Giustizia riparativa: il “volto” della vittima e il dialogo con il reo
Il tema della tutela della vittima del reato, nell’ambito della dottrina penalistica sia sostanziale che processuale, è stato oggetto di una rivalutazione solo relativamente recente.
Infatti, con la trasformazione stato-centrica del diritto penale, la persona offesa è stata marginalizzata ed è stato lo Stato a prendere il suo posto nella scena processuale, monopolizzando i suoi interessi.
Parte della dottrina sostiene che contrariamente a ciò che fa credere la retorica giustificativa della giustizia riparativa, allorquando associa la necessità di ristabilire la soggettività della vittima nel processo penale, alla critica rivolta al diritto penale dello stato assistenziale e al suo essere orientato prevalentemente al reo, la vittima costituirebbe già da lungo tempo il punto di orientamento decisivo del diritto penale.
Tradizionalmente si dice che la giustizia riparativa focalizzerebbe l’attenzione sulle vittime individuali, e soprattutto, sulle vittime dei classici reati di violenza interpersonale e dei reati contro la proprietà, il processo penale attuale invece, guarda alle vittime potenziali e l’intenzione dello stato è quella di razionalizzare il rapporto reo-vittima, sottraendo loro il diritto all’esercizio della violenza.
In realtà, come è stato efficacemente affermato il controllo assoluto della giustizia da parte dello Stato si è spinto ben oltre, con conseguenze negative sul fronte della fiducia delle persone offese che è risulta in sostanza «la grande dimenticata» del problema penale.
Il limite del tradizionale processo penale sarebbe rispondere al bisogno della vittima esclusivamente con il quantum della pena, senza interrogarsi su ciò di cui la persona offesa avrebbe davvero bisogno: ossia superare il trauma. In sostanza, il limite essenziale del procedimento penale sarebbe il suo rispondere più ad un desiderio di vendetta che di giustizia.
Il primo apporto positivo della giustizia riparativa, in quest’ottica, quindi, consiste proprio nel maggior soddisfacimento che la vittima ottiene dalla riparazione, rispetto alle tradizionali forme di giustizia.Si parte dal considerare il bisogno della vittima di fare chiarezza su ciò che è accaduto: «si offre alla persona offesa la possibilità che venga detto che quanto è accaduto non doveva accedere, e di dirlo addirittura insieme all’autore del reato».
La maggior soddisfazione della vittima deriva dall’ottenere la riparazione dei danni che il reato le ha inferto e dal percepire un risultato effettivo dal procedimento riparativo svolto.
Solitamente il risultato della mediazione rappresenta un valore più simbolico che materiale, questo viene percepito favorevolmente da chi ha subito un’offesa ingiusta. Con l’instaurazione di pratiche relazionali e comunicative, inoltre, la vittima trova risposta a molti dei suoi interrogativi più comuni come ad esempio: Perché? Perché proprio a me?Una consapevole accettazione della violenza subita influisce positivamente sulla capacità della vittima di superare le conseguenze psicologiche. È noto, infatti, come il reato possa comunemente creare sintomi post-traumatici da stress, che comportano un’intrusiva e persistente riproposizione del trauma e dell’esperienza negativa vissuta.
Molte ricerche hanno valutato l’incidenza delle pratiche riparative sotto un profilo strettamente psicologico e sono giunti a sostenere che gli strumenti riparativi sono in grado di incidere positivamente sulla cura di questi sintomi, diminuendo la frequenza di disturbi da stress o reazioni di rabbia e paura molto più di quanto faccia la consapevolezza della privata libertà del reo che deriva dall’irrogazione della pena detentiva.
Le vittime che partecipano ai percorsi riparativi, inoltre, percepiscono maggiormente il senso di giustizia, poiché apprezzano il valore degli incontri e avvertono più giusta la sanzione.
Ne consegue, che dal delitto riparato ad uscire rafforzato sarà il senso di fiducia nelle istituzioni giudiziarie.Sebbene la vittima ha diritto ad una riparazione del danno, non si può però, negare che nel processo sussiste innegabilmente un interesse pubblico alla risoluzione del conflitto, che non può portare a risolvere ogni questione come privata.
È già accaduto che la giustizia riparativa ceda a rischi di vittimizzazione secondaria, in cui l’aggressore nega la propria responsabilità provocando l’ennesima frustrazione e delusione in capo alle vittime.
Quando si verificano ipotesi di ri-vittimizzazione è molto facile rintracciare la causa che solitamente nasce da un’inadeguata preparazione degli incontri o accade allorché le vittime vengono indotte a partecipare agli incontri prima di esserne pronte.
Di solito i rischi si potrebbero evitare rispettando le condizioni per accedere alla procedura, prima tra tutti il consenso della vittima e del reo e soprattutto impiegare mediatori che abbiano una preparazione adeguata a poter gestire il conflitto.
La ricerca del dialogo e dell’incontro tra autore e vittima sono i punti focali della giustizia riparativa. Se per la vittima abbiamo analizzato i risvolti positivi delle pratiche di mediazione, non si può negare che quest’ultime appaiono congeniali anche alla prospettiva del reo nel realizzare finalità risocializzative.
Con la retribuzione e la prevenzione generale si è assistiti all’«abbandono del reo alle soglie del carcere» mentre con la prevenzione speciale si è garantito la neutralizzazione dell’autore del reo attraverso «l’ammaestramento» fondato sull’inflizione del male o attraverso pratiche di «medicalizzazione del soggetto».
Quello che è il comune concetto di risocializzazione si basa sul binomio lavoro-istruzione, in cui attraverso l’applicazione coercitiva della “cura”, dovrebbe favorire il recupero del reo.
Nella mediazione si giunge, invece, ad un’evoluzione dell’idea di risocializzazione che progressivamente mostra di volersi sganciare da metodi e tecniche, di superare la logica coercitiva del trattamento, per diventare un percorso «assistito» che si aspira ad una logica di «inclusione» della persona, autrice del reato.
La proposta di una nuova ermeneutica della «risocializzazione» si fonda su un sistema di terapie comportamentali che tendono a favorire il cambiamento del reo, iniziando dal momento di presa di coscienza di ciò che è avvenuto, delle conseguenze dannose e della sofferenza che ha provocato In questo contesto un ruolo fondamentale è svolto dal sentimento della vergogna ed in particolare della teoria della vergogna reintegrativa; ciò dimostra come le pratiche di giustizia riparativa siano più efficaci dei procedimenti penali classici, dal momento che mettono al centro dell’analisi non la persona invece dell’avvenuto e dal momento che il reo non si sentirà né biasimato da figure che non rispetta come il giudice, la polizia e le istituzioni in generale e né etichettato come “soggetto sgradito”; simile forme di stigmatizzazione –che comunemente derivano dal procedimento penale e dalla condanna –spesso generano reazioni di sfida verso l’ordinamento.Con l’applicazione del paradigma riparativo, riportano invece, nel momento dell’incontro e durante lo svolgimento del dialogo, di fronte alla presenza della persona offesa e, in alcuni casi, dei suoi familiari, l’autore del reato percepisce il senso di vergogna che provano nei suoi confronti.In questo caso la vergogna non verrà percepita come elemento stigmatizzante, che separa ed esclude, bensì come condizione reintegrativa, capace quindi di smuovere nel reo una critica rielaborazione di ciò che è avvenuto.Dal punto di vista del reo, le pratiche ristorative hanno quindi, il comune intento di trovare la strada per aiutarlo a compiere una sorta di percorso introspettivo al fine di comprendere il male che ha provocato nella vittima e cercare di ridurre il rischio di recidiva.Invero, gli effetti positivi sull’autore del reato sono prettamente di tipo psicologico e generalmente, portano ad un suo concreto cambiamento al termine della pratica.
I benefici conseguenziali all’empatia e alle emozioni vissute nel percorso insieme all’utilizzo di un linguaggio più comprensibile rispetto al tecnicismo delle aule di giustizia, tendono a far percepire la giustizia riparativa come più giusta, veicolando il conflitto in una dimensione costruttiva e stimolando fattori di contenimento della devianza che influiscono sull’abbassamento dei tassi di recidiva.
Sarebbe inappropriato però sostenere che la riduzione della recidiva sia uno scopo primario della giustizia riparativa, poiché finirebbe per trascurare l’aspetto principale che riguarda la riparazione della vittima.Lo studio condotto si limita quindi a riportarla come un effetto secondario, certamente positivo – nell’ottica del reo e della collettività e compatibile con gli ideali riparativi Non mancano, tuttavia, dubbi inerenti ai rischi di strumentalizzazione da parte del reo di attivazione della mediazione o di altri strumenti di giustizia riparativa al solo scopo di evitare trattamenti più severi.
All’obiezione posta si potrebbe rispondere che a fronte di una tradizionale risposta punitiva, che resta per lo più inefficace, varrebbe comunque la pena provare una nuova strada.
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Piera Strabello
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