Funzione rieducativa della pena, riflessioni sulla sua concreta applicabilità
“Errare è insito nella natura di tutti […] e non vi è legge che possa distoglierli da ciò. […] Bisogna dunque […] riconoscere che la povertà, che sotto lo stimolo della necessità rende temerari, ovvero la pienezza del benessere, che, per le suggestioni dell’insolenza e dell’orgoglio rende insaziabili, e così pure le altre circostanze, ovunque trionfi l’implacabile prepotenza di un impulso, spingono sotto l’impeto della passione gli uomini allo sbaraglio” (Tucidide, La guerra del Peloponneso).
Sin dall’antichità si è sentita l’esigenza di interrogarsi sulla finalità dell’applicazione di una pena nei confronti di tutti coloro che trasgredissero le norme poste a base di ciascun ordinamento giuridico rinvenendo, spesso, tale finalità nel perseguimento esclusivo della sola punizione del condannato.
La stessa analisi etimologica della parola “pena” rievoca una matrice che tende al riconoscimento di una funzione esclusivamente punitiva di quest’ultima: péna s. f. [lat. poena «castigo, molestia, sofferenza», dal gr. ποινή «ammenda, castigo»]. – 1. Punizione, castigo inflitti a chi ha commesso una colpa, ha causato un danno e sim. In partic.: a. Con riferimento alla giustizia umana, sanzione afflittiva…
Tale definizione sembra non sfiorare neppure trasversalmente la questione inerente la dignità del destinatario della sanzione nonché il rispetto e il riconoscimento dei suoi diritti umani, conquista questa cui si è pervenuti con il tempo e con defatiganti battaglie.
La dicotomia “rispetto dei diritti umani” e “funzione punitiva” della pena rientra in un tema di ampio respiro che abbraccia il rapporto tendenzialmente conflittuale intercorrente tra diritti dell’uomo e diritto penale, da intendersi quest’ultimo nella sua più ampia accezione e, dunque, comprendente sia il diritto penale sostanziale che il diritto processuale nonchè il diritto penitenziario.
“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, è così che uno dei più autorevoli philosophes illuministi, François – Marie Arouet, meglio conosciuto come Voltaire, il quale scrisse un Commento al libro “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria definito dallo stesso Voltaiere “grande amatore dell’umanità”, gettò le basi per una rivisitazione della funzione punitiva della pena meglio rielaborata nei successivi anni a venire.
Nelle riflessioni di Voltaire sono ravvisabili molteplici germi del pensiero umanitarista che caratterizzò il c.d. Secolo dei Lumi e che contribuì ad una rivisitazione in chiave umanista del trattamento sanzionatorio.
La pena, pertanto, consiste nella misura afflittiva irrogata coattivamente all’autore di un reato a seguito dell’accertamento giurisdizionale di tale illecito.
I caratteri principali della pena criminale nel nostro attuale ordinamento possono essere tratteggiati nei seguenti termini: – Prevalente funzione afflittiva o retributiva; – Di emenda; – Necessità di un procedimento di applicazione della pena che garantisca il diritto di difesa di chi vi è sottoposto; – Produzione automatica di ulteriori effetti penali (valutazione della personalità del reo, della sua pericolosità sociale) – Della proporzionalità della pena al fatto commesso.
L’art. 25, comma 1, della nostra carta costituzionale stabilisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge”, rimarcando l’intima correlazione tra i principi del “nullum crimen sine lege” e del “nulla pena sine lege”.
Ma, ad assumere importanza centrale, è il principio della personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27 della Carta fondamentale in virtù del quale l’entità di tale responsabilità penale deve essere sempre e comunque proporzionata alla colpevolezza del singolo, non potendo mai eccedere la misura corrispondente al grado di quest’ultima (Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Marinucci, Dolcini, Studi di diritto penale, 1991, 70).
L’irrogazione della pena non deve, dunque, smarrire la sua funzione risocializzante venendo avvertita dal condannato come ingiusta, sproporzionata e , pertanto, immeritata.
La proporzionalità della pena riceve copertura costituzionale dagli articoli 3 e 27 della Costituzione i quali, nello stabilire il trattamento diverso di situazioni diverse (art. 3 Cost.), impongono altresì di modellare la pena in modo tale che possa tendere al principio rieducativo producendone i suoi effetti.
L’Assemblea Costituente, con la stesura dell’art. 27 della Costituzione, ha posto l’assoluto divieto di trattamenti sanzionatori che vadano ad incidere negativamente su profili umani da ritenersi intangibili, in un’ottica garantista e democratica dei diritti inviolabili dell’uomo.
Recita l’articolo 27 della Costituzione “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” non potendo svolgere alcuna funzione risocializzante trattamenti che siano contrari a quest’ultimo.
In perfetta sintonia con il principio di umanizzazione della sanzione penale si pone lo stesso art. 27, comma terzo della Costituzione il quale dispone che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. A fronte di tale formulazione, però, è necessario che vigano dei principi agevolmente individuabili al fine di poter fornire a chi è chiamato ad applicare la pena dei validi parametri alla luce dei quali indirizzare l’opera di rieducazione del condannato.
La rieducazione, pertanto, deve costituire il perno centrale della sanzione da tenere nella dovuta considerazione sia in fase di cognizione che in fase di esecuzione.
La stessa Corte Costituzionale si è occupata dell’aspetto umanitario unitamente a quello del finalismo rieducativo e con riferimento a quest’ultimo ha sostenuto con sentenza 313/1990 che : “la necessità costituzionale che la pena debba tendere alla rieducazione, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica, invece, proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”.
La Corte ribadisce dunque che il fine primario della pena debba essere costituito dalla sua finalità rieducativa, finalità che deve necessariamente permeare sia la fase della cognizione che della esecuzione che, infine, della sorveglianza.
Si rende necessario, a questo punto, trattare, seppur brevemente, della portata contenutistica del termine “rieducazione”. Quest’ultimo, illuminato della concezione laica statale, deve tendere alla “risocializzazione” del condannato e non di certo alla sua “rimoralizzazione”.
La rieducazione non è un concetto assimilabile a quello di pentimento bensì alla capacità del condannato di potere correggere i propri comportamenti antisociali ed antigiuridici reinserendosi, seppur progressivamente, nella comunità sociale.
Ma è proprio sull’effettivo piano pratico di attuazione del principio de quo che ci si è trovati spesso e malvolentieri innanzi all’evidenza del suo fallimento.
Secondo l’analisi di alcuni dati statistici (Rapporto “Associazione Antigone” sugli istituti penitenziari) nel 2017 quasi la metà dei decessi avvenuti in carcere sono suicidi (52 su 123).
Gli atti di autolesionismo stimati risultano essere 9510, con picchi altissimi in alcuni istituti penitenziari.
Ma c’è altro: diminuiscono i reati e aumentano i detenuti.
Per esprimere un reale intento educativo, la pena dovrebbe essere commisurata alle effettive necessità educative del soggetto condannato, cosa infattibile sul piano pratico in quanto imporrebbe la necessità di lasciare indeterminati i minimi ed i massimi edittali di pena.
Inoltre, non si può non incorrere nella contraddittorietà di fondo che si rinviene nell’attribuire la funzione di reinserimento sociale allo strumento più antisociale per eccellenza, il carcere.
Pertanto, concludendo, non si può, ad oggi, non interrogarsi sulla reale portata del concetto riabilitativo della pena.
Nessuno, infatti, può correggere i propri vuoti morali con la sola severità della penitenza.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Avv. Carlotta Nicotera
Carlotta Nicotera dopo aver conseguito il diploma presso il Liceo Classico “Giulio Cesare” di Roma, si laurea presso l’Università degli Studi di Roma "La Sapienza" in Giurisprudenza, con una tesi in Diritto Penale avente ad oggetto “il coefficiente di colpevolezza nella responsabilità del concorrente anomalo”. Attualmente è iscritta come Avvocato Presso l’Ordine degli Avvocati di Roma.