Giudice ordinario e giudice amministrativo, le perplessità di una tutela bidirezionale

Giudice ordinario e giudice amministrativo, le perplessità di una tutela bidirezionale

Sommario: 1. L’assetto giurisdizionale nel diritto amministrativo – 2. Il giudice ordinario e l’interesse legittimo – 3. Considerazioni conclusive

 

1. L’assetto giurisdizionale nel diritto amministrativo

La tutela giurisdizionale dei privati – nella species – delle situazioni giuridiche soggettive che si sviluppano nella dialettica con le autorità pubbliche, è assoggettata ad una ratio che, in gergo a-tecnico, potremmo definire “double face”. Con questa espressione si fa riferimento alla sussistenza, benché in apparenza anomala, di due plessi giurisdizionali – quello ordinario e quello amministrativo – i quali, seppure con una divergenza di presupposti, sono entrambi idonei a dirimere le controversie tra i singoli e la P.A. La bipartizione, la quale si è radicata in virtù della legge del 1889[1], si giustifica in ossequio alla necessità di istituire una figura preposta alla tutela di quegli interessi che, ferma la loro  matrice sostanziale, non posseggono i tratti consustanziali dei tradizionali diritti soggettivi. Gli interessi legittimi, infatti, ai fini del loro concepimento, presuppongono l’intermediazione del potere pubblico. È logico, pertanto, aderire alla conclusione secondo cui, questi, non condividono e, si specifica, non possono condividere, quel sostrato giuridico da cui trae linfa la disciplina dei rapporti contemplati dal diritto civile.

L’Assemblea Costituente reputò, quale soluzione più congrua, quella di conservare la giurisdizione ordinaria nel caso in cui la P.A. si interfacci con un diritto soggettivo; attraendo, viceversa, la regolamentazione dei conflitti, partoriti laddove signoreggia il binomio potere-interesse legittimo, nell’orbita delle competenze del ga. Una regolamentazione ad hoc, accompagnata dalla predisposizione di un giudice ad hoc, anche nel panorama giuridico attuale, appare una scelta ragionevole.

Tale ricostruzione, in astratto lineare, in concreto, per plurime ragioni, pecca di incertezze. Un primo elemento di discrasia si evince ex art. 133 c.p.a. La norma, la quale è figlia dell’art. 103, comma 1, Cost.[2], menziona una serie di ipotesi in cui al ga viene attribuita la giurisdizione in tema di diritti soggettivi (g. esclusiva). Sebbene la Corte Costituzionale, con la celebre sentenza del 2004[3], nell’enunciare un monito al legislatore, abbia affermato che la deroga al precetto generale sia legittima solo laddove emerga un “inestricabile nodo gordiano” tra le due situazioni giuridiche (tale da impedirne una trattazione disgiunta), è facile intuire che, sul piano applicativo, i confini tendano ad opacizzarsi. Una ulteriore deviazione dal modello tradizionale è quella che si evince ai sensi dell’art. 134 c.p.a. Nelle ipotesi elencate dalla norma, infatti, il ga è eccezionalmente depositario di poteri che gli consentono di penetrare nel merito della controversia, i quali, anche per tradizione giuridica, dovrebbero esulare dal proprio spettro conoscitivo. Le valutazioni di opportunità, in quanto postulano un sindacato che concerne la discrezionalità “pura”, ovvero il quomodo del perseguimento dell’interesse pubblico, anche in virtù del principio della separazione dei poteri, rappresentano, di regola, il limite naturale della giurisdizione amministrativa.

La cesura diritto soggettivo-interesse legittimo, benché avallata dalla Costituzione, tende ad affievolirsi in considerazione della platea dei mezzi di cui oggi può avvalersi il ga. Spicca, ad esempio, la possibilità di nominare un consulente tecnico in sede istruttoria, di adottare misure cautelari atipiche ed, infine, di adottare pronunce che, lungi dal prendere atto della mera legittimità/illegittimità del provvedimento – quale prius logico dell’ eventuale annullamento del medesimo – si spingono sino ad enucleare statuizioni di condanna[4]. In altri termini, il fatto che il processo amministrativo si stia indirizzando lungo la scia tracciata dal principio di effettività, con conseguente rafforzamento della tutela dell’interesse legittimo, rischia di vanificarne la sua storica singolarità. Si specifica, tuttavia, che l’iter argomentativo che ha condotto allo svilimento della teoria della degradazione[5], la quale militava nel senso della sussistenza (originaria) del solo diritto soggettivo, ancora oggi esprime la validità della scissione concettuale ed ontologica tra le due situazioni giuridiche.

2. Il giudice ordinario e l’interesse legittimo

L’analisi svolta sino ad ora è tesa a porre in risalto la dinamicità che permea le maglie della giurisdizione amministrativa. Tuttavia, come affermato nell’incipit, anche il giudice ordinario può dialogare con le autorità pubbliche. A tal riguardo, per par condicio, è interessante chiedersi se sia possibile, in tale ambito, riscontrare altrettanta duttilità.

In primo luogo occorre affrontare il tema della possibile devoluzione, al go, degli interessi legittimi.

L’art 103 Cost., nell’enunciare che “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi”, non osta, in astratto, a tale conclusione. Seppure non vi sia alcuna norma che si esprima con altrettanta chiarezza, è plausibile sostenere la tesi affermativa se si osserva che, in realtà, questo magistrato non è estraneo alla trattazione di controversie implicanti valutazioni discrezionali e/o che coinvolgono soggetti collocati in posizioni non omogenee. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle questioni che concernono l’obbligo di ri-contrattare secondo buona fede che di recente stanno facendo breccia in giurisprudenza. Il giudice deve esaminare – in una prospettiva bifronte – sia il legittimo affidamento della parte che confida nella stabilità della pattuizione, sia la posizione della parte che, invece, si è trovata “spiazzata” a fronte dell’impatto generato da una sopravvenienza. Si potrebbe ipotizzare che il giudizio da ultimo evocato sia assimilabile a quello che si svolge in un contesto, la cui essenza è squisitamente di stampo pubblicistico[6], ove l’oggetto della controversia si consumi nel rapporto amministrativo (potere-interesse legittimo). A fortiori, si potrebbe sostenere una simile interpretazione con riferimento alle ipotesi, pacificamente devolute al go, in cui si discuta di vincoli contrattuali caratterizzati dalla presenza di un palese dislivello tra le controparti, ossia, verosimilmente, tra consumatore e professionista.

Gli argomenti ostativi ad una positiva equiparazione tra le predette operazioni giuridiche e quelle ove rilevi la trattazione degli interessi legittimi, possono così riassumersi: il sostrato pubblicistico dell’interesse perseguito dalla P.A. (il quale diverge da quello egoistico che alimenta le pretese dei singoli), la presumibile assenza di un vincolo obbligatorio e, più in generale, l’assenza, nel panorama civilistico, di poteri autoritativi, attesa la presunta parità delle parti (contraenti)[7].

Occorre, a questo punto, dedicare attenzione ad alcuni aspetti di rilievo processuale.

L’art 113, comma 3, Cost., laddove stabilisce che solo la fonte di rango primario “determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”, enuclea una riserva di legge. Giova rammentare, tuttavia, che tale disposizione, all’epoca della sua introduzione, si poneva in discontinuità con il trend legislativo e giurisprudenziale in atto. Invero, la legge del 1889 era stata emanata con il preciso (ed unico) intento di dotare il nuovo plesso giurisdizionale del potere di annullamento. Sulla medesima scia, peraltro, si collocano gli artt. 4 e 5 della legge n. 2248 del 1865 All. E. Queste, nel delimitare i poteri del go alla mera disapplicazione dell’atto amministrativo, dilatano, in maniera indirettamente proporzionale, le competenze del ga. Il discrimen, tuttavia, non attiene né ad una presunta “inabilità” del go in tema di interessi legittimi, né, tanto meno, esso trae leva dalla necessità di convalidare una sorta di “immunizzazione” della P.A. La ratio che si cela tra le toghe dei magistrati amministrativi, lungi dal ratificare la sussistenza di una giurisdizione meramente “attizia”, soddisfa l’esigenza di isolare la tutela di colui che, a cagione dell’esercizio dei pubblici poteri, asserisca di aver patito una lesione ingiusta. Pertanto, l’incompetenza del go in tema di interessi legittimi non deve essere percepita come una a-simmetria ordinamentale a suo sfavore; al contrario, essa scongiura il rischio che, in caso di inevitabile commistione tra le due situazioni giuridiche, il privato, nell’incertezza, adisca entrambe le autorità[8].

Da un punto di vista dogmatico, quindi, l’emanazione di una norma primaria (o di un atto avente forza di legge) che attribuisca, in capo al go, il potere di annullare gli atti della P.A., deve ritenersi conforme all’art. 113, comma 3, Cost. Quest’ultimo, infatti, mediante il ricorso ad un criterio formale, affida al Parlamento il compito di individuare l’organo competente alla rimozione ex tunc dei provvedimenti de quo. Rilievi di ordine cronologico, tuttavia, si oppongono a conclusioni semplicistiche. La Costituzione, la quale risale al 1948, è antecedente sia alla L. n. 5592 del 1989, sia alla L. n. 2248 del 1865; dunque si presume che, queste ultime, abbiano tratteggiato le sembianze della nostra tradizione giuridica. Pertanto, ferma la validità del dato costituzionale, si ritiene che, ancora oggi, salve eccezioni, il giudice geneticamente munito del potere in esame sia quello amministrativo.

Preme puntualizzare che, a ben vedere, non vi è un eccessivo ampliamento della cinta delle prerogative attribuite al ga.  L’art. 111, comma 8, Cost., nell’affermare la competenza della Corte di Cassazione in sede di ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato, rectius, in ultima istanza, assesta l’ago della bilancia in una posizione intermedia tra i due plessi.

Sicché, è plausibile avallare la tesi secondo cui, a discapito delle apparenze, la complessiva articolazione del sistema giurisdizionale, la quale si adagia tra il go ed il ga, sia allineata lungo i binari dell’equità.

3. Considerazioni conclusive

La maggiore interferenza del ga, in relazione agli aspetti più intimi dell’operato della P.A.[9], viene compensata, in fase ultima, da una innegabile torsione a favore del go. La proporzione, tuttavia, tende a vacillare se si considerano gli scarsi margini di intervento, ossia quelli relativi alle questioni meramente giurisdizionali, che l’ordinamento riserva alla Suprema Corte.

 

 

 

 

 


[1] Legge 31 marzo 1889, n. 5592, istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato.
[2]Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione… in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”, cfr. art 7 c.p.a.
[3] Corte Cost., 6 luglio 2004, n. 204. In questa sede la Corte ha negato che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si ispiri alla logica del criterio oggettivo, ossia “per blocchi di materie”. La Consulta, quindi, ha confermato, ai fini del riparto giurisdizionale,  la validità del discrimen diritto soggettivo/interesse legittimo.
[4] Oppure, al contrario, si limitano al mero accertamento di una determinata situazione giuridica.
[5] I sostenitori di questa teoria negano l’autonomia dell’interesse legittimo. In particolare, si sostiene che questo sia un diritto soggettivo “degradato” in ragione dell’esercizio del potere pubblico. Si tratta di una tesi che si scontra con il dato costituzionale (artt. 24 e 103 Cost.) e che, in passato, aveva il merito di garantire la risarcibilità dell’interesse legittimo oppositivo a fronte del venir meno dell’atto pregiudizievole. Un’esigenza, questa, che oggi viene soddisfatta in ragione della generale risarcibilità degli interessi legittimi.
[6] Qualora vi sia una giurisdizione estesa al merito.
[7] Una tesi sostiene che, in realtà, sussistano alcune ipotesi di giurisdizione esclusiva del go. L’orientamento trae linfa dal testo dell’art. 63, comma 1, d.lgs. 165/2001, il quale è così formulatoSono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l’assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale….” La norma devolve al go le controversie in tema di conferimento e di revoca degli incarichi dirigenziali. Tali atti, tuttavia, postulano l’espletamento di una scelta discrezionale; pertanto si presume che l’esercizio del relativo potere dialoghi con l’interesse legittimo. Si precisa che, in giurisprudenza, è prevalso l’indirizzo secondo cui, questi (in particolare il conferimento), rappresentino meri atti di gestione della P.A. Viene elusa, dunque, la possibilità che l’autorità de quo possa conoscere, in via generale, degli interessi legittimi.
[8] Il rischio viene scongiurato in forza dell’art. 133 c.p.a. Esso prevede che, nel caso in cui la controversia rientri tra quelle elencate dalla norma, debba essere adito il solo giudice amministrativo.
[9] Tale interferenza, nel tempo, ha acquisito una maggiore vivacità. Si ritiene, infatti, che il ga, anche nei casi che esulino dal perimetro tracciato ex art 134 c.p.a., emetta pronunce che non si limitano al mero raffronto di legittimità o meno dell’atto impugnato. Si sostiene, pertanto, che sia in atto un fenomeno di abrogazione tacita dell’art. 134 c.p.a.

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