Giudice dell’esecuzione e giudice dell’impugnazione: la sorte dei capi civili della sentenza alla luce dei d.lgs. 15 gennaio 2016, nn. 7 e 8
Nel disporre l’abrogazione di alcuni reati, il d.lgs. 7\16. ha previsto per alcune fattispecie di reato, depenalizzandole, la sola sanzione pecuniaria civile.
Tale previsione, in base alla normativa transitoria, si applica anche ai fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, salvo il caso in cui il procedimento sia stato definito con sentenza o decreto divenuti irrevocabili; l’abolitio criminis fa venir meno l’esistenza della norma penale, come stabilito dall’art. 2, comma 2, c.p. e dunque il giudice penale in qualunque fase e grado del giudizio avrà il dovere di concludere il procedimento pendente dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
A fronte di tale recente intervento normativo, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate in merito alla sorte dei capi della sentenza di condanna. Sul punto è possibile riscontrare due orientamenti contrapposti.
Un primo indirizzo interpretativo era favorevole al mantenimento del potere di decidere il ricorso agli effetti civili, in capo al giudice penale dell’impugnazione contro sentenza di condanna, sulla base di tre argomenti facendo leva in primo luogo sul testo dell’art 2 comma 2 c.p., disciplinante il fenomeno dell’abrogazione sopravvenuta a sentenza definitiva di condanna; in secondo luogo prendendo in considerazione la disposizione di cui all’art. 11 delle preleggi, che farebbe salvo il diritto acquisito dalla parte civile di di vedere esaminata la propria azione già incardinata nel processo penale; in terzo luogo, la si considerava l’esistenza di un analogo meccanismo procedurale emanato con il d.lgs. 8\16, dunque in contestualità, sostenendo a tal riguardo che la legge delega n. 67\14 avrebbe dato luogo con i decreti 7 ed 8 del 2016 a provvedimenti con una medesima ratio depenalizzante, dal momento che tra i reati oggetto del decreto di abrogazione e quelli oggetto del decreto di depenalizzazione, non vi sarebbe alcuna differenza ontologica.
Un secondo indirizzo interpretativo, si è formato sulla scorta della sentenza della Corte Costituzionale n. 12\16, volta ad affrontare i dubbi di legittimità costituzionale dell’art 538 c.p.p., nella parte in cui al primo comma, collega in via esclusiva alla condanna dell’imputato, la decisione sulla domanda della parte civile.
Esperire l’azione di risarcimento all’interno del processo penale da vita ad una soluzione profondamente diversa rispetto all’esercizio dell’azione civile in sede civile. In sede penale, infatti, tale azione assume un carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale e perciò destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale.
Ulteriore considerazione è quella che l’art. 9 del d.lgs. 8\16 comma terzo, che prevede in materia di depenalizzazione il potere da parte del giudice di pronunciarsi sui capi relativi alle statuizioni civili, non potrebbe trovare applicazione nella materia di cui al d.lgs 7\16, poiché caratterizzata da una ratio differente ed inoltre, il meccanismo processuale delineato da tale ultimo decreto, prevede che il giudice del risarcimento del danno sia lo stesso che irroga la sanzione pecuniaria civile, anche con riferimento ai fatti posti in essere prima dell’entrata in vigore dello stesso.
Le Sezioni Unite, nel comporre tale contrasto, hanno condiviso il secondo di tali orientamenti, partendo proprio dalla lettera della normativa, che lo ha generato. In particolare, manca, all’interno della disciplina transitoria di cui all’art 12, qualsiasi riferimento all’eventuale potere del giudice dell’impugnazione di decidere l’appello o il ricorso con riferimento ai capi inerenti statuizioni civili.
Inoltre , con le nuove disposizioni sono state introdotte sanzioni pecuniarie civili inedite in luogo delle pene previste per i reati abrogati e la previsione dell’applicazione di queste retroattivamente anche a fatti già commessi, determina il fatto che il potere di irrogarle sussiste in capo al giudice competente a conoscere dell’azione di risarcimento del danno, dunque del giudice civile.
E’ stato poi ricordata la regola generale del collegamento in via esclusiva della decisione sulla domanda della parte civile alla formale condanna dell’imputato, richiesta espressamente dall’ art 538 c.p.p.., ed affermato il principio di diritto per cui in caso di sentenza di condanna relativa da un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, è tenuto a revocare anche i capi della sentenza che riguardano gli interessi civili. Il giudice dell’esecuzione, viceversa, revoca con la stessa formula la sentenza di condanna od il decreto divenuti irrevocabili ma lascia ferme le disposizioni ed i capi riguardanti gli interessi civili.
Tale soluzione non appare in contrasto con il diritto di difesa che non rimarrà privo di tutela, mantenendosi intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno, in sede civile. Per quanto concerne il principio di ragionevole durata del processo, questo risulterebbe violato soltanto qualora le norme che si considerano comportino una dilatazione dei tempi processuali e non siano sorrette da alcuna logica esigenza.
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