Formazione di copia di atto inesistente: insussistenza del reato di falsità materiale ex artt. 476 e 477 c.p.
Gli artt. 476-493 bis c.p. prevedono e puniscono le falsità in atti, nel più ampio novero dei delitti contro la fede pubblica. Distinguendo la falsità materiale da quella ideologica.
I delitti in materia di falso attengono a quelle ipotesi in cui si ha una rappresentazione non corrispondente alla realtà (cd. immutatio veri) ed in grado di trarre in inganno. Dandosi così rilevanza al cd. animus nocendi vel decipiendi.
Trattasi di fattispecie di natura plurioffensiva. Il bene giuridico tutelato dalle disposizioni interessate è senz’altro rappresentato dalla fede pubblica, intesa come fiducia, riposta dalla generalità dei consociati, nella certezza dei traffici giuridici, garantita da atti e negozi validi, oltre che efficaci. Nonché da determinati oggetti o simboli, sulla cui autenticità o genuinità poter fare affidamento.
E secondo la posizione assunta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione “I delitti contro la fede pubblica tutelano direttamente non solo l’interesse pubblico alla genuinità materiale e alla veridicità ideologica di determinati atti, ma anche quello del soggetto privato sulla cui sfera giuridica l’atto sia destinato a incidere concretamente, con la conseguenza che egli, in tal caso, riveste la qualità di persona offesa dal reato e, in quanto tale, è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione” (Cass. Pen., SS.UU., 18 dicembre 2007, n. 46982).
Una lettura costituzionalmente orientata della normativa de qua impone di non dare rilevanza a qualsivoglia ipotesi di falsità, bensì solo a quelle che ricalchino il paradigma del principio di offensività ex art. 49 co. 2 c.p., ossia che nel concreto cagionino un danno effettivo. Ragione per cui la giurisprudenza ha elaborato le nozioni di falso grossolano (immediatamente riconoscibile), innocuo (prima facie irriconoscibile, ma inidoneo a ledere, in concreto, gli interessi protetti) e inutile (la falsità ha ad oggetto un atto privo di effetti giuridici nel concreto) come fattispecie sprovviste di rilevanza penale.
Proprio la necessità di ritenere riscontrata una offensività in concreto, ha posto l’esigenza di sottoporre alle Sezioni Unite del Supremo Collegio la questione <<se la formazione di una copia di un atto inesistente integri o meno il reato di falsità materiale>>.
La questione ha specificatamente ad oggetto la falsità materiale e non anche quella ideologica. Laddove il discrimen tra le due fattispecie è rappresentato dal fatto che la falsità materiale attiene alla genuinità dell’atto, la falsità ideologica alla sua veridicità.
Di conseguenza, si avrà falso materiale in ipotesi di divergenza tra autore materiale ed autore apparente dell’atto. Oppure in caso di alterazione dell’atto dopo la sua formazione.
Falso ideologico quando l’atto contiene attestazioni o dichiarazioni non veritiere.
Il secondo aspetto a cui occorre porre attenzione è che il quesito giuridico riguarda nello specifico la copia intesa come copia fotostatica, la cd. fotocopia. Che è cosa ben diversa dalla copia autentica. La quale, rispetto alla mera fotocopia, è assistita da un diverso regime giuridico. E porta con sé una diversa efficacia.
Terzo: l’atto di cui viene formata la copia deve essere un atto inesistente. Ovvero un atto affetto da un vizio talmente grave ed assolutamente insanabile, da non avere alcuna rilevanza giuridica. Il che equivale a dire essere totalmente improduttivo di effetti.
Prima di addivenire alla soluzione della anzidetta questione di diritto, le Sezioni Unite ripercorrono gli indirizzi interpretativi formatisi in merito.
Secondo un primo orientamento ermeneutico, restrittivo, la mera utilizzazione della fotocopia di un atto inesistente, in assenza di specifici requisiti formali o sostanziali che facciano apparire l’atto come un originale od una copia autentica, non integra il reato di falsità materiale ex artt. 476 e 477. In quanto la disciplina sul falso tutela la fede pubblica come bene giuridico, che è lesa solo quando ad essere contraffatto o alterato è un atto avente contenuto giuridicamente rilevante ed una specifica funzione probatoria assegnatagli dall’ordinamento. E tale può essere solo l’originale di un atto o una sua copia autentica.
Pertanto, la mera fotocopia, presentata come tale e non così contraffatta da poter apparire, oggettivamente e nell’intenzione dell’agente, un originale o una copia autentica, non avendo ex se contenuto giuridicamente rilevante, non può avere ontologicamente alcuna funzione probatoria. E, di conseguenza, alcuna idoneità decettiva della pubblica fede.
Anche perché l’alterazione ha ad oggetto materialmente la fotocopia e non, invece, un atto pubblico, un certificato od un’autorizzazione amministrativa, che sono gli unici oggetti materiali delle condotte penalmente rilevanti tipizzate dal legislatore.
In presenza di altri requisiti potrebbe configurarsi un altro reato (ad es. truffa), ma non un falso materiale.
Secondo un opposto orientamento, invece, la formazione di una fotocopia, utilizzata sì come tale, ma riproduttiva di un atto in realtà inesistente, di cui si vuole, al contrario, attestare esistenza ed effetti probatori, integra il reato di falso. Per un doppio ordine di motivi:
– la formazione della fotocopia di un atto pubblico inesistente presuppone la formazione dello stesso atto, di cui poi produrre copia;
– non sarebbe necessario un intervento materiale su di un atto pubblico realmente esistente (infatti la questione riguarda proprio l’atto inesistente), essendo sufficiente a ledere il bene giuridico tutelato la prospettazione, attraverso tale fotocopia, di una falsa rappresentazione della realtà. Mostrare come esistente un atto che, in realtà, non esiste.
Riconoscendosi così, alla fotocopia, completa funzione probatoria e, quindi, capacità decettiva. Al pari delle copie autentiche. Non essendoci alcuna norma processuale che subordini l’efficacia probatoria delle copie fotostatiche a certificazione ufficiale di conformità.
Le SS.UU., aderendo al primo degli orientamenti summenzionati e restringendo, quindi, l’area di rilevanza penale, hanno espresso il seguente principio di diritto: “La formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale” (Cass. Pen., SS.UU., 07 agosto 2019, n. 35814).
Si richiede per la rilevanza penale della condotta un quid pluris. Ovvero che la copia sia spesa nei traffici giuridici non come fotocopia (seppur di un atto inesistente), bensì come un originale, che in realtà non esiste.
Riconoscendo l’ordinamento solo all’originale o alla copia autentica una funzione probatoria e, di conseguenza, una idoneità decettiva.
Perché l’agente sia chiamato a rispondere di falsità materiale ex artt. 476 e 477 c.p. (anche in combinato disposto con l’art. 482 c.p.) deve riscontrarsi in esso l’intenzione di prospettare all’esterno la specifica funzione probatoria assegnata dall’ordinamento a quell’atto. Cosa che non si verifica, già sul piano oggettivo, quando egli spenda la pura e semplice fotocopia, poiché <<la copia di un atto assume il carattere di documento solo in seguito alla pubblica autenticazione del contenuto dell’atto, con il logico corollario secondo cui, tutelando le norme sul falso materiale l’autenticità degli atti in relazione al loro contenuto e/o alla loro provenienza, la falsificazione di una copia priva di attestazione di autenticità non dà luogo ad un illecito penale, in quanto la contraffazione viene, in tal caso, effettuata ex novo su un oggetto cui sono attribuite le sembianze di ciò che lo stesso non è nella realtà>> (Cass. Pen., SS.UU., ut supra).
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Tiziana Gammino
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