Gli effetti del processo d’integrazione europea sull’amministrazione statale
1. La metamorfosi dell’impresa pubblica
L’Italia che si preparava ad accogliere un nuovo decennio[1], si presentava, allo stesso tempo, con un rapporto tra agricoltura ed industria interamente ribaltato, nel quale ormai era la produzione industriale a prevalere in termini di contribuzione al prodotto interno lordo, ed un deficit pubblico triplicato a causa di un tasso di inflazione costantemente alle stelle.
Nonostante le diverse politiche e manovre finanziarie mirate al contenimento della spesa pubblica, già a metà degli anni Ottanta i conti pubblici dell’Italia si presentavano di fatto dissestati.
In più, la Nazione si inserì con difficoltà nel processo di globalizzazione dell’economia, privo di un sistema industriale in grado di concorrere con i grandi colossi dell’imprenditoria mondiale.
Immancabilmente, questa congiuntura economica ebbe forti ripercussioni anche sull’azione, ancora tipicamente interventista, dello Stato: dovendo fare i conti con una quantità crescente di aziende private in crisi, si decise di affidare alla GEPI S.p.A., società di capitali costituita dalle grandi holding pubbliche dell’epoca (IRI, ENI, EFIM, IMI) e disciplinata dalla L. 22 marzo 1971, n. 184, il compito di rilevare le imprese private in difficoltà sovvenzionandone la ripresa economica.
In sostanza, la GEPI S.p.A. andava a ricoprire quella che era la funzione originaria, già abbandonata da tempo, dell’IRI.
Di questo passo, proprio in conseguenza della crisi economica, l’azionariato pubblico raggiunse dimensioni mai viste prima, le quali però non fecero altro che preannunciare un’ineluttabile fase di smobilitazione[2].
Insomma, un altro elemento di frammentazione che si aggiungeva alla sostanziale eterogeneità gestionale e burocratica ereditata dal periodo precedente; per di più, negli stessi anni questa doveva far fronte ad un diffondersi sempre più rapido delle autorità indipendenti[3], modello che stava riscontrando grande successo nei segmenti più variegati.
Ad ogni modo, gli anni Ottanta del XX secolo vennero acclamati, più di ogni altra cosa, come il primo vero momento di contrazione dell’interventismo statale rispetto ad una tendenza tradizionalmente espansiva: invero, una volta ultimata la “nazionalizzazione” delle imprese nei principali settori dell’economia nazionale, lo Stato sembrava allora intraprendere un percorso di metamorfosi in termini di prospettiva d’azione.
Indubbiamente, ad un rovesciamento di tale portata contribuirono progressivamente diversi fattori: da un lato le complicanze derivanti dalla gestione di un numero sempre maggiore di funzioni amministrative in un tempo in cui, al contrario, le finanze pubbliche a disposizione erano sempre più scarse; dall’altro un repentino processo di integrazione europea che imponeva a tutti gli Stati membri di liberalizzare al più presto la gestione dei pubblici servizi[4].
Complessivamente, però, all’indietreggiare dello Stato ed il conseguente arretramento della sfera pubblicistica non corrispose nel modo più assoluto una diminuzione delle funzioni da assolvere; come osservato da diversi autori[5], vi fu semmai un cambiamento radicale nel suo modo di atteggiarsi nei confronti dell’economia pubblica, ma «la regolazione pubblica persiste e mantiene notevole ampiezza ed intensità trovando anzi nuovi spazi nelle dimensione ultranazionale»[6].
In effetti, con la sola adesione alla Comunità Economica Europea (CEE), l’Italia aveva già ceduto buona parte della propria sovranità, e questo cominciava ad avere forti ripercussioni specie in tema di economia e finanza: dopotutto la CEE mirava in primo luogo all’unificazione dei mercati.
Il Paese si trovò dunque a fare i conti con un sistema giuridico multilivello fondato sulla libera concorrenza del mercato, principio che a partire dagli anni Ottanta del Novecento cominciò ad affermarsi anche nel settore dei servizi pubblici.
Sulla base dell’art. 95 del Trattato CE[7], nel diritto comunitario derivato cominciavano così a farsi largo direttive che disponevano la libertà di entrata nell’ambito delle telecomunicazioni, del trasporto ferroviario, dell’elettricità e di tanti altri segmenti solitamente pubblici, laddove l’Italia ancora praticava un regime economico incardinato su riserva e monopolio legale[8].
Allora, in virtù del principio di prevalenza delle regole della concorrenza, negli anni Novanta la liberalizzazione del settore dei servizi pubblici venne recepita altresì nell’ordinamento interno[9]; ma una trasformazione siffatta non poteva certo compiersi in un colpo solo[10].
Precisamente, per divenire effettive le liberalizzazioni richiedevano l’ausilio della regolazione pubblica: oltre a garanzie formali, difatti, servivano anche misure asimmetriche che limitassero l’azione degli operatori economici ex monopolisti e disciplinassero l’uso delle risorse scarse a vantaggio dei nuovi entranti.
Pertanto, nemmeno in un contesto totalmente tramutato vi sarebbe stato mercato in mancanza dell’interventismo statuale.
Come accennato poc’anzi, quello che poteva apparire uno Stato depotenziato e privato del suo potere economico in realtà era solo un soggetto che stava convertendo il suo ruolo[11].
Attesa quindi l’evoluzione del controllo pubblico da diretto e direttivo ad indiretto e regolatore, ci fu l’occasione giusta per implementare su vasta scala quel modello di regolamentazione economica che aveva già fatto il suo debutto in Italia con l’istituzione della CONSOB a metà degli anni Settanta: vi fu un aumento esponenziale del numero di authorities, per definizione organismi indipendenti dal Governo ed estranei all’amministrazione tradizionale, tanto negli ordinamenti settoriali, quanto in quelli di interesse generale.
Tra i tanti, nacquero giusto in questo decennio autorità amministrative indipendenti come l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM)[12], l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas (AEEG)[13] e l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM)[14].
«La moltiplicazione delle autorità indipendenti ha fatto da contraltare ad […] un complessivo arretramento della mano pubblica dall’economia»[15].
Allo stesso tempo, però, la Pubblica Amministrazione iniziava a rendersi conto della complessiva inadeguatezza del proprio modus operandi e dell’inefficienza dei modelli organizzativi fino ad ora adottati, in special modo se paragonati con una società sempre più dinamica[16] ed un debito pubblico oramai insostenibile, al punto da precludere qualsiasi tipo d’investimento mirato ad ottimizzare i servizi erogati ai cittadini.
In definitiva, per l’attività amministrativa era assolutamente indispensabile trovare un nuovo punto di equilibrio.
Un primo importante impulso in questo senso lo si ebbe con la promulgazione della L. 7 agosto 1990, n. 241, «formidabile strumento di modernizzazione dell’intero sistema, non tanto per le pur radicali innovazioni che recava […], quanto per la sua stessa filosofia di centralità del cittadino utente»[17], al quale veniva di fatto esteso il processo amministrativo sulla scorta dei modelli consensualistici più evoluti.
A questa normazione di quadro seguirono poi una serie di provvedimenti altrettanto importanti, i quali ebbero senza dubbio un impatto rilevantissimo sia sulla dimensione organizzativa sia sulla dimensione operativa dell’amministrazione.
Un’altra notevole trasformazione la si ebbe con l’approvazione del D.L. 3 febbraio 1993, n. 29, mediante il quale venne concretamente attuata la privatizzazione[18] del pubblico impiego come pure la parificazione della disciplina in materia di impiego pubblico con quella riservata all’impiego privato; un riordino tanto atteso quanto necessario se si pensa che l’attività amministrativa si stava sempre più plasmando su principi di natura manageriale.
Per di più, fu proprio nel contesto di quella stagione riformista assai prolifica, ma anche di una crisi delle finanze pubbliche senza precedenti, che prese avvio un complessivo ripensamento dei compiti dello Stato.
Effettivamente, la tendenza a rinunciare in molti campi all’amministrazione diretta, che già negli anni Ottanta aveva condotto ad una significativa contrazione della sfera pubblica, nei primi anni del decennio successivo sfociò in una ben più decisa “privatizzazione[19]” delle grandi imprese pubbliche.
Invero, nel giro di pochi anni i principali enti ed aziende del Paese finirono per assumere, in prima o seconda battuta, forma societaria.
Allo stesso modo, vennero cedute a privati società integralmente o parzialmente in pubblico comando, spesso di rilievo nazionale: l’universo delle partecipazioni statali fu smobilitato in breve tempo per un valore di oltre 40.000 miliardi[20].
In fin dei conti, persino l’esito del referendum del 18 aprile 1993 per la soppressione della Cassa per il Mezzogiorno e del Ministero delle partecipazioni statali aveva lanciato un chiaro segnale proprio in questa direzione.
Il primo servizio pubblico a lasciare la dimensione eminentemente statale, a nemmeno un secolo dalla sua “nazionalizzazione”, fu quello dei trasporti ferroviari.
Una volta soppressa l’Azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato per poi istituire l’ente pubblico economico Ferrovie dello Stato nel 1985, con la L. 8 agosto 1992, n. 58 quest’ultimo venne definitivamente trasformato in una società per azioni interamente partecipata dal Ministero del tesoro.
Una sorte molto simile venne poi riservata a IRITEL S.p.A. (servizi telefonici)[21], Poste S.p.A.[22], ENAV S.p.A. (assistenza al volo per il traffico aereo generale)[23] ed ANAS S.p.A. (strade ed autostrade di proprietà dello Stato)[24].
Tra l’altro, nemmeno e grandi holding pubbliche sfuggirono alla trasformazione: in virtù della L. 8 agosto 1992, n. 359, infatti, enti pubblici di gestione quali IRI, ENI, INA, ENEL vennero convertite in S.p.A. con un solo colpo.
Tuttavia, nonostante la trasformazione formale, decisamente poco cambiò dal punto di vista sostanziale: il processo di privatizzazione si fermò al primo stadio e le società rimasero in controllo pubblico; se non altro da quel momento finanche lo Stato azionista era sottoposto alle norme civilistiche in materia[25].
Di conclusioni da una veloce analisi delle dinamiche che hanno interessato la Pubblica Amministrazione nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso è possibile trarre tante: indubbiamente spiccano l’affermarsi dei principi di indifferenza del regime di proprietà e di pari trattamento delle imprese pubbliche e private di matrice comunitaria; la consapevolezza che le imprese pubbliche, sopravvissute pressoché esclusivamente con struttura societaria, non devono avere finalità diverse da quelle private; il diffondersi del diritto amministrativo in spazi fino ad allora incontaminati, e questo nonostante la contemporanea cessione di molte aree al diritto privato.
Dopotutto «le privatizzazioni, più che espressione della ritirata dello Stato […], costituiscono manifestazione di un più ampio fenomeno di riorganizzazione del governo centrale e di modifica dei rapporti tra diritto pubblico e diritto privato»[26].
2. Il passaggio da Stato gestore a Stato regolatore
Inauguratosi un nuovo millennio, ciò che il contesto politico-economico italiano sembrava innanzitutto ricevere in eredità dal Novecento era la forte diminuzione dell’autorità statuale, in specie in materia economica; all’opposto, un numero sempre più consistente di decisioni, che in precedenza erano appannaggio dello Stato, venivano trasferite a quell’ordinamento comunitario, di cui era ormai parte integrante, che nel frattempo era diventato Comunità Europea.
Di conseguenza, mentre l’UE si affermava nel panorama internazionale quale organizzazione politica ed economica di carattere sovranazionale, l’Italia si apprestava a divenirne una delle tante unità operative.
Non casualmente, la maggior stabilità fiscale raggiunta dall’Italia già nei primi anni Duemila era dovuta proprio ad un vincolo esterno, di matrice europea: sostanzialmente, la Nazione non disponeva più della possibilità di ricorrere all’indebitamento pubblico, per quanto continuasse invece ad occuparsi di distribuire le risorse incamerate.
Invero, fu proprio in quel periodo che si cominciò a tradurre in prescrizioni e sanzioni quei criteri di convergenza finanziaria[27] introdotti dal Trattato di Maastricht nel 1992 e poi successivamente perfezionati con diversi accordi[28].
Sul versante squisitamente amministrativo, le numerose riforme degli anni Novanta avevano visto comparire sulla scena il soggetto estraneo per antonomasia alle procedure decisionali della Pubblica Amministrazione: il cittadino.
Complessivamente, infatti, la modernizzazione dell’azione amministrativa pose tra i suoi obiettivi pure un poderoso irrobustimento della tutela dei cittadini, e questo non poté che avere un potente impatto anche sui nuovi modelli organizzativi ed operativi adottati dall’amministrazione[29].
Tutto ciò condusse quindi ad un agire amministrativo sempre più negoziale e sempre meno autoritativo, fatto che, conseguentemente, consentì al cittadino di farsi largo nelle scelte amministrative nonché di instaurare un rapporto più collaborativo e proficuo con i pubblici poteri.
Una volta transitati nel Duemila, il quadro socio-politico continuava comunque ad evolversi tanto per il comparto pubblico, quanto per quello privato: lo Stato abbandonava altresì gli ultimi compiti gestionali nonché quelli regolatori in virtù della prevalenza delle leggi spontanee del mercato, per non dire di una ben più ampia deregulation; dopotutto, con l’instaurarsi del mercato unico e l’apertura alla libera circolazione di merci e persone, le richieste di libertà assoluta in termini di spazi e tempi erano sempre più pressanti.
Come se non bastasse, le grandi scoperte tecnologiche iniziavano a trasformare persino le logiche economiche più antiche.
Quanto detto sin qui resta senz’altro valido anche per la società e l’economia attuale, ormai proiettate verso gli anni Venti del XXI secolo, se non fosse per alcuni fattori di rilevanza macroscopica affacciatisi più di recente.
Su tutti, l’attuale crisi economica e finanziaria di livello globale scoppiata nel 2008, la quale ha inciso, con diversa intensità e gradazione, anche sulle fattispecie d’intervento pubblico.
Constatato che il passaggio da Stato gestore a Stato regolatore è avvenuto non senza imperfezioni così come che la gestione privata dei servizi pubblici essenziali non ha dato i risultati sperati, «oggi il rallentamento dell’economia ripropone soluzioni con un nuovo protagonismo dei poteri pubblici»[30].
Attualmente si assiste dunque ad un progressivo e generalizzato ritorno dell’interventismo statale, finanche in settori da cui ne era definitivamente uscito; del resto, il suo soccorso appare inevitabile innanzi ad un sistema produttivo nel complesso debole ed un debito pubblico tuttora opprimente che non lascia alternative.
Quel che è certo, però, è che gli schemi gestionali di matrice aziendalistica adottati nell’ultimo ventennio non possono essere automaticamente trapiantati dall’ambito privatistico a quello pubblico senza tener conto delle sue peculiarità: «possono quantomeno rimanere un riferimento esterno ed uno stimolo critico»[31].
Oltre a ciò, bisogna considerare che nella società odierna, come accennato poc’anzi, «il cittadino è più tale e meno suddito»[32].
Per tutto il Novecento l’interesse pubblico fu sostanzialmente perseguito attraverso atti di natura autoritaria, ed in un siffatto contesto la collaborazione con il comparto privato non poteva che fermarsi alla concessione di carattere autoritativo.
Successivamente, il processo d’integrazione europea prima ed una serie di riforme, persino di rango costituzionale, poi hanno determinato una svolta radicale anche da questo punto di vista.
Sebbene questo esito apparisse già intuibile nell’utilizzazione sempre più estesa di forme e modelli tipici del diritto privato per l’organizzazione di pubblici servizi come pure, più in generale, per l’assolvimento di numerose funzioni amministrative che spettavano allo Stato, con l’avvento degli anni Duemila è possibile parlare di una vera e propria sinergia venutasi ad instaurare tra soggetto pubblico e soggetto privato[33].
Ebbene, dopo secoli di incontri e scontri, tanto l’esercizio del potere pubblico e la libera iniziativa privata, quanto la tutela dell’interesse pubblico ed il perseguimento di interessi prettamente individuali sembrano aver finalmente trovato un punto di convergenza nelle molteplici forme di amministrazione paritaria che sono state recentemente implementate.
Effettivamente, la tradizionale posizione di subordinazione occupata dal cittadino rispetto alla Pubblica Amministrazione è andata via via assottigliandosi: oggi si è instaurata addirittura una più che stabile collaborazione tra le due realtà, suggellata tra l’altro dal pieno riconoscimento a livello costituzionale del principio di sussidiarietà orizzontale[34].
Dai paragrafi precedenti è emerso un confine tra diritto pubblico e diritto privato in continuo movimento: non volendo disperdere invano il reciproco spirito cooperativo venutosi a creare tra amministrazione e società civile, negli ultimi tempi si è cercato di “capitalizzare” incanalandolo in figure giuridiche, tipiche ed atipiche, che mescolano elementi di natura pubblicistica e privatistica.
Note:
[1] Per inquadrare meglio il periodo, si veda: D. SERRANI, L’organizzazione per ministeri. L’amministrazione centrale dello Stato nel periodo repubblicano, Roma, 1979; M.S. GIANNINI, Apparati amministrativi, in Quaderni di vita italiana, 1987, 3, 245 ss.
[2] Sul punto, si veda: F. BARCA, S. TRENTO, La parabola delle partecipazioni statali: una missione tradita. Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di Barca, Roma, 1997, 186 ss.
[3] «In anni più recenti, questo modello ha originato anche figure intermedie, più agenzie governative che non vere e proprie authorities, ma spesso non meno desiderose. di tecnicità ed indipendenza». S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 177.
[4] «È dalla fine degli anni Settanta che si assiste, infatti, ad una contrazione della sfera pubblica, a seguito dell’emersione dei limiti del governo dell’economia e del crollo dei sistemi pianificati […], contrazione che oggi prosegue sulla spinta dei principi che guidano il processo d’integrazione europea e delle realtà imposte dai fenomeni di globalizzazione». L. MANNORI, B. SORDI, op. cit., 485.
[5] «Grande continuità nell’azione dei pubblici poteri in campo economico, dagli ordinamenti politici antichi fino ai tempi presenti. Non mutamenti significativi, quanto alla portata che è venuta ad assumere la regolazione pubblica, ma la sua persistenza resta ferma». M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, mercati e globalizzazione, Bologna, 2008, 38. «Questo cammino a ritroso dello stato gestore ha trovato il suo contraltare nel progressivo allargamento delle funzioni “regolatrici” dei poteri pubblici». S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 165. «Il restringersi della sfera di amministrazione diretta non significa però anche, tout court, contrazione della stessa sfera amministrativa ma […] la diminuzione dei compiti di amministrazione diretta e la loro assunzione da parte di soggetti privati, comporta, reciprocamente, una crescita delle funzioni regolatrici dell’autorità pubblica. Alla responsabilità di erogazione si sostituisce una responsabilità di controllo e garanzia». L. MANNORI, B. SORDI, op. cit., 522.
[6] M. D’ALBERTI, op. cit., 41.
[7] Trattato che istituisce la Comunità Europea (TCE), art. 95, c. 2: “Il Consiglio, deliberando in conformità della procedura di cui all’art. 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta le misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno”.
[8] Sul punto: S. CASSESE, La nuova costituzione economica cit., 86.
[9] Si fa riferimento, in particolare, alla L. 10 ottobre 1990, n. 287.
[10] Cfr. S. CASSESE, La nuova costituzione economica cit., 87-116.
[11] Cfr. M. D’ALBERTI, Poteri pubblici, mercati e globalizzazione cit., 85. Sul ruolo di regolatore dello Stato, si veda: S. SEPE, Stato regolatore e gestione dei servizi pubblici, Impresa e Stato, 13, 1991, 51 ss.; S. CASSESE, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, 1983.
[12] L. 10 ottobre 1990, n. 287.
[13] L. 14 novembre 1995, n. 481.
[14] L. 31 luglio 1997, n. 249.
[15] S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 177. Per inquadrare meglio l’importazione delle authorities nell’ordinamento giuridico italiano nonché la loro attività di regolamentazione, si veda: M. D’ALBERTI, Diritto amministrativo comparato, Bologna, 1992.
[16] «L’impatto della tecnologia è diverso nei diversi segmenti. Metodi e rendimenti si differenziano secondo un panorama a macchia di leopardo, in cui settori segnati dall’arretratezza convivono con esperimenti di punta: le differenze di carattere e di rendimento sono notevoli tra amministrazioni e perfino tra realtà territoriali della stessa amministrazione». S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 160.
[17] S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 196.
[18] Furono esclusi da questo processo di privatizzazione: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili; gli avvocati e i procuratori dello Stato; il personale militare e delle forze di polizia di Stato; il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia; i professori ed i ricercatori universitari.
[19] In questo caso «l’espressione “privatizzazione” non è sempre precisa: alla trasformazione di aziende ed enti spesso non ha fatto seguito la cessione a privati del relativo pacchetto azionario, in specie nel caso dei grandi servizi nazionali a rete (ferrovie, poste, strade). Correttamente si è parlato di “de-statalizzazione” (Cardi, D’Alberti) poiché il comando di alcune rilevanti imprese citate, in specie quelle di servizio, resta comunque pubblico». S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 192.
[20] Cfr. S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 191-192.
[21] L. 29 gennaio 1992, n. 58.
[22] D.l. 1 dicembre 1993, n. 487.
[23] L. 3 agosto 1995, n. 251.
[24] L. 8 agosto 2002, n. 178.
[25] Sul tema delle privatizzazioni, si veda: G. DI GASPARE, Privatizzazioni (privatizzazione delle imprese pubbliche), in Enciclopedia Giuridica Treccani, 1995, 24; F. BONELLI, La privatizzazione delle imprese pubbliche, Milano, 1996; A. ZIROLDI, Privatizzazione formale e privatizzazione sostanziale, in Studi in tema di società a partecipazione pubblica, a cura di Cammelli e Dugato, Torino, 2008.
[26] S. CASSESE, La nuova costituzione economica cit., 170.
[27] Trattato che istituisce la Comunità Europea (TCE), art. 121.
[28] Cfr. S. CASSESE, La nuova costituzione economica cit., 288-289.
[29] Sul punto, si veda: S. SEPE, Stato legale e Stato reale. Amministrazione, cittadini ed imprese alle soglie del Duemila, Milano, 2000; F. BENVENUTI, Il nuovo cittadino, Venezia, 1994.
[30] S. SEPE, L. MAZZONE, I. PORTELLI, G. VETRITTO, op. cit., 207.
[33] «L’amministrazione, da tempo, non è più una; sono rispuntate tante amministrazioni. L’amministrazione è di nuovo “un grande bacino nel quale una quantità di soggetti adempiono insieme e secondo l’ordine delle cose al dovere di rendere servizi al pubblico». G. BERTI, Amministrazione e costituzione, Diritto amministrativo, 1993, 1, 457.