Gli avvocati possono esercitare il diritto di ritenzione?
Una fattispecie ritentiva di rilievo nell’ordinamento italiano è disciplinata all’art. 2235 c.c.[1], il quale specifica che al professionista d’opera intellettuale[2] non venga riconosciuta la facoltà di ritenere le cose e i documenti ricevuti dal cliente ai fini dell’incarico, se non per il periodo strettamente necessario alla tutela dei propri diritti, secondo quanto disposto dalle leggi professionali. In altre parole, la norma sembra porre un divieto al prestatore d’opera professionale di trattenere le cose e i documenti ricevuti dal cliente quale strumento di garanzia per l’adempimento dell’obbligo di corresponsione del compenso.
La ratio di tale divieto è palesemente da rinvenirsi nel dovere di correttezza cui il professionista deve conformarsi attraverso la restituzione immediata dei documenti relativi alle liti, i quali possono essere trattenuti solo al fine di costituire una eventuale prova richiesta dal giudice o da depositare presso il Consiglio dell’Ordine per ottenere la liquidazione del compenso.
Difatti, qualora il professionista violasse l’obbligo a suo carico di restituire le cose e i documenti ricevuti al termine della prestazione lavorativa, in termine tempestivo, potrebbe configurare il reato di appropriazione indebita (ex art. 646 c.p.).
Da quanto detto, parrebbe non trattarsi di un’ipotesi di vero e proprio diritto di ritenzione, giacché manchi la connessione tra il debito e la cosa.
In particolar modo, per quanto riguarda il professionista forense, l’articolo 66, comma uno, del decreto legge del 27 novembre 1933, numero 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore) – ripreso anche dall’articolo 33 del Codice deontologico forense- stabilisce in maniera chiara che gli avvocati e i procuratori non abbiano il potere di trattenere gli atti della causa e scritture consegnategli dai clienti quale conseguenza per il mancato pagamento degli onorari e dei diritti loro dovuti o per il mancato rimborso delle spese da essi anticipate.
Spetterà eventualmente al Consiglio dell’Ordine, qualora vi sia un reclamo da parte dell’interessato, adoperarsi per comporre amichevolmente la controversia, o, in caso negativo, accertare le spese e procedere alla liquidazione degli onorari nel più breve tempo possibile, durante il quale il cliente non può ritirare gli atti della causa. Qualora vi siano casi di urgenza, il Presidente del Consiglio dell’Ordine può adottare tutti i provvedimenti idonei a conciliare rispettivi legittimi interessi.
Deroga al divieto di ritenzione per i professionisti forensi: Cass., sent. n. 3033/2011
Alla luce di quanto ut supra affermato, la normativa sembra asserire chiaramente che l’avvocato non possa negare la restituzione dei documenti giustificando tale comportamento quale conseguenza del mancato pagamento del compenso dovuto o del disatteso rimborso delle spese anticipata dal legale, in nome e per conto del proprio assistito. Nondimeno, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che è «legittimo per l’avvocato trattenere i documenti personali del cliente al fine di riscuotere la parcella» nella sent. 08.11.2011, n. 3033.
Il supremo collegio ha, nel dettaglio, respinto il ricorso proposto avverso il Garante per la protezione della privacy, con cui un soggetto riteneva di aver subito una lesione del proprio diritto alla riservatezza da parte di un avvocato che lo rappresentava, giacché questi tratteneva presso di sé, anche dopo la revoca del mandato, copia dei documenti contenenti dati personali e sensibili del cliente forniteglieli in precedenza. Il Collegio, in via preliminare, facendo riferimento alle considerazioni effettuate qualche tempo prima dalla Corte d’Appello, ha ritenuto che la denunciata violazione debba ritenersi insussistente in virtù del fatto che l’avvocato ha posto in essere tale comportamento legittimamente in ragione del mancato pagamento da parte del cliente degli onorari professionali a lui dovuti, e non perché sussistente un diritto di ritenzione dei documenti generalizzato. In altri termini, la Corte ha sostenuto che il professionista forense ha il potere di trattenere nella propria disponibilità i documenti forniti dal cliente se ciò è reso necessario al fine di ottenere la liquidazione della parcella.
La sentenza consente di chiarire alcuni punti circa la disciplina dettata in materia di privacy, che, per espressa disposizione di legge, può in alcuni casi essere derogata. L’art. 24, comma 1, lett. f) del D. lgs. N. 196/2003 (cd. Codice della privacy) prevede, invero, che i dati personali e sensibili di un soggetto possono essere utilizzati per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, a condizione che i dati siano trattati meramente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. Alla luce della disciplina in materia di privacy, pare evidente che il caso citato rientri perfettamente in questa previsione- precisando che il succitato art. 24 deve ritenersi prevalente.
Ulteriore conferma circa la possibilità di conservare i dati personali a fini processuali può riscontrarsi nel Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali eseguiti al fine di eseguire investigazioni difensive, adottato con provvedimento del garante per la privacy in attuazione dell’art. 12 del Decreto legislativo citato, cui si riconosce efficacia normativa e che prevede all’art. 4 la possibilità di conservare atti e documenti in originale o in copia anche una volta ultimato l’incarico per gli avvocati «ove necessario in relazione ad ipotizzabili altre esigenze della parte assistita o del titolare del trattamento».
A fronte di tali previsioni, le Sezioni Unite manifestano la legittimità per il professionista forense di esercitare la ritenzione quale forma di autotutela nell’ipotesi di mancata liquidazione degli onorari professionali e riscossione del compenso dovuto.
Ebbene, sebbene le incertezze circa la sussistenza di un diritto ritentivo a favore del professionista forense, potrebbe comunque trattarsi di uno strumento finalizzato alla tutela di un diritto costituzionalmente garantito del lavoratore, sia egli anche libero professionista. Più specificamente, il riferimento è all’art. 36 della Costituzione italiana, ossia il diritto alla retribuzione, ripreso anche dall’art. 2099 del Codice civile, per lo svolgimento dell’attività professionale, la cui violazione da parte del cliente porrebbe il professionista forense altresì in posizione creditoria rispetto al debitore-assistito.
[1] Art. 2235 c.c.: «Il prestatore d’opera non può ritenere le cose e i documenti ricevuti, se non per il periodo strettamente necessario alla tutela dei propri diritti secondo le leggi professionali.»
[2] «La prestazione d’opera intellettuale, consiste nel mettere a disposizione le proprie competenze e risorse intellettuali specifiche, in vista della realizzazione di un risultato utile per il proprio cliente. Si tratta di una prestazione che si manifesta esclusivamente sul piano intellettivo. […] Uno degli aspetti che caratterizzano il contratto d’opera intellettuale è l’impronta strettamente fiduciaria che intercorre tra il professionista e il proprio cliente.» A. CONCAS, Il contratto d’opera intellettuale e la sua disciplina codicistica, in Diritto.it, 2013. Il contratto d’opera intellettuale e la sua disciplina codicistica | Il portale giuridico online per i professionisti – Diritto.it
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Dott.ssa Chiara Nervoso
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