Giuseppe Cerbone, protonotario apostolico di Afragola
a cura di Andrea Romano
La volontà di tramandare ai posteri il ricordo degli uomini illustri e delle loro azioni trova la sua più intima ragione nella stessa natura umana, che, anche se appare il più strano miscuglio di grandezza e di miseria, trova la sua pienezza soltanto quando vola in alto nel cielo della speranza, dove partigianeria, invidia e cattiveria a malapena si intravedono.
Sono convinto che, se fosse in nostro potere il dimenticare quanto il tacere, la storia umana sarebbe quasi per intera sepolta del tutto, ma la coscienza del bene e del giusto non conosce dimenticanze e porta l’uomo ad un costante recupero della memoria che sembrava perduta.
Nessuna altra ragione se non il desiderio di apprendere il bene, mi porta da qualche tempo, giunto alla soglia della vecchiaia, a scrivere degli uomini che hanno reso onore al mio paese, non bello, non grande, ma il “mio paese”.
Eloquente, infaticabile nell’attività di predicatore, non meno versato nella ricerca storica che nello studio delle scienze teologiche, Giuseppe Cerbone nacque ad Afragola il 10 luglio 1641 da Giovanni e Maria Maielli, probabilmente nel vicolo che ancora oggi viene chiamato vicolo Cerbone, a testimonianza certa del prestigio acquisito con il trascorrere degli anni da una delle famiglie più vetuste e benemerite di Afragola, il cui ramo originario andò del tutto disperso nella prima metà del XIX secolo.
Gaetano Capasso, autore di numerosi testi sulla storia di Afragola, afferma che il Cerbone vide la luce il 6 gennaio e che fu battezzato nella chiesa di S. Marco.
Per quanto ci riguarda, siamo portati a dare poco credito allo studioso di Cardito, non per amore di campanile verso il Castaldi, dal quale abbiamo attinto la data di nascita, quanto piuttosto perché le nostre ricerche ci hanno diverse volte portato a toccare con mano la scarsa veridicità dei documenti citati dal Capasso, che in questo suo “modus operandi” appare un vero caposcuola.
La data di nascita riportata dal Castaldi non può essere messa in discussione da un dato di fatto: il Cerbone scrisse un libro di memorie, oggi perduto, ma letto da cima a fondo dall’autore delle “Memorie storiche del Comune di Afragola”.
Nel commentare questo testo, mai dato alle stampe, il Castaldi, tra l’altro, scrisse: <<Questo libro dell’arciprete Cerbone, che contiene notizie riguardanti la sua famiglia, e qualche memoria dei tempi in cui visse, mi è stato gentilmente comunicato da Pompeo Cerbone, sacerdote di ottimi costumi, assai istruito, ed ultimo di questo ramo della famiglia Cerbone>>.
Verrebbe voglia di scrivere “ipse dixit”, considerata la gran mole di scritti che da qualche tempo sta invadendo il campo della storiografia locale, non sempre attenta e critica.
Basterà, tuttavia, una semplice battuta. Rasenterebbe la follia chi credesse che in questo libro di memorie, il Cerbone non abbia parlato di se stesso, della sua nascita e dei principali avvenimenti della sua vita.
Ora, chi esiste a questo mondo che, parlando di sé, cambi il giorno della sua nascita, senza alcuna motivazione fortemente favorevole ai suoi interessi?
Perché, se fosse vero quanto scritto dal Capasso, il Cerbone avrebbe dovuto falsificare la propria data di nascita?
Ho già discusso troppo su quest’argomento ed altro non mi è lecito dire, per amore di pace e di concordia, ma anche per non infastidire oltre il lecito chi per avventura dovesse imbattersi in queste pagine.
Fu il Cerbone ordinato sacerdote il 12 gennaio 1661, con tredici mesi di dispensa apostolica, in considerazione dei suoi alti meriti di animo e di mente, dopo aver conseguito <<una lusinghiera laurea con pienezza di voti>>, come scrisse il canonico Vincenzo Marseglia nei suoi “Cenni storici sulla parrocchia di S. Giorgio martire“.
Il 19 aprile 1703, dopo aver vinto un regolare concorso, divenne parroco della chiesa di S. Giorgio, di quella stessa chiesa, cioè, dove probabilmente era anche stato battezzato, succedendo nell’incarico a don Alessio Castaldi.
Durò nell’ufficio di parroco di questa chiesa appena tre anni, a causa della morte, avvenuta al tramonto del 2 gennaio 1706.
La sua tomba fu posta nella cappella della Cena, la terza a sinistra, chiamata un tempo S. Maria della Purità.
L’ingratitudine degli afragolesi, non nuovi in quest’arte che ancora oggi li rende famosi, ha fatto sì che delle sue spoglie mortali si sia persa quasi del tutto anche la memoria.
Ebbe il Cerbone il titolo di arciprete e, con bolla papale, fu nominato protonotario apostolico “ad instar partecipantium”, cioè, a vita, secondo le regole del diritto canonico di quel tempo.
Il suo impegno nell’apostolato fu davvero versatile e generoso in ogni istante della sua vita, compensato unicamente dalla coscienza di agire con giustizia e rettitudine, valori che gli derivavano in parte dalla natura, in parte da una solida educazione familiare e religiosa.
Per venire incontro alla gioventù del paese natìo, a diciannove anni, non ancora sacerdote, grazie al sostegno economico dei genitori, ambedue benestanti, inaugurò la prima scuola privata di cui si ha memoria nei paesi a nord di Napoli.
Grazie ad essa, una folta schiera di giovani afragolesi fu erudita nello studio delle Lettere e della Filosofia.
La scuola fu chiusa nel 1670, a causa dei molti impegni del Cerbone e forse anche per la non taciuta ostilità dei francescani e dei domenicani di Afragola, da tempo dediti alla stessa attività, ma non senza compenso.
Un luogo comune tramandato dalla storia dice che ogni uomo, durante l’arco della propria vita, ha il suo momento di gloria.
Il Cerbone, da buon cristiano e da servo privilegiato del Signore, in quanto sacerdote, non cercava la gloria terrena, ma il 1678 fu indubbiamente per lui un anno particolare, un anno che lo vedrà, giorno dopo giorno, artefice non secondario nel campo dell’indagine storica, archeologica, letteraria ed etnografica, con le dovute limitazioni di quest’ultimo termine, dovute non alla pochezza dell’ingegno, ma alla scarsa attenzione che la cultura del tempo decretava ad una materia che in realtà non era ancora nata.
<<La famiglia Granato>>, scrive il già citato Giuseppe Castaldi, <<godeva il padronato di un beneficio sotto il titolo di S. Francesco d’Assisi, eretto nell’altare maggiore di Calvi. Essendo vacato questo beneficio, fu nominato dalla famiglia padrona il Cerbone>>.
Nell’antica Cales, un tempo la più importante città degli Ausoni, divenuto teologo di fiducia del vescovo Vincenzo de Silva ed esaminatore sinodale della diocesi, carica che gli venne conferita in quanto protonotario, il Cerbone, già da tempo famoso per la sua eloquenza “attica”, semplice, immediata e capace di arrivare direttamente al cuore dell’ascoltatore, conobbe una fortunata ed intensa stagione storica e letteraria.
Sappiamo già dal Castaldi che il nostro autore non era del tutto nuovo all’uso della scrittura, anche se, forse per un naturale pudore, non aveva mai dato alle stampe le sue “Memorie“.
Il Capasso, degno emulo degli “irregolari” del Cinquecento italiano, afferma senza alcuna esitazione di aver letto il libro del Cerbone e non esita, a dimostrazione, a citarne anche un brano, ma dimentica di aver detto in precedenza che il libro era già andato perduto e dimentica, in particolar modo, che non di un libro si tratta, ma di un manoscritto del quale si era persa definitivamente ogni traccia con la morte di Pompeo Cerbone.
Ma lasciamo da parte la serie del dico e del non dico e proseguiamo nel tentativo di ricostruire il cammino di un autore che deve essere recuperato alla conoscenza storica in particolare, ma alla cultura, se ancora in questi tempi prezzolati la parola in questione ha conservato una sua valenza.
Il Cerbone, dunque, nella città di Calvi, dove si soffermò per circa un quinquennio, si cimentò con successo nell’indagine storica ed archeologica, conferendo a queste discipline uno sguardo d’assieme ignoto alla cultura europea del XVII secolo: storia, usi, costumi, tradizioni, lingua e religione trovarono nella metodologia del Cerbone una totale ed organica fusione, non priva di felici intuizioni, capaci di solleticare l’ingegno del lettore anche più smaliziato.
La sua prima opera, però, fu a carattere teologico e pastorale.
Nel 1681, infatti, scrisse il “Manuale degli esercizi pratici dei sacerdoti assistenti ai moribondi“, testo che fu apprezzato moltissimo da S. Alfonso dei Liguori, dottore della Chiesa e mente versatile e geniale, di rara potenza speculativa ed espressiva.
Con linguaggio semplice ed accorato, ricco di umana sensibilità, il Cerbone, dopo essersi soffermato sul mistero salvifico del dolore e della morte, dimostra (ma forse il verbo da noi usato non è del tutto appropriato) che volgere il dolore e il pianto in serena accettazione è l’insegnamento al quale i sacerdoti devono particolarmente il loro impegno nell’uso della pastorale, non soltanto attraverso la parola, ma attraverso una compartecipazione verso la sofferenza e la morte.
La sensibilità che emerge dal testo, e che presenta un periodare popolare ed accorato, a tratti vibrante e leggermente oratorio; la capacità di scendere nel profondo dell’animo umano e di cogliere l’alternarsi dei sentimenti che agitano il cuore dell’uomo di fronte all’estremo passo della vita che sfugge; le tematiche teologiche trattate, e che sembrano anticipare certe aperture che saranno del Vaticano II: furono questi, a mio modesto parere, i motivi che resero caro a S. Alfonso il libro del Cerbone, libro che meriterebbe una più ampia lettura e che non dovrebbe giacere, polveroso e dimenticato, nelle biblioteche di conventi e monasteri.
Due anni più tardi, nel 1663, su esplicito incarico del vescovo de Silva, il Cerbone scrisse il “De cultu antiquo et recenti sanctorum martirum Casti, episcopi calvensis, et Cassii, episcopi sinuensis“.
Nel trattare l’argomento, di natura agiografica ed edificativa, egli, contrariamente all’incipit di analoghi testi del secolo, prese l’avvio da una ricerca archeologica, portata avanti con acume e con la tecnica della scrittura a mosaico.
Senza dilungarci molto, si deve alla storico afragolese la dimostrazione e la scoperta che la cattedrale di Calvi era sorta su un’antica basilica cimiteriale, ad una sola navata e volta a settentrione, come quasi tutti gli edifici sacri del tempo; al Cerbone, inoltre, si deve anche la scoperta di una cattedra vescovile, esistente nel duomo fino alla fine del XVII secolo, al di sopra della quale c’era anche l’immagine di S. Casto con relativa iscrizione.
Rifacendosi al “Proprium sanctorum” dell’antichissima città di Calvi, l’opera del Cerbone, scritta in un latino ecclesiastico poco avvolgente, si fa comunque apprezzare, e non poco, per l’indagine storica, per le intuizioni archeologiche e per la credibilità dei fatti narrati, mai disgiunti dalla logica e per nulla inclini a cedere al gusto sensazionalistico del 1600, che era proprio dell’agiografia del secolo (recentemente uno studioso afragolese di storia locale ha creduto di ravvisare nel cognome Bocrene l’anagramma del nostro autore: tale identificazione ci lascia molto perplessi, sia perché la “Relatione historica” del Bocrene appare, ad una analisi linguistica , del tutto estranea al procedere formale del Cerbone, sia perché molto difforme appare l’intento agiografico, sia perché la metodologia ci porta all’evidenza di due diversissimi modi di intendere la storia).
La lunga digressione si è resa necessaria e chi vuol comprendere comprenda: non uccidiamo i morti: ricostruiamo la loro storia, impariamo dalle loro opere, ma non confondiamo il loro volto, per l’insano gusto del sensazionale a tutti i costi.
I morti, come i vivi, vanno rispettati.
Nel 1685, in lingua italiana, il Cerbone riscrisse praticamente il “De cultu…“, dando al testo quella eleganza formale, sobria e misurata, ignota al testo latino: il curriculum espositivo, lo ripetiamo, è lontano anni luce dalla “Relatione historica” e rende superfluo ogni altro commento.
Facciamo un passo indietro, per riferire, particolare ignorato da tutti coloro che hanno scritto su Giuseppe Cerbone, che nella edizione in lingua italiana del “De cultu…” il Cerbone, tra le tante notizie a carattere storico, arricchì la narrazione con l’elenco meticoloso di tutti i vescovi della cattedrale di Calvi, da S. Casto a Capece Zurlo, riprendendo ed integrando vecchi codici ora smarriti, secondo l’autorevole testimonianza del Monsignore Felice Leonardo, vescovo in quiescenza ed ex ordinario diocesano di Cerreto Sannita e di S. Agata dei Goti.
L’alto prelato, è bene precisarlo, fece propria la testimonianza che per primo fece il Capece Zurlo, testimone oculare di quanto stiamo asserendo.
L’elenco del Cerbone presenta, per così dire, una scheda caratteriale di ciascun vescovo, cosa che consentì al genio pittorico di Angelo Mozzillo, del quale abbiamo diffusamente scritto in altri lavori, di poter rappresentare, seppure grazie ad una indiscussa creatività pittorica, uno dei complessi artistici più rappresentativi della pittura italiana nell’ambito della ritrattistica.
Nel 1686 il Cerbone tornò nella sua Afragola ed il 3 giugno di quello stesso anno, ancora una volta con bolla papale, fu nominato arciprete.
Secondo l’ordinamento diocesano del tempo, in seguito a quest’incarico, dovette risiedere nella Chiesa di S. Maria d’Aiello.
Nel nuovo incarico si dimostrò paterno ed accorto, dovendo amministrare le chiese di Afragola, Casoria, S. Pietro a Patierno, Arzano, Casalnuovo e una parte dell’attuale Secondigliano.
La conoscenza che il Cerbone ebbe delle scienze teologiche, il cui studio richiede una vastità di sapere ignoto anche agli studiosi “di professione”, la poliedrica versatilità culturale, l’intelligente ed innovativa metodologia di ricerca storica ed archeologica, molto apprezzata anche dal Giustiniani, la capacità di saper fondere armonicamente le varie discipline, fanno del Cerbone un autore moderno a novanta gradi.
La resa formale delle sue opere, è vero, non si fa particolarmente apprezzare per la fluidità del periodare e per varietà di stile, ma il suo modo di interpretare la cultura anticipa e –per tanti aspetti- supera le intuizioni della scuola storicistica napoletana dei Vico.
Tra i dimenticati dalla storia “ufficiale”, Giuseppe Cerbone ha di diritto un posto di primo piano.
Il silenzio sull’importanza della sua opera si deve principalmente al dichiarato anticlericalismo illuminista prima, e alla lezione crociana dopo, non meno tenera nei toni e nel disprezzo sistematico di tutto ciò che non rientrava nei canoni di un laicismo becero quanto insignificante.
Il Cerbone, come già detto, morì il 2 gennaio 1706.
<<Al mattino ricevette il Viatico dalle mani di don Vincenzo Granato, parroco di San Marco, e al tramonto di quello stesso giorno morì, assistito da padre Alberto, priore del convento dei domenicani>> (Cfr. Vincenzo Marseglia, op. cit.).
Diverse opere del Cerbone, tutte inedite, furono, secondo il Castaldi, pubblicate a nome del Giustiniani.
Relata refero, non avendo elementi né di smentita né di convalida.
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Andrea Romano
Laureato in Lettere classiche, fondatore del disciolto gruppo archeologico di Afragola, Andrea Romano è autore di numerose pubblicazioni a carattere storico, artistico e letterario. Le sue competenze in campo archeologico l’hanno portato a scoprire numerose necropoli e ad individuare l’ubicazione dell’acquedotto augusteo in Afragola, suo paese d’origine. Prossimo alla pensione, attualmente è docente di religione presso la Scuola Secondaria di primo grado “Angelo Mozzillo”, pittore del quale ha scritto l’unica biografia esistente, dopo aver raccolto e analizzato quasi tutte le tele dell’artista afragolese, prima quasi del tutto ignorato. Ricercatore instancabile, ha portato alla luce un manoscritto inedito di Johannes Jørgensen, di prossima pubblicazione.
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