quest’ultimo, il soggetto potrà dirsi effettivamente leso e potrà quindi ravvisarsi un suo interesse all’impugnazione. Si ritiene peraltro fondamentale che, a questo punto, l’interessato proceda alla contestuale impugnazione sia dell’atto applicativo che del bando, onde evitare il consolidarsi di quest’ultimo: laddove, infatti, dovessero inutilmente decorrere i termini per la sua impugnazione, esso si stabilizzerebbe, con la conseguenza che il giudice amministrativo non potrebbe più conoscere degli eventuali vizi che lo affliggono. L’impugnazione del solo atto applicativo, del resto, ha senso solo laddove l’interessato si dolga di vizi che sono propri dell’atto applicativo in questione, e non anche ogniqualvolta l’illegittimità di quest’ultimo sia derivata dall’illegittimità del bando a monte.
A fronte di tale regola generale, tuttavia, l’Adunanza Plenaria, a partire da una pronuncia del 2003, ha individuato due eccezioni, relative ai casi in cui il bando contenga dei particolari tipi di clausole, tali per cui lo stesso si configuri come immediatamente lesivo. La prima ipotesi, invero di rara ricorrenza nella pratica, riguarda quelle clausole che non consentono di comprendere con chiarezza quale sia l’oggetto della gara e quindi quali siano le richieste dell’Amministrazione, non permettendo dunque a coloro che aspirano alla partecipazione di formulare offerte adeguate. La seconda ipotesi invece, decisamente di maggiore rilievo e di più frequente verificazione, concerne la presenza nel bando di clausole escludenti, ossia individuanti requisiti di partecipazione tali da avere l’effetto di escludere immediatamente taluni soggetti dalla gara. Ebbene, in tali ipotesi si configura un vero e proprio obbligo di impugnazione del bando, onde evitare un suo consolidamento irreversibile.
Alla luce di quanto esposto, ci si è dunque domandati cosa accadrebbe laddove un bando, non tempestivamente impugnato, e quindi stabilizzatosi, prevedesse dei requisiti di partecipazione violativi del diritto comunitario. Una parte della giurisprudenza amministrativa, e in particolar modo il TAR Lombardia, ha sostenuto che in tali ipotesi dovrebbe essere eccezionalmente consentito al giudice amministrativo di disapplicare il relativo bando, al fine di garantire l’operatività del primato del diritto comunitario anche sugli atti amministrativi. Sul punto il TAR Lombardia, la cui tesi non è stata condivisa dal Consiglio di Stato, ha sollevato questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia, la quale si è pronunciata a riguardo nel 2003 con la sentenza Santex. In tale circostanza la Corte ha escluso che debba essere introdotto un rimedio eccezionale in caso di contrasto tra atto amministrativo ormai inoppugnabile e diritto comunitario, laddove analogo rimedio non sia previsto in caso di violazione del diritto nazionale. A sostegno di tale conclusione è stato sottolineato come l’Unione Europea riconosca la sovranità degli Stati sul versante processuale, nel senso, cioè, di ritenere che, a fronte di una pretesa sostanziale riconosciuta dal diritto comunitario, gli stessi siano liberi di dettare le regole processuali che più ritengono adeguate al fine di garantire il soddisfacimento della pretesa in questione, in assenza di regole processuali specificamente individuate dal diritto eurounitario. Gli unici limiti che gli Stati incontrano nel fare ciò sono costituiti dall’equivalenza e dall’effettività: quanto alla prima, si intende la necessità di non introdurre un trattamento discriminatorio in relazione alla tutela di pretese aventi fondamento nel diritto comunitario, rispetto a quanto previsto per la tutela delle pretese che originano dal diritto nazionale, mentre per effettività si intende la necessità di introdurre, a tal fine, un termine congruo, ossia idoneo a garantire una tutela che si riveli, appunto, effettiva.
Una volta giunta a questa conclusione, tuttavia, la Corte di Giustizia ha altresì evidenziato la possibilità di derogare a tale regola generale ogniqualvolta ciò risulti giustificato dalle peculiarità del caso concreto sottoposto al suo esame: proprio in relazione alla vicenda Santex, infatti, la Corte ha ravvisato che, in ragione del comportamento scorretto tenuto dall’Amministrazione, si fosse verificata una ineffettività della tutela, tale da rendere necessaria la rimessione in termini degli interessati, al fine di consentire loro l’impugnazione del bando in questione.
Problematiche analoghe sono sorte, inoltre, in relazione all’istituto dell’autotutela amministrativa. A riguardo si evidenzia in particolare che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di procedere al riesame dell’atto amministrativo, a fronte della richiesta avanzata in tal senso dall’interessato che non abbia provveduto ad impugnarlo tempestivamente. Si tratta, invero, di una di quelle ipotesi nelle quali l’Amministrazione non è neppure tenuta a rispondere alla richiesta del privato, potendo restare anche in silenzio, senza che l’interessato possa far valere nei suoi confronti il silenzio inadempimento. Ciò significa, pertanto, che, al di fuori delle ipotesi tassative di autotutela doverosa, specificamente previste, la regola generale è nel senso della facoltatività della stessa e tale scelta, a ben guardare, è finalizzata ad evitare che il regime della inoppugnabilità degli atti amministrativi possa essere aggirato. Si osserva infatti che, ove l’Amministrazione fosse costretta a procedere al riesame, l’esito di quest’ultimo sarebbe in ogni caso favorevole al richiedente, ossia anche laddove non si giungesse all’annullamento d’ufficio del provvedimento, e questo in ragione del c.d. regime di conferma: si evidenzia infatti che, anche nel caso in cui l’Amministrazione decidesse di confermare il provvedimento oggetto di riesame, ciò condurrebbe all’adozione di un provvedimento di conferma che è a tutti gli effetti un nuovo provvedimento, avente l’effetto di assorbire il precedente e rispetto al quale si riaprono quindi i termini per l’impugnazione. Il riesame avrebbe dunque, detto in altri termini, quantomeno l’effetto di rimettere in termini l’interessato ai fini dell’impugnazione del provvedimento che egli non ha tempestivamente proposto al momento opportuno. Questa è quindi la ragione per la quale si afferma che la facoltatività dell’autotutela è un corollario dell’inoppugnabilità degli atti amministrativi.
A riguardo ci si è tuttavia chiesti se sia possibile configurare un’obbligatorietà del riesame quando la richiesta avanzata in tal senso concerna, ancora una volta, un atto amministrativo consolidatosi in violazione del diritto comunitario. Si osserva, tuttavia, che anche in questo caso la Corte di Giustizia è giunta ad una soluzione in linea di massima analoga a quella sopra analizzata: essa ha infatti escluso, in via generale, che sia possibile derogare alla facoltatività dell’autotutela al fine di porre rimedio alla violazione del diritto comunitario.
Sono tuttavia individuabili dei precedenti giurisprudenziali comunitari in occasione dei quali la Corte di Giustizia ha eccezionalmente ravvisato l’obbligo, per l’Amministrazione, di procedere al riesame dell’atto amministrativo anti-comunitario, e ciò valorizzando le peculiarità del caso concreto sottoposto alla sua attenzione: il riferimento è, in particolare, alle sentenze Khune (2004) e Kempter (2008). In tali occasioni la Corte di Giustizia ha individuato le condizioni in presenza delle quali si configura l’obbligo per l’Amministrazione di procedere al riesame, di seguito riportate: è innanzitutto fondamentale che l’interessato abbia esperito tutti i gradi di giudizio, al termine dei quali si sia formato un giudicato a lui sfavorevole; occorre altresì che a seguito della formazione del suddetto giudicato sia intervenuta una pronuncia della Corte di Giustizia, attinente ad un diverso caso concreto, nella quale essa mostri di aderire all’interpretazione fornita e sostenuta dall’interessato in questione; è inoltre indispensabile che quest’ultimo, a seguito di ciò, non resti inerte ed avanzi piuttosto richiesta di riesame; si richiede, infine, che l’Amministrazione nazionale abbia a riguardo potere di riesame e lo conservi ancora nel momento in cui la richiesta viene presentata.
Preme ora evidenziare quella che è invece l’incidenza delle fonti sovranazionali sugli atti giurisdizionali nazionali nonché il modo in cui esse si rapportano con il giudicato.
Occorre innanzitutto tenere conto delle peculiarità che caratterizzano il giudicato amministrativo, il quale, di regola, copre le sentenze rese dal Consiglio di Stato, secondo e ultimo grado del giudizio amministrativo. Si osserva, tuttavia, che è talvolta contemplata un’ulteriore istanza giurisdizionale: l’art. 110 c.p.a., infatti, prevede la possibilità di fare ricorso in Cassazione rispetto alle sentenze del Consiglio di Stato, anche se solo per “motivi inerenti alla giurisdizione”. Tale locuzione, nel corso degli anni, è stata interpretata sempre più estensivamente dalle stesse S.U., non solo ricomprendendovi sia le ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale che quelle di diniego di giurisdizione ma, soprattutto, riconducendo a queste ultime anche i casi di erronea chiusura in rito del processo, senza che ne fosse esaminato il merito. Si trattava, per l’esattezza, di un error in procedendo, considerato come un motivo di giurisdizione.
Questa teoria, originariamente patrocinata dalla Cassazione al fine di sconfessare la tesi della pregiudizialità amministrativa e consentire la proposizione in via autonoma dell’azione di risarcimento del danno da provvedimento amministrativo, è stata in tempi più recenti richiamata nel tentativo di individuare un rimedio volto a prevenire la formazione di un giudicato contrastante con il diritto comunitario. La Corte di Cassazione, in particolare, ha sostenuto tale tesi in relazione a sentenze amministrative pronunciate in materia di appalti, le quali hanno dichiarato inammissibile un ricorso principale, accogliendo contestualmente il ricorso incidentale escludente. La nostra giurisprudenza amministrativa, infatti, riteneva tradizionalmente che dovesse essere esaminato esclusivamente il ricorso incidentale proposto dal primo classificato (finalizzato a contestare l’ammissione alla gara del ricorrente in via principale) e, ove questo fosse risultato fondato, non si sarebbe dovuto procedere affatto all’esame del ricorso principale presentato dal secondo classificato: quest’ultimo, infatti, non risultava legittimato alla presentazione del ricorso, dal momento che alla gara non avrebbe potuto partecipare.
Sennonché la Corte di Giustizia, con la sentenza Puligienica del 2016, ha ravvisato in questo modo di procedere una violazione del principio di parità delle parti, tutelato a livello comunitario, sostenendo che i ricorsi dovessero comunque essere esaminati entrambi.
A seguito di tale pronuncia, gli interessati hanno proposto ricorso alla Corte di Cassazione, la quale ha ravvisato che le sentenze amministrative in questione fossero affette da un vizio inerente a motivi di giurisdizione: venivano infatti in rilievo ricorsi non esaminati nel merito e ciò, per di più, in violazione del diritto comunitario. Ciò equivale a dire, pertanto, che in tali casi la violazione del diritto comunitario è considerata indice della particolare gravità del vizio che affligge la sentenza, il che consente di classificarlo non quale error in procedendo, bensì come diniego di giurisdizione.
La Suprema Corte ha sostenuto tale impostazione anche in altre occasioni, talvolta estendendola persino ad ipotesi di violazione della Cedu. Il riferimento è, in particolare, alle vicende Staibano e Mottola, concernenti la vicenda dei cc.dd. ‘medici gettonati’, i quali avevano prestato servizio presso un’università e rispetto ai quali era dibattuto se il rapporto di lavoro dovesse essere qualificato come autonomo o subordinato. In particolare, nella vicenda in esame, venne in rilievo una norma transitoria contenuta nel T.U. del pubblico impiego privatizzato, la quale consentiva a coloro i quali avessero maturato un diritto patrimoniale fondato su un rapporto di lavoro che all’epoca non era ancora privatizzato, di farlo valere dinanzi dal giudice amministrativo entro il termine di decadenza di un anno e mezzo circa, precisamente entro il 15 settembre 2000. E’ evidente che la suddetta previsione non avrebbe trovato applicazione nei confronti dei ricorrenti, qualora essi fossero stati qualificati come lavoratori autonomi, come in effetti era inizialmente accaduto. In seguito, tuttavia, essi vennero considerati quali lavoratori subordinati e quindi assoggettati all’applicazione della norma transitoria, il che, però, accadde in data successiva al termine di decadenza sopra menzionato. In ragione di quanto esposto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ravvisò la violazione del diritto al giusto processo (art. 6 Cedu) da parte della sentenza dell’Adunanza Plenaria che aveva dichiarato tardive le domande presentate dai medici, volte al riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro pubblico di fatto, al fine della ricostruzione della posizione previdenziale presso l’INPS.
A seguito di ciò, coloro che si trovavano in una situazione analoga, ma che non avevano fatto ricorso alla Corte europea, proposero ricorso in Cassazione, facendo valere il motivo di giurisdizione, ossia il giudicato formatosi in violazione della Cedu: a riguardo si segnala che, almeno in un caso, la Suprema Corte è tornata ad ammettere la configurazione del motivo di giurisdizione, pur formalmente insussistente, al fine di evitare la formazione di un giudicato in questo caso contrastante con la Cedu.
Occorre tuttavia precisare che, al di là delle soluzioni apprestate in relazione a casi concreti e specifici, quali quelli che abbiamo appena esaminato, è ancora aperta la questione relativa alla possibilità di introdurre in via generale, al fine di prevenire la formazione di un giudicato in contrasto con il diritto sovranazionale, un rimedio extra ordinem, quale di fatto si rivela essere il ricorso per motivi di giurisdizione che, nei casi in esame, è in concreto un ricorso per violazione di legge, non previsto dall’ordinamento. Ciò che desta perplessità, a riguardo, è soprattutto la circostanza relativa al fatto che, in tal modo, si verrebbe ad avere un rimedio apposito per fronteggiare la violazione del diritto sovranazionale, mentre un analogo rimedio non si ha a fronte della violazione del diritto nazionale: questo, a ben guardare, si pone in contrasto con le regole dell’equivalenza e dell’effettività.
Si segnala, altresì, che la vicenda descritta ha sollevato anche una questione ulteriore, relativa a coloro che avevano invece proposto il suddetto ricorso alla Corte europea, vedendo accolte le loro doglianze: questi ultimi, in forza di ciò, hanno chiesto la revocazione della sentenza dell’Adunanza Plenaria. Si osserva, tuttavia, che la revocazione è prevista dal nostro ordinamento, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., esclusivamente per errore di fatto, mentre nel caso in esame viene piuttosto in rilievo un errore di diritto.
La Corte Costituzionale, interpellata quanto alla legittimità costituzionale della norma in esame nella parte in cui non prevede un’ipotesi revocazione al fine di consentire l’adattamento alle sentenze della Corte Europea, ha tuttavia ribadito l’insussistenza di un rimedio siffatto nel nostro ordinamento. Il giudice delle leggi ha altresì sostenuto che una scelta di questo tipo spetterebbe al solo legislatore e che, in ogni caso, la decisione di quest’ultimo di non provvedere (ancora) in tal senso deve ritenersi più che logica, in considerazione del fatto che la Cedu, a ben guardare, non obbliga gli Stati a introdurre un rimedio volto alla rimozione del giudicato, ben potendo la sentenza di condanna della Corte europea essere attuata per equivalente piuttosto che in forma specifica.
In conclusione, dunque, sembra si possa affermare che le fonti sovranazionali non si rivelino idonee ad incidere sul regime di stabilità degli atti amministrativi e giurisdizionali nazionali, se non in minima parte: viene infatti escluso che la necessità di evitare lo stabilizzarsi di un atto amministrativo o giurisdizionale nazionale, contrastante con il diritto sovranazionale, possa giustificare, al di fuori di casi specifici ed eccezionali, l’introduzione nell’ordinamento, in via generale, di rimedi extra ordinem.
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Serena Fiorentini
Laureata presso La Sapienza, Università di Roma, voto 110/110 e lode, con tesi in Procedura penale, dal titolo "La prova decisiva" (Relatore Prof. Alfredo Gaito).
Successivamente ha svolto con esito positivo il tirocinio presso gli uffici giudiziari (marzo 2016- settembre 2017) presso il Tribunale di Civitavecchia, sezione penale.
Ha frequentato i corsi di alta formazione giuridica "Lexfor" (2016-2017) e "Jusforyou" (2017-2018).
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