Forma scritta, tra nullità di protezione ed abuso del diritto
In dottrina ormai da tempo si sostiene la progressiva consumerizzazione del diritto generale dei contratti, processo analogo alla commercializzazione del diritto civile cristallizzata con il codice del 1942. Infatti, la quantità, nonché il peso specifico delle norme che regolano i contratti c.d. asimmetrici, sta diventando notevole, tanto da far ritenere che proprio i negozi B2C, tra imprese e consumatori, e quelli B2B, tra imprese forti e deboli, siano il nuovo paradigma del diritto dei contratti.
In questa nuova prospettiva la forma muta la propria connotazione funzionale e viene ad assumere finalità prevalentemente di protezione. È proprio alla luce di un siffatto contesto che dev’essere letta l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n.10447/2017 della Prima Sezione della Corte di Cassazione, con cui viene richiesto di pronunciarsi sulla seguente questione di diritto, ovvero “se, a norma dell’art. 23 d.lgs. n. 58 del 1998, il requisito della forma scritta del contratto di investimento esiga, accanto a quella dell’investitore, anche la sottoscrizione ad substantiam dell’intermediario”.
La fattispecie controversa trae origine dalla prassi bancaria, in cui la conclusione del contratto-quadro si attua, al fine di rispettare i requisiti della forma e della consegna dello stesso al cliente, con la sottoscrizione di quest’ultimo del contratto, che resta in possesso della banca, seguita dalla consegna al cliente di un altro documento identico al primo, stavolta a firma dell’istituto di credito. In tal modo, allo scambio documentale segue la disponibilità, in capo a ciascuna parte, dell’originale sottoscritto dall’altra.
Lungi dal costituire una questione meramente teorica, il dibattito che si è sviluppato in dottrina e in giurisprudenza porta con sé notevoli conseguenze di carattere pratico. Infatti, il dato normativo e regolamentare in cui orbita la presente fattispecie è chiaro nell’affermare che la forma scritta per i contratti di investimento e, quindi, per il contratto-quadro, è prevista ad substantiam, a pena di nullità.
Infatti, l’art. 23, comma primo, del TUF stabilisce espressamente che i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento sono redatti per iscritto e un esemplare di essi è consegnato al cliente. Al terzo comma, lo stesso articolo aggiunge che “nei casi previsti dai commi 1 e 2 la nullità può essere fatta valere solo dal cliente”. Dal combinato disposto dei due commi è possibile rilevare che la nullità è non solo ad substantiam ma anche relativa, ovvero a vantaggio del solo investitore.
L’art. 37 del Regolamento Consob intermediari prevede, poi, che gli intermediari forniscano ai clienti al dettaglio i propri servizi di investimento, diversi dalla consulenza in materia di investimenti, sulla base di un apposito contratto scritto, di cui una copia è consegnata al cliente.
La questio facti nella fattispecie de qua è costituita dall’eventuale uso abusivo dell’azione di nullità, ovvero la possibilità per il cliente, a fronte di un investimento rivelatosi non conveniente, di avvalersi di tale azione che maschererebbe, in concreto, un recesso di pentimento contra legem. Sussisterebbe, quindi, una sproporzione tra il rimedio azionato, la nullità dell’intero contratto quadro, e il risultato pratico perseguito, ovvero il recupero della somma impiegata in un investimento non redditizio.
Viene, quindi, a convergere in tale fattispecie, non solo il profilo della finalità della forma scritta di cui all’art. 23 TUF, ma anche l’abuso del diritto, dotato di rilevanza europea e convenzionale, prima ancora che nazionale, sia nel diritto positivo, come emerge rispettivamente dagli artt. 54 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e 17 della CEDU, sia a livello giurisprudenziale, in quanto considerato dalla Corte di Giustizia dell’UE punto di equilibrio tra autonomia negoziale e giustizia sociale.
I referenti interni dell’abuso del diritto sono, invece, l’art. 41, comma 2, Cost. che fa riferimento all’utilità sociale quale limite all’iniziativa privata e l’art. 2 Cost., che prevede il dovere di solidarietà sociale, considerato da anni addentellato del principio di buona fede, detto anche clausola di reciprocità, ovvero di proporzionalità nell’esercizio del diritto.
Non costituirebbe un problema, invece, la possibilità dell’investitore di far valere la nullità solo con riferimento ad alcuni ordini di esecuzione, quelli meno convenienti, del contratto-quadro, essendo questa esclusa proprio dalla natura non contrattuale dei primi, come affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 26159/2014, incompatibile con azioni come la nullità o la risoluzione.
Inquadrata, quindi, dal punto di vista giuridico e fattuale la questione della doppia sottoscrizione del contratto-quadro, non v’è chi non veda che il punto principale, in diritto, su cui è fondata l’ordinanza di rimessione è proprio l’aspetto formale. Infatti, la Cassazione, a proposito della nullità di cui all’art. 23 TUF, afferma: “Se tale nullità, dunque, è funzionale in primis alla tutela della più ampia informazione dell’investitore (sebbene permanga il ricordato interesse generale all’efficienza del mercato del credito), tanto da presentare rilevanti differenze di disciplina rispetto alla nullità del codice civile, tutte le prescrizioni da essa presidiate vanno intese in tale logica: la quale deve guidare, dunque, anche la valutazione sul punto se il cliente sarebbe pregiudicato, nella sua completa e consapevole autodeterminazione, dalla mancanza di firma della banca sul contratto-quadro”.
L’ordinanza di rimessione propende, quindi, per il superamento della necessaria presenza della duplice sottoscrizione, per una serie di argomenti: comparatistico, teleologico, economico e sistematico.
Quanto al primo, la Cassazione, guardando all’ordinamento europeo, evidenzia come quest’ultimo “non mostri di ritenere rilevante una forma scritta per i contratti bancari e finanziari, sottintendendo che gli obiettivi della normativa di trasparenza – funzione preminente del vincolo formale in tale ambito – possano essere raggiunti anche con altri strumenti, quali i supporti cartacei o le bozze del documento”.
Dal punto di vista teleologico, invece, la Suprema Corte sottolinea che l’interesse realizzato dalla forma di cui all’art. 23 TUF, la quale è inserita nella più ampia categoria delle forme di protezione, consiste nella conoscenza e trasparenza delle clausole contrattuali da parte del cliente, predisposte, tra l’altro dall’intermediario, per cui, in qualità di autore del contenuto del negozio, nessuna delle esigenze viste può rinvenirsi in capo a quest’ultimo.
Spiega la Cassazione che “La predisposizione del modulo ad opera della banca potrebbe dirsi rendere non più necessaria, cioè, l’ulteriore formale approvazione del predisponente: considerato che l’adeguata ponderazione e la rispondenza dell’accordo ai propri interessi è stata già valutata con la redazione del documento medesimo, nonché la sua approvazione ad opera delle autorità indipendenti cui è demandata la vigilanza del settore; e, soprattutto, non è la banca il soggetto a cui tutela il requisito formale è posto”.
Al contrario, esigere la firma della banca, o comunque dell’intermediario in generale, sarebbe gravemente lesivo dell’esigenza di dinamismo nella conclusione dei contratti finanziari e, dunque, dell’efficienza dei mercati, cui le stesse nullità di protezione sono preordinate. Infatti, il motivo per cui non può realizzarsi una sottoscrizione contestuale del contratto-quadro sta nell’assenza, in capo al funzionario bancario che si interfaccia con la clientela, dei poteri di rappresentanza dell’istituto di credito.
In un’ottica di sistema, l’ordinanza sembra accostare la forma di cui all’art. 23 TUF più a quelle del codice del consumo, aventi funzione di trasmissione di informazioni dati e notizie sull’operazione e non di manifestazione della volontà, che alle disposizioni di cui agli artt. 1742 e 1888 c.c., in materia rispettivamente di contratti di agenzia e di assicurazione, ove ciascuna parte ha diritto di ottenere dall’altra un documento dalla stessa sottoscritto e l’assicuratore è obbligato a rilasciare al contraente la polizza di assicurazione o altro documento da lui sottoscritto.
Se la ricostruzione operata dalla Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 10447/2017, è certamente condivisibile sotto il profilo degli intenti, resta il problema del dato formale, così come evidenziato dalla stessa giurisprudenza di legittimità in diverse occasioni, come nella pronuncia n. 5919/2016.
La Suprema Corte, nella citata sentenza, richiama il principio per cui la previsione di cui all’art. 23 TUF “non è incompatibile con la formazione del contratto attraverso lo scambio di due documenti, entrambi del medesimo tenore, ciascuno sottoscritto dall’altro contraente. Non v’è difatti ragione di discostarsi dall’insegnamento più volte ribadito, secondo cui il requisito della forma scritta ad substantíam è soddisfatto anche se le sottoscrizioni delle parti sono contenute in documenti distinti, purché risulti il collegamento inscindibile del secondo documento al primo, sì da evidenziare inequivocabilmente la formazione dell’accordo”. Il requisito della forma scritta ad substantiam è soddisfatto, quindi, solo se entrambe le scritture e le corrispondenti dichiarazioni negoziali sono formalizzate.
Se, però, uno dei due documenti, normalmente quello sottoscritto dalla banca, dovesse venire a mancare, quest’ultima non può provare il contratto avvalendosi della prova testimoniale, perché non si verte in un’ipotesi di perdita incolpevole del documento ai sensi dell’art. 2724, n. 3, c.c., unico caso in cui ex art. 2725 c.c. è ammessa la prova per testimoni di un negozio per cui è prevista la forma scritta ad substantiam, ma si realizza un’ipotesi di cui al n. 2 dell’art. 2724 c.c.
La giurisprudenza della Cassazione è ormai granitica nel ritenere che la produzione in giudizio del contratto da parte del contraente che non ha firmato realizza un equivalente della sottoscrizione, con conseguente perfezionamento dell’accordo che però non può realizzarsi ex tunc, ma ex nunc, con la possibilità, quindi, da parte del cliente di ottenere la ripetizione di quanto eventualmente pagato medio tempore.
Secondo la sent. n. 5919/2016 la domanda del cliente volta all’accertamento della nullità non presuppone l’avvenuta conclusione del contratto, in quanto non è una domanda costitutiva, quali quelle di annullamento o di risoluzione. Far discendere, poi, la validità degli ordini di acquisto realizzati medio tempore dal perfezionamento solo successivo del contratto quadro si scontra con l’art. 1423 c.c., il quale vieta la convalida del contratto nullo.
Di fronte ad uno sbarramento formale così forte, sembra difficile che si possa giungere ad argomentare sull’inammissibilità della nullità del contratto quadro, per mancanza della sottoscrizione dell’intermediario. Si verrebbe ad introdurre una deroga molto ampia all’istituto della forma scritta ad substantiam, suscettibile di applicarsi a tutti i contratti asimmetrici, caratterizzati proprio dalla funzione di protezione del contraente debole.
Piuttosto, sembrerebbe dirimente, nella fattispecie de qua, l’argomento dell’abuso del diritto che, infatti, valorizza il principio di buona fede, inteso come correttezza, nella fase delle trattative, dell’interpretazione e della esecuzione del contratto. L’azione di nullità, o la relativa eccezione, verrebbe infatti ad essere frustrata nella sua funzione concreta, che è quella di consentire al cliente, la sola parte da cui può esser fatta valere ex art. 23 TUF, di sciogliersi da un contratto in cui è mancata una completa attività informativa da parte dell’intermediario. In tale ipotesi, si potrebbe applicare, a parere di chi scrive, il rimedio del diniego di tutela che, dal punto di vista processuale, si sostanzia nell’exceptio doli generalis, proprio come previsto in ipotesi di frazionamento del credito. Si eviterebbe, in questo modo, di far ricorso ad una ricostruzione della forma ad substantiam, che tanti limiti possiede, come ha affermato la Cassazione, dal punto di vista normativo.
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Nicola Cicciarelli
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