Forma “funzionale” e contratti di investimento

Forma “funzionale” e contratti di investimento

Con sentenza n. 898 del 16.1.2018, le Sez. Unite hanno risolto il contrasto, insorto in giurisprudenza, in ordine all’esatta portata applicativa dell’art. 23 del D.lgs. n. 53 del 1998 (T.u.f.), nella parte in cui dispone l’obbligo della forma scritta ad substantiam per i contratti di investimento. In particolare, la 1^ Sez. civile, con ordinanza n. 10447 dell’aprile 2017, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione sul “se il requisito della forma scritta del contratto di investimento esiga, oltre alla sottoscrizione dell’investitore, anche la sottoscrizione ad substantiam dell’intermediario”.[1]

Sul punto, è dato riscontrare due differenti e contrapposti orientamenti, così sintetizzabili.

Secondo una prima tesi, la sottoscrizione dell’intermediario è da considerarsi richiesta ad substantiam, al pari della sottoscrizione del cliente, sull’assunto in base al quale l’art. 23 del t.u.f. prescriverebbe un obbligo di forma scritta bilaterale. Conseguentemente, l’indefettibile requisito della sottoscrizione della banca non potrebbe mai ricevere idonea soddisfazione a seguito della produzione in giudizio – da parte della banca stessa – del documento carente di firma o della documentazione per iscritto di comportamenti concludenti. Del resto, anche l’eventuale produzione in giudizio del documento sprovvisto di idonea sottoscrizione della banca, non potrebbe operare come convalida – stante il relativo divieto ex art. 1423 c.c. – e comporterebbe il perfezionamento del contratto soltanto ex nunc, con invalidità delle operazioni precedentemente eseguite.

L’opposta tesi, sostenuta dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritarie, viceversa, considera soddisfatto il requisito della forma scritta ad substantiam tutte le volte in cui sussista la sola sottoscrizione del contratto-quadro da parte del cliente, sulla scorta della nuova teorica della forma c.d. funzionale.

A tal proposito, appare opportuno ripercorrere brevemente l’evoluzione del requisito della forma.

Invero, se in epoca precedente all’entrata in vigore del codice del 1942 vi era la tendenza ad intendere la forma in termini sacrali, successivamente si è sancito il principio generale della libertà delle forme, salve le ipotesi in cui sia la legge a prevedere l’elemento formale come requisito di validità del contratto e, quindi, come requisito essenziale dello stesso ai sensi degli artt. 1325 e 1350 c.c.

Va precisato che, quando si discorre di forma come elemento richiesto ai fini della validità del regolamento contrattuale, si ha riguardo esclusivamente alla forma specifica poiché, viceversa, la forma generica – intesa come requisito di esistenza del contratto – deve necessariamente sussistere, pena l’impossibilità di ritenere sussistente il contratto stesso. La forma specifica, poi, si differenzia in forma ad substantiam – quella che, se assente, determina la nullità del contratto – ed in forma ad probationem – che, non incidendo sulla validità del contratto, rileva soltanto ai fini probatori -.

Molteplici le funzioni ascrivibili alla forma: in primis, quella della certezza giuridica, ma anche quella di responsabilizzazione del consenso o, ancora, quella di controllo che, per esempio, è notevolmente sentita con riferimento ai contratti della P.A., da concludersi obbligatoriamente in forma scritta.

A seguito della sempre maggiore compenetrazione del diritto unionale con quello nazionale, la forma ha, altresì, guadagnato sempre maggiori spazi applicativi, al punto che, ad oggi, non manca chi dubiti della valenza generale del principio di libertà delle forme introdotto dal codice civile.

A ben vedere, sono sempre più frequenti le disposizioni legislative che prescrivono, in virtù di plurime rationes, l’obbligo della forma scritta a pena di nullità. Notevole rilevanza, ad esempio, ricopre la forma nella disciplina apprestata a tutela del consumatore: in tale ambito, la forma subisce una vera e propria mutazione genetica trasformandosi da forma involucro a forma contenuto.[2] Forma contenuto perché non si riferisce più soltanto alle singole clausole negoziali, ma permea il contratto fino a ricomprendervi anche gli obblighi informativi precontrattuali. Per questo, c’è chi ha aggiunto, alle classiche forme ad substantiam e ad probationem, una forma c.d. ad informationem che, a differenza delle prime, non è posta a tutela di entrambi i contraenti – considerati come soggetti in posizione paritaria -, ma è volta alla specifica tutela di uno solo di essi, quello debole, che deve essere edotto puntualmente e compiutamente dell’intera vicenda negoziale. L’interesse particolare del contraente debole, poi, si riflette – sebbene in via mediata – su quelli generali della sicurezza dei traffici di capitali e del buon funzionamento dei mercati finanziari.[3]

Quello ora descritto può essere sintetizzato come “neoformalismo”, fenomeno giuridico di origine comunitaria che impone una determinata forma al fine di rendere sempre più efficiente la tutela del contraente debole, garantendo la massima trasparenza[4] degli obblighi e dei diritti scaturenti dal contratto ed evitando abusi di posizione.

È evidente, allora, sulla scorta di quanto fino ad ora esposto, che esistono una pluralità di forme ancorate, a loro volta, ad una pluralità di funzioni. Che sia così, è stato sottolineato anche dalla pronuncia della Corte di Cassazione n. 18214/2015, in tema di locazioni ad uso abitativo. In quella sede, i giudici di legittimità hanno osservato che per stabilire quando la forma prescritta dalla legge sia richiesta ai fini della validità o ai fini probatori, occorre procedere ad una analisi da effettuare in concreto in ordine alla finalità sottesa alla norma che ha previsto l’obbligo di una specifica forma – analisi in concreto che ricorda quella effettuata in riferimento alla causa del contratto –.

Così si afferma la teorica della forma c.d. funzionale.

Avendo riguardo alla funzione della forma e sganciandola, quindi, dalla struttura negoziale, la giurisprudenza e la dottrina più recenti hanno sostenuto come, la sottoscrizione della banca nei contratti di investimento – o in generale nei contratti del mercato finanziario – debba essere considerata come una forma c.d. di protezione, alla stregua della nullità comminata dal medesimo art. 23 T.U.F. in caso di inosservanza dell’obbligo della forma scritta e carenza di sottoscrizione del cliente.

Stando a quanto affermato anche nell’ordinanza di rimessione del 2017 sopra richiamata, se la nullità prevista dall’articolo 23 T.U.F. è pacificamente classificata come nullità di protezione, posto che la sua primaria funzione è quella di tutelare la più ampia informazione dell’investitore, allora “tutte le prescrizioni da essa presidiate vanno intese in tale logica”. Si tratta di ipotesi di nullità – sul versante patologico – e di forma – sul versante fisiologico – del tutto peculiari rispetto a quelle tradizionali previste dal codice civile in ambito di rapporti simmetrici.

A questa tesi hanno aderito le Sezioni Unite con la sentenza n. 898 del 2018, nella quale è stato affermato il seguente principio di diritto: il requisito della forma scritta del contratto-quadro relativo ai servizi di investimento, disposto dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 23, è rispettato ove sia redatto il contratto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore, non necessitando la sottoscrizione anche dell’intermediario, il cui consenso ben si può desumere alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti“.[5]

L’obiettivo sotteso alla normativa di riferimento, invero, si deve considerare raggiunto tutte le volte in cui il cliente abbia sottoscritto il contratto e l’intermediario – assolvendo allo specifico obbligo legislativo in tal senso – abbia consegnato una copia del riferito contratto al cliente.

D’altronde, se fosse stata accolta la tesi opposta, in ragione della quale la sottoscrizione della banca è richiesta ad substantiam, al pari di quella del cliente, sarebbe stato dato spazio, molto presumibilmente, ad un uso distorto e selettivo della nullità, con conseguente apertura ad un abuso del diritto, questa volta, però, ad opera del contraente debole. Infatti, poiché la nullità può essere fatta valere solo dal cliente, nulla toglie che questi, dopo aver eventualmente dato esecuzione al contratto di investimento – anche per lungo tempo – a fronte di una perdita successiva, avrebbe potuto impugnarlo al fine di farne dichiarare la nullità a causa della carenza della sottoscrizione dell’intermediario. In tal modo, dunque,si offrirebbe tutela a quel contraente che, maliziosamente abusando di una posizione di vantaggio conferita dalla legge ad altri fini, deducesse la nullità del contratto eseguito senza contestazioni da entrambe le parti”. Tanto, darebbe luogo ad una violazione del principio della buona fede, che oramai ha assunto un ruolo dirompente ed una indiscussa portata precettiva all’interno del nostro attuale sistema giuridico.

Ancora, non può tralasciarsi di osservare come la tesi favorevole alla sottoscrizione ad substantiam dell’intermediario, a ben vedere, si sostanziasse in un eccessivo formalismo, in netto contrasto sia con la ratio di efficienza dei mercati finanziari, sottesa alla normativa contenuta nel t.u.f., sia con l’esigenza generale della celerità degli spostamenti di capitali e dei traffici commerciali.

Infine, solo la soluzione sposata può essere rispettosa dell’ulteriore principio fondamentale del nostro ordinamento qual è quello di proporzionalità. Pretendere la sottoscrizione dell’intermediario come requisito di validità del contratto di investimento, e permettere al cliente di scegliere quando, come e con riferimento a quali operazioni azionare la tutela accordatagli dalla legge, appare come una soluzione estremamente “sproporzionata rispetto alla funzione cui la forma è preordinata”.

A tal proposito, la Suprema Corte ribadisce che l’interpretazione del regolamento contrattuale da prediligere deve essere sempre quella volta a contemperare gli interessi contrapposti che di volta in volta vengono in rilievo: nel caso di specie – e più in generale, in caso di previsioni di nullità relative –, “l’interprete deve essere attento a circoscrivere l’ambito della tutela privilegiata nei limiti in cui viene davvero coinvolto l’interesse protetto dalla nullità, determinandosi altrimenti conseguenze distorte o anche opportunistiche”.


[1] Cass. Civ. ord. di rimessione n. 10447/17.

[2] “Coordinate ermeneutiche di diritto civile”, ed. 2017,  di Maurizio Santise.

[3] La stessa ordinanza di rimessione sottolinea come, anche le nullità di protezione, e l’obbligo di forma ad essa collegata, sono volte, in ultima analisi, all’efficienza dei mercati ed al naturale dinamismo degli stessi.

[4] Obiettivi di trasparenza che, nel settore degli investimenti, sono stati raggiunti anche in attuazione – tra le altre – delle direttive n. 2004/39/CE Mifid 1 e n. 2014/65/UE Mifid 2.

[5] Cass. SS.UU. sent. n. 898/18.


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