Forme di tutela contro l’inadempimento contrattuale nei contratti sinallagmatici

Forme di tutela contro l’inadempimento contrattuale nei contratti sinallagmatici

L’art. 1453 c.c. costituisce norma di fondamentale importanza nell’individuazione dei rimedi esperibili, a fronte di inadempimento contrattuale, nell’ambito dei contratti sinallagmatici: tale norma, in particolare, prevede che, in caso di mancato adempimento di uno dei contraenti, l’altro possa esperire, alternativamente, l’azione di esatto adempimento oppure l’azione di risoluzione, fatto salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.

Occorre innanzitutto osservare che la norma in esame disciplina la risoluzione giudiziale, caratterizzata dal fatto che lo scioglimento del vincolo contrattuale avviene per effetto di una sentenza costitutiva del giudice. Essa, tuttavia, non costituisce l’unica tipologia di risoluzione contemplata dal nostro ordinamento, essendo individuabili dei casi, espressamente previsti, nei quali il contratto si risolve di diritto, al ricorrere di determinati presupposti, senza la necessità di instaurare un apposito giudizio: il riferimento è, in particolare, alle ipotesi di diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa, termine essenziale e, ormai pacificamente, caparra confirmatoria.

A riguardo vi è tuttavia la tendenza a ritenere che la regola generale sia costituita proprio dalla risoluzione giudiziale, principalmente in quanto ritenuta maggiormente in linea con il principio fondamentale del “pacta sunt servanda” nonché con la cogenza del vincolo contrattuale: l’art.. 1372 c.c., infatti, attribuisce espressamente al contratto forza di legge tra le parti e pertanto non si vede come possa ammettersi uno scioglimento dello stesso se non per mezzo di una sentenza costitutiva del giudice. A ciò si aggiunge, peraltro, che la risoluzione giudiziale prescinde dal previo inserimento di apposite clausole all’interno del contratto, richiedendo il solo presupposto della non scarsa importanza dell’inadempimento, di cui all’art. 1455 c.c.

Proseguendo nella lettura della norma, tuttavia, ci si rende conto che i commi seguenti, se interpretati in maniera strettamente letterale, sembrano suggerire che già la mera proposizione della domanda di risoluzione produce effetti significativi sulla cogenza del vincolo, dal momento che, in conseguenza di essa, non solo non sarebbe più possibile proporre l’azione di esatto adempimento, ma risulterebbe altresì precluso l’adempimento spontaneo da parte del debitore: si segnala, tuttavia, che la giurisprudenza, nel c.d. diritto vivente, ha fornito tutt’altra interpretazione delle previsioni normative in analisi, nei termini di cui si dirà a breve.

Quanto alla prima questione, se l’interpretazione corretta fosse quella prospettata, il creditore, che dovesse vedersi respinta la domanda di risoluzione per ragioni di rito o di merito, si verrebbe a trovare nella impossibilità di proporre azione di esatto adempimento, ragion per cui si delineerebbe una situazione in cui l’adempimento del contratto è rimesso alla buona volontà dell’altro contraente, non avendo più il creditore rimedi a sua tutela.

A riguardo la giurisprudenza ha invece chiarito che la preclusione di cui al secondo comma dell’art. 1453 c.c. non ha natura sostanziale, bensì endoprocessuale e che pertanto la previsione in questione richiama il mero divieto di proposizione di nuove domande all’interno dello stesso giudizio (c.d. divieto di mutatio libelli): con ciò si intende, in altri termini, che una volta instaurato il giudizio di risoluzione non è possibile proporre, all’interno del medesimo, domanda di esatto adempimento, nulla ostando, tuttavia, a che, una volta chiusosi il giudizio di risoluzione con rigetto della domanda, il creditore eserciti l’azione di esatto adempimento, con instaurazione di un nuovo giudizio.

Una interpretazione di questo tenore, indubbiamente, neutralizza in buona parte la ratio di tutela dell’affidamento del debitore, che il legislatore voleva soddisfare con la espressa previsione relativa all’effetto preclusivo della domanda di risoluzione: si osserva, infatti, che il debitore, una volta venuto a conoscenza della volontà del creditore di risolvere il contratto, potrebbe, desumendo da ciò il venir meno di ogni interesse dello stesso alla prestazione, decidere di reimpiegare le proprie risorse altrove, venendosi pertanto a trovare in una situazione di difficoltà laddove il creditore dovesse, in un secondo momento, proporre azione di esatto adempimento.

Si osserva, tuttavia, che tale ratio protettiva è stata recuperata dalla giurisprudenza proprio in relazione all’ipotesi in cui, in ragione dell’affidamento che il debitore ha fatto nel disinteresse del creditore alla prestazione, l’esecuzione materiale della stessa sia diventata, nelle more, impossibile, con la conseguenza che, a fronte della sopravvenuta domanda di esatto adempimento, la prestazione risulti insuscettibile di essere adempiuta. Risulta pertanto inevitabile, in casi siffatti, lo spostamento dei rimedi sul piano del risarcimento del danno, il quale, tuttavia, non può prescindere da un giudizio di imputabilità ed è esattamente in questo frangente che la giurisprudenza recupera la ratio protettiva, sopra menzionata: il giudice, infatti, dovrà valutare se la proposizione della domanda di risoluzione sia stata avanzata dal creditore in maniera avventata o meno, e dovrà pertanto escludersi, nel primo caso, che la sopravvenuta impossibilità della prestazione sia dipesa da colpa del debitore, l’affidamento del quale torna quindi a ricevere tutela sotto questo diverso profilo.

Quanto alla seconda questione prospettata, la proposizione della domanda di risoluzione giudiziale, in base al disposto del terzo comma dell’art. 1453 c.c., sembrerebbe altresì impedire l’adempimento spontaneo del debitore: una tale interpretazione, tuttavia, rischia di condurre ad abusi da parte di entrambi i contraenti.

A riguardo, infatti, se si ritiene che il giudice, nel pronunciarsi sulla domanda di risoluzione giudiziale, debba valutare la gravità che connota l’inadempimento nel momento in cui la domanda è stata proposta, il debitore potrebbe risultare in qualche modo avvantaggiato dall’intervenuta richiesta di risoluzione, in quanto, impedendo quest’ultima il suo adempimento spontaneo, questi verrebbe ad essere in un certo qual modo autorizzato a protrarre la situazione di inadempimento, senza che la stessa sia valutabile dal giudice al fine dell’accoglimento o meno della domanda di risoluzione.

Allo stesso tempo, però, alcuni inconvenienti pratici si verificherebbero anche laddove si ritenesse che il giudice, nel valutare la gravità dell’inadempimento, debba tenere in considerazione il contegno del debitore in data successiva alla proposizione della domanda di risoluzione: in tal caso, infatti, il creditore potrebbe essere spinto a chiedere la risoluzione in modo avventato, a fronte, cioè, di un inadempimento non ancora grave, confidando che il presupposto di cui all’art. 1455 c.c. risulterà integrato al momento della sentenza, non avendo potuto il debitore adempiere a seguito della proposizione della domanda di risoluzione.

Si tratta, in entrambi i casi, di situazioni irragionevoli, per scongiurare le quali la giurisprudenza ha chiarito che, a differenza di ciò che la formulazione letterale della norma sembra suggerire, la proposizione della domanda di risoluzione giudiziale non impedisce affatto l’adempimento spontaneo del debitore, il quale è piuttosto precluso a partire dal momento in cui risulti integrato il presupposto sostanziale di cui all’art. 1455 c.c., ossia la gravità dell’inadempimento. Ne consegue pertanto che, qualora la domanda di risoluzione venga proposta dal creditore in un momento in cui l’inadempimento non è ancora connotato da gravità, il debitore conserva la possibilità di adempiere, e anzi è tenuto a farlo, onde evitare che il suo contegno, successivo alla proposizione della domanda, possa essere valutato negativamente dal giudice. Come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, ai fini dell’accoglimento o meno della domanda di risoluzione, il giudice deve valutare la gravità dell’inadempimento al momento della sentenza, ragion per cui il protrarsi dell’inadempimento del debitore, in data successiva alla proposizione della domanda, potrebbe rendere grave un inadempimento che in origine non lo era, mentre una tale evenienza non sarà a lui addebitabile qualora egli abbia offerto l’adempimento tardivo, ma questo sia stato rifiutato dal creditore.

Come logica conseguenza di quanto appena chiarito, inoltre, l’adempimento spontaneo del debitore è rifiutabile dal creditore anche prima che egli proponga la domanda di risoluzione, dunque indipendentemente da essa, qualora l’inadempimento abbia già raggiunto la soglia di gravità di cui all’art. 1455 c.c. Una tale conclusione si spiega in ragione del fatto che il diritto alla risoluzione è pur sempre un diritto potestativo, seppure ad esercizio giudiziale, che sorge nel patrimonio del creditore in conseguenza del realizzarsi del presupposto sostanziale della gravità dell’inadempimento, di cui all’art. 1455 c.c.: si tratta quindi di un diritto che il creditore acquisisce indipendentemente dalla proposizione della domanda di risoluzione e del quale, in ossequio al principio della intangibilità in pejus della sfera giuridica altrui, non può essere privato senza il suo consenso, il che è esattamente ciò che accadrebbe laddove il creditore fosse costretto ad accettare l’adempimento tardivo, offerto dal debitore prima della proposizione della domanda di risoluzione.

La giurisprudenza, pertanto, ammette che, in casi siffatti, il creditore possa opporre in via stragiudiziale l’eccezione di risoluzione, con effetto preclusivo dell’adempimento del debitore: si tratta di un rimedio demolitorio, finalizzato ad evitare che il creditore, al verificarsi dell’inadempimento, sia costretto ad instaurare rapidamente un giudizio di risoluzione, al solo fine di scongiurare il rischio di dover accettare un adempimento tardivo che gli fosse offerto, il che evidenzia come la possibilità di opporre in via di eccezione il diritto di risoluzione risponda ad una logica di economia processuale. Quello che potrebbe accadere, semmai, è che sia il debitore ad instaurare un giudizio, qualora contesti la sussistenza dei presupposti per sollevare l’eccezione di risoluzione, ma si tratterà, in ogni caso, di un mero giudizio di accertamento.

Le interpretazioni fornite dalla giurisprudenza, pertanto, mettono in dubbio il fatto che nel nostro sistema la regola generale sia la risoluzione giudiziale e che si possa effettivamente parlare di natura costitutiva della relativa sentenza: questo in quanto il diritto alla risoluzione risulta già presente nel patrimonio del creditore, prima e a prescindere dalla proposizione della domanda giudiziale, per l’esattezza a partire dal momento in cui l’inadempimento superi la soglia di gravità, di cui all’art. 1455 c.c., tanto che si riconosce al creditore la possibilità di eccepire tale diritto, al di fuori del giudizio, così impedendo l’altrui adempimento tardivo.

Si precisa, in ogni caso, che tale disciplina si applica esclusivamente nell’ipotesi in cui alcuna prestazione sia stata ancora adempiuta, in quanto, laddove uno dei contraenti abbia invece già eseguito la propria prestazione, questi non potrà, a fronte dell’offerta tardiva di adempimento da parte dell’altro, dichiarare di non avervi più interesse: in quest’ultimo caso, dunque, non si potrà prescindere dall’instaurazione di un giudizio per ottenere la risoluzione del contratto, dato che solo la risoluzione rende indebita la prestazione eseguita, consentendone il recupero da parte del contraente adempiente.

Tornando ai rapporti che intercorrono tra l’azione di risoluzione e l’azione di esatto adempimento, si è visto come, grazie all’interpretazione che la giurisprudenza ha fornito del secondo comma dell’art. 1453 c.c., deve escludersi che la proposizione della domanda di risoluzione precluda l’esercizio dell’azione di esatto adempimento, potendo accadere non solo che le stesse vengano proposte congiuntamente, in uno stesso giudizio, subordinando la domanda di esatto adempimento all’eventuale mancato accoglimento della domanda di risoluzione, ma essendo altresì possibile che la domanda di esatto adempimento venga proposta a seguito del rigetto della domanda di risoluzione, in un separato giudizio, conformemente al divieto della mutatio libelli.

Quanto invece alla diversa ipotesi, prevista dallo stesso secondo comma dell’art. 1453 c.c., in cui ad essere esercitata per prima sia l’azione di esatto adempimento, si ammette pacificamente la possibilità di avanzare, in un secondo momento, domanda di risoluzione del contratto, all’interno dello stesso giudizio: si tratta di una deroga al divieto della mutatio libelli, ammessa a condizione, però, che vi sia identità dei fatti costitutivi posti a fondamento delle diverse domande.

Una questione controversa, a riguardo, è sorta quanto alla possibilità di estendere la deroga menzionata anche alla domanda di risarcimento del danno, la quale, come si evince dall’art. 1453 c.c., può accedere alla domanda di risoluzione o a quella di esatto adempimento, oppure essere proposta autonomamente. A riguardo, una prima tesi sosteneva che, data l’eccezionalità della deroga, la relativa previsione normativa andasse interpretata restrittivamente, dunque limitata alla sola risoluzione, e che pertanto la domanda di risarcimento del danno dovesse sempre essere oggetto di un distinto giudizio. Una tesi intermedia, invece, sosteneva che, ove fosse stata proposta sin dall’inizio, assieme all’azione di esatto adempimento, una domanda di risarcimento del danno cagionato dal ritardo, sarebbe stato possibile, nel momento in cui si chiedeva la risoluzione, modificare anche la portata della domanda risarcitoria, da commisurare, a questo punto, all’inadempimento definitivo. Un ultimo orientamento, invece, ammetteva in ogni caso l’estensibilità della deroga alla domanda di risarcimento del danno, anche qualora essa, inizialmente, non fosse stata proposta assieme all’azione di esatto adempimento.

Proprio quest’ultima tesi è stata accolta dalle S.U., le quali hanno evidenziato come la deroga in esame sia ispirata ad una ratio di economia processuale, la quale risulterebbe vanificata ove, per richiedere il risarcimento del danno, fosse sempre e comunque necessaria l’instaurazione di un separato giudizio. Le S.U. hanno altresì evidenziato come la mancanza di una espressa previsione circa l’estensione della deroga anche alla domanda risarcitoria non possa dirsi dirimente al fine di escludere la stessa, dato il carattere accessorio che connota la domanda di risarcimento, rispetto all’azione principale a cui la stessa si accompagna: per chiarire ciò, la Cassazione evidenzia come anche la domanda restitutoria, a rigore, sia una domanda differente rispetto a quella risolutoria, e ciononostante nessuno dubiti del fatto che la restituzione, anche se non espressamente menzionata, possa conseguire alla risoluzione del contratto, risultando altrimenti in buona parte vanificata la funzione risolutoria.

Oggetto di discussione e di dibattito è stata invece l’ammissibilità, in materia contrattuale, del rimedio del risarcimento in forma specifica, disciplinato dall’art. 2058 c.c., collocato nell’ambito delle norme sulla responsabilità extracontrattuale, e ci si è altresì interrogati sull’eventuale rapporto intercorrente tra questo rimedio e il mezzo di tutela in forma specifica previsto in ambito contrattuale, ossia l’azione di esatto adempimento. A riguardo vi è stato chi ha ritenuto che i due rimedi coincidessero, ma tale posizione è stata smentita dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali hanno precisato che si tratta di rimedi aventi diversa natura: l’azione di esatto adempimento, infatti, è finalizzata ad ottenere proprio la prestazione oggetto del contratto e dunque in tal caso vi è coincidenza tra quanto viene preteso e quanto originariamente pattuito nel regolamento contrattuale, mentre nel caso del risarcimento in forma specifica si chiede che la reintegrazione del danno patito avvenga non mediante corresponsione dell’equivalente monetario, bensì attraverso la prestazione di un facere sostitutivo. La conseguenza di ciò, dunque, è che il debitore verrebbe condannato ad eseguire una prestazione diversa rispetto a quella prevista nel contratto e ciò non si ritiene ammissibile nell’ambito della responsabilità contrattuale.

Tale considerazione consente altresì di comprendere il motivo per il quale, facendo riferimento ai rimedi che il codice prevede in relazione ad uno specifico tipo contrattuale, ossia la compravendita, si esclude che il compratore possa ottenere l’eliminazione dei vizi da cui dovesse essere affetto il bene oggetto di vendita: dal contratto in esame, infatti, nasce in capo al venditore solo un’obbligazione di dare, precisamente un obbligo di consegna, mentre ove si pretendesse dallo stesso la rimozione dei vizi che affliggono il bene oggetto della vendita, gli si chiederebbe, di fatto, di adempiere ad un’obbligazione di facere, la quale, tuttavia, esula dal regolamento contrattuale.

Diverso è il caso in cui il venditore si impegni specificamente ad eliminare i vizi che il bene dovesse presentare, andando in tal caso ad assumere un’obbligazione autonoma e consentendo quindi al compratore di venire ad avere a sua disposizione un’azione ulteriore la quale, tuttavia, come chiarito dalla giurisprudenza, si aggiunge agli altri rimedi previsti, senza farli venire meno.

Sotto questo profilo è peraltro interessante constatare come, rispetto all’acquirente definitivo, venga a ricevere una maggiore tutela il promissario acquirente: ciò, anche se può sembrare paradossale, trova in realtà spiegazione nel fatto che il contratto preliminare è un contratto ad effetti obbligatori e non ad effetti reali, come la vendita, e che peraltro, come chiarito dalla giurisprudenza, le obbligazioni che sorgono in capo al promittente venditore, a seguito della conclusione del contratto preliminare, non consistono solo in un facere negoziale, ossia nel prestare il consenso alla conclusione di un successivo contratto definitivo, idoneo a produrre l’effetto traslativo, ma anche in una serie di facere materiali strumentali, finalizzati a garantire che il bene risulti avere, nel giorno della stipula del definitivo, tutte le caratteristiche pattuite. Questo spiega, dunque, la ragione per la quale, in caso di vizi del bene oggetto del contratto preliminare, il promittente venditore si vede tenuto all’eliminazione degli stessi, con l’ulteriore precisazione relativa al fatto che, in tal caso, non ci si trova di fronte ad un’ipotesi di risarcimento in forma specifica, bensì ad una ipotesi di esatto adempimento, avendo il promittente venditore assunto, con la stipula del preliminare, specifici obblighi di facere materiali, nei termini di cui si è detto.

E’ proprio focalizzando l’attenzione sul contratto di compravendita che si nota, peraltro, come esso costituisca uno di quei tipi contrattuali in relazione ai quali il regime dei rimedi diverge, in buona parte, rispetto a quello descritto in termini generali dal codice. Quanto al rimedio risolutorio, in particolare, esso presenta delle specialità, sia sotto il profilo dei presupposti che consentono la sua attivazione, sia per ciò che attiene al regime temporale a cui è sottoposto: si parla, a riguardo, di risoluzione speciale “redibitoria”. La principale caratteristica di quest’ultima attiene al fatto che, per poter esperire tale azione risolutoria, non è richiesto il verificarsi dell’inadempimento di non scarsa importanza, di cui all’art. 1455 c.c., quanto piuttosto la circostanza che la cosa risulti affetta da vizi, c.d. vizi redibitori (artt. 1490 e ss), che ne diminuiscano il valore in modo apprezzabile o che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata: il legislatore, infatti, configura in capo al venditore una garanzia per i vizi della cosa venduta, da cui scaturisce un vincolo di responsabilità di natura oggettiva. In altri termini, il vizio, che il bene presenta ancora prima che il contratto sia concluso, incide sulla pienezza dell’effetto traslativo, il quale si produce in maniera imperfetta, mentre deve escludersi che lo stesso determini e configuri inadempimento di un’obbligazione: si osserva, del resto, che si è in presenza di un contratto che, eccezion fatta per l’obbligo di consegna della cosa in capo al venditore, non dà vita ad alcuna obbligazione di cui possa farsi valere l’inadempimento, in quanto si tratta di un contratto ad effetti reali, nel quale, cioè, il consenso produce un effetto traslativo, ossia trasferisce la proprietà di una cosa oppure un altro diritto.

Ulteriore peculiarità attiene inoltre al regime temporale, delineato dall’art. 1495 c.c.: affinché il compratore possa avvalersi della garanzia in discorso, invero, egli è tenuto a denunciare i vizi della cosa al venditore entro otto giorni dalla scadenza, con la precisazione, tuttavia, che tale termine di decadenza non opera qualora il venditore abbia riconosciuto l’esistenza del vizio o lo abbia occultato. A ciò si aggiunge, inoltre, la previsione di un termine breve di prescrizione: l’azione di risoluzione deve infatti essere esercitata entro un anno dalla consegna, e dunque non opera l’ordinario termine di prescrizione decennale.

La risoluzione redibitoria, tuttavia, non è l’unico rimedio esperibile ove il bene oggetto della compravendita sia affetto dai c.d. vizi redibitori: l’art. 1492 c.c., infatti, prevede che il compratore possa, a sua scelta, domandare la risoluzione del contratto o chiedere la riduzione del prezzo, e fermo restando, in ogni caso, il diritto al risarcimento del danno (art. 1494 c.c.).

Si evidenzia, in ogni caso, che il regime dei rimedi previsti in relazione al contratto di compravendita si presenta piuttosto frammentario, in quanto il compratore viene ad avere a disposizione strumenti di tutela differenti, a seconda della tipologia e della gravità dei vizi che affliggono il bene oggetto della vendita: oltre alla garanzia per i vizi della cosa, c.d. vizi redibitori, analizzata nel dettaglio, il legislatore prevede infatti anche le diverse ipotesi di garanzia per la mancanza delle qualità promesse o essenziali della cosa, al ricorrere della quale torna ad applicarsi la disciplina generale della risoluzione, eccezion fatta per il regime temporale, applicandosi quello speciale di cui all’art. 1495 c.c., nonché l’ipotesi di garanzia per l’evizione totale o parziale della cosa venduta, in relazione alla quale è previsto, invece, un regime di rimedi ad hoc.

Vi è, infine, un’ulteriore ipotesi individuata dalla giurisprudenza, ossia il c.d. aliud pro alio, caratterizzata da particolare gravità, in quanto in tal caso a venire in rilievo non sono i vizi che affliggono il bene oggetto della vendita, quanto piuttosto l’inadempimento dell’obbligo di consegna, unica obbligazione scaturente dal contratto di compravendita in capo al venditore. Si tratta, in altri termini, di ipotesi in cui al compratore viene consegnato non un bene affetto da vizi, bensì proprio una cosa diversa da quella oggetto della pattuizione contrattuale. Questo spiega, pertanto, il motivo per il quale in questa peculiare ipotesi tornano ad applicarsi le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento.

Un’altra tipologia contrattuale che merita particolare attenzione, infine, è costituita dall’appalto, ossia il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio, dietro un corrispettivo in denaro.

Il contratto di appalto presenta una disciplina speciale quanto ai rimedi legati all’inadempimento, il che, a ben guardare, si spiega in ragione del fatto che nell’appalto è individuabile un’obbligazione di facere: ciò implica, innanzitutto, che l’eliminazione dei vizi dell’opera costituisce, in tal caso, il rimedio naturale e risulta quindi esperibile un’azione di esatto adempimento nei confronti dell’appaltatore. L’art. 1668 c.c., infatti, prevede che il committente possa chiedere che le difformità o i vizi dell’opera siano eliminati a spese dell’appaltatore, o che, in alternativa, egli possa domandare che il prezzo della stessa sia proporzionalmente diminuito, e sempre facendo salvo il risarcimento del danno in caso di colpa. Si prevede, inoltre, che il committente sia tenuto a denunciare la presenza dei vizi all’appaltatore entro il termine di decadenza di sessanta giorni dalla scoperta e che l’azione contro l’appaltatore si prescriva entro due anni dal giorno della consegna dell’opera.

Tuttavia ciò che caratterizza maggiormente la disciplina dell’appalto attiene alla risoluzione, costituendo essa un’ipotesi del tutto eccezionale: quest’ultima, infatti, può avere luogo, in base a quanto previsto dal secondo comma dell’art. 1668 c.c., esclusivamente nel caso in cui le difformità o i vizi dell’opera siano caratterizzati da una gravità tale da rendere la stessa del tutto inadatta alla sua destinazione. La ragione di questa eccezionalità, a ben guardare, deve essere ravvisata nell’esigenza, avvertita dal legislatore, di stabilizzare il più possibile il contratto di appalto, al fine di tutelare l’appaltatore: si evidenzia, infatti, come il contratto di appalto sia un contratto di durata, che richiede all’appaltatore di sostenere costi considerevoli, il tutto in ragione dell’affidamento che lo stesso matura nel fatto che, una volta ultimata l’opera, si vedrà corrispondere il relativo prezzo. La risoluzione, invece, produrrebbe l’effetto di sciogliere il vincolo contrattuale, con la conseguenza che l’appaltatore si vedrebbe restituire l’opera, con enorme danno per lo stesso e per la sua impresa. A riprova del fatto che l’eccezionalità della risoluzione è da ricondurre alla volontà del legislatore di scongiurare tale evenienza, si osserva che la disciplina menzionata si applica esclusivamente nel caso in cui l’opera risulti completata, mentre, in caso contrario, diventa nuovamente possibile ottenere la risoluzione secondo le regole generali, senza dubbio più vantaggiose per il committente.


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Serena Fiorentini

Laureata presso La Sapienza, Università di Roma, voto 110/110 e lode, con tesi in Procedura penale, dal titolo "La prova decisiva" (Relatore Prof. Alfredo Gaito). Successivamente ha svolto con esito positivo il tirocinio presso gli uffici giudiziari (marzo 2016- settembre 2017) presso il Tribunale di Civitavecchia, sezione penale. Ha frequentato i corsi di alta formazione giuridica "Lexfor" (2016-2017) e "Jusforyou" (2017-2018).

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