Gli effetti riflessi delle sentenze civili

Gli effetti riflessi delle sentenze civili

Sommario: 1. Cenni generali sul giudicato – 2. La teoria degli effetti riflessi delle sentenze civili – 3. L’efficacia riflessa in materia assicurativa

 

Scopo di questo elaborato è quello di analizzare la teoria degli effetti riflessi delle sentenze civili, così come elaborata dalla dottrina e recepita nella giurisprudenza. In particolare, si è cercato di evidenziare l’ambito di operatività di siffatta teoria e le particolari materie, come quella assicurativa, che sono state oggetto di un acceso e coinvolgente dibattito giurisprudenziale.

1. Cenni generali sul giudicato

Tradizionalmente, con l’espressione “cosa giudicata” si fa riferimento alla situazione di immodificabilità del provvedimento del Giudice.

Il concetto di giudicato trova la propria ratio nel principio, di carattere generale, della certezza dei rapporti giuridici, il quale richiede che il provvedimento del Giudice, che statuisce sul processo, sia – anche solo parzialmente – definitivo cioè non più suscettibile di modifica.

Da ciò ne consegue la immodificabilità e la certezza della regola di diritto che disciplina i rapporti sostanziali tra le parti.

Questa esigenza viene soddisfatta garantendo che l’accertamento contenuto nella sentenza, oramai non soggetta alle impugnazioni ordinarie, non possa più essere rimesso in discussione in futuri ed eventuali giudizi. Per tale ragione si parla di immutabilità, irretrattabilità o intangibilità dell’accertamento e il risultato è tecnicamente assicurato attraverso la paralisi, nei successivi giudizi, dell’esercizio dei poteri processuali che le parti hanno esercitato nel processo originario o che avrebbero dovuto esercitare (c.d. preclusione del dedotto e del deducibile)[1].

In particolare, il giudicato così definito si realizza: quando sono stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione; quando i mezzi di impugnazione non sono più proponibili o per il decorso dei termini o per l’intervenuta acquiescenza.

Punti di riferimento normativi quando si parla di giudicato sono gli art. 324 c.p.c. e 2909 c.c.

Alla luce di queste previsioni normative, la dottrina tradizionale è solita distinguere tra giudicato in senso formale ex art. 324 c.p.c. e giudicato in senso sostanziale ex art. 2909 c.c.

Con il concetto di giudicato in senso formale ci si riferisce alla sentenza divenuta incontrovertibile: il suo effetto è quello di obbligare le parti a osservare quanto statuito dal giudice.

Il giudicato formale è definito dall’art. 324 c.p.c. secondo il quale “si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi previsti ai n. 4,5 dell’art. 395 c.p.c.

L’istituto disciplina la stabilità formale della sentenza ed esprime, in particolare, il più elevato grado di solidità che l’ordinamento riconosce alla pronuncia dell’autorità giurisdizionale, sia pure senza giungere alla immutabilità della stessa, come si evince dalla possibilità, per le parti ovvero per taluni terzi, di esperire i mezzi di impugnazioni straordinari.

I mezzi di impugnazione succitati sono detti ordinari in quanto l’impossibilità di una loro utilizzazione determina il passaggio in giudicato della sentenza; al contrario i mezzi di impugnazione straordinari, come la revocazione per i motivi previsti ai n. 1,2,3,6 e l’opposizione di terzo, possono essere utilizzati anche contro sentenze passate in giudicato formale.

Pertanto, parte della dottrina ritiene – per questa ragione – che l’incontrovertibilità del giudicato è di tipo relativo[2].

Si afferma, inoltre, che il termine per proporre il mezzo di impugnazione ordinario ha un dies a quo certo (la pubblicazione della sentenza), mentre quello per proporre il mezzo di impugnazione straordinario ha un dies a quo incerto (la scoperta del vizio)[3].

Il fenomeno del giudicato formale interessa tutte le sentenze del giudice, sia quelle che decidono la domanda nel merito sia quelle di rito, con le quali il giudice decide sull’esistenza o meno di un vizio di natura processuale.

Inoltre, è necessario distinguere il giudicato interno ed esterno.

Si definisce giudicato interno quello formatosi nello stesso processo; mentre si parla di giudicato esterno quello formatosi in un processo diverso.

Per lungo tempo la giurisprudenza ha affermato che solo il giudicato interno può essere rilevato d’ufficio, mentre il giudicato esterno può essere un’eccezione rilevabile solo dalla parte. Tuttavia, di recente, la Corte di Cassazione ha cambiato orientamento considerando rilevabile d’ufficio anche il giudicato esterno[4].

Secondo l’opinione prevalente, infine, la sentenza di rito non produce effetti al di fuori del processo in cui è stata emessa: quindi la sentenza di rito passata in giudicato formale non produrrebbe effetti in un successivo processo, instaurato tra le stesse parti e sullo stesso oggetto, qualora dovesse sorgere la stessa questione di rito già affrontata e decisa in precedenza[5].

Contestualmente alla formazione del giudicato formale, le sentenze che decidono il merito della controversia divengono idonee a produrre l’effetto di accertamento definitivo descritto dall’art. 2909 c.c., ossia fanno stato ad ogni effetto tra le parti, loro eredi e aventi causa[6].

Si è solito parlare a questo proposito di giudicato in senso sostanziale.

Con il termine cosa giudicata in senso sostanziale, dunque, si fa riferimento all’effetto di diritto sostanziale che produce la sentenza e che consiste nella determinazione dell’esistenza o dell’inesistenza di un diritto delle parti e nell’imporre a queste ultime l’obbligo di osservare quanto stabilito dal giudice.

Il giudicato in senso sostanziale è unanimemente riconosciuto solo con riferimento alle sentenze che decidono in maniera irrevocabile sul merito, mentre la sua estensibilità anche agli altri provvedimenti con contenuto decisorio è ancora dibattuta in dottrina.

Parte dell’opinione dottrinale ritiene, inoltre, che l’autorità di tale accertamento non si estende a tutto ciò che il giudice possa avere affermato od esposto nelle argomentazioni di una qualsiasi sentenza, ma è circoscritta ai fatti, alle situazioni o ai rapporti, che abbiano costituito oggetto di deliberazione e di pronuncia da parte del giudice stesso, in una sentenza finale[7].

Non sarebbe, dunque, rilevante la collocazione della pronuncia del Giudice, sia essa nel dispositivo oppure nella motivazione della sentenza: ciò che rileva è l’effettività della statuizione decisoria.

Tuttavia, alcuni affermano che giudicato formale e sostanziale non sarebbero due istituti diversi, ma due diversi aspetti dello stesso e unico fenomeno, costituito dalla incontrovertibilità della sentenza[8].

Queste premesse di carattere generale ed istituzionale ci permettono, adesso, di affrontare la tematica dei limiti del giudicato.

In passato si è posta, di fatti, la questione circa l’individuazione dell’esatto spazio di operatività e l’oggetto della statuizione divenuta incontrovertibile.

La dottrina tradizionale è solita distinguere tra limiti oggettivi e limiti soggettivi del giudicato[9].

Circa i limiti oggettivi, la dottrina afferma che – posto che il giudicato si forma non su «tutto ciò che il giudice possa avere affermato od esposto» nella motivazione dell’iter decisorio, ma soltanto sull’«accertamento di fatti, di situazioni o di rapporti», che abbia costituito oggetto effettivo di deliberazione e di pronunzia- ne rimarrebbero, a rigore, esclusi: a) i meri fatti storici, strumentalmente accertati e ricostruiti dal giudice nella cognizione della domanda; b) i singoli fatti giuridici (costitutivi, impeditivi, modificativi od estintivi), allegati dalle parti a fondamento della domanda o dell’eccezione; c) le questioni pregiudiziali, conosciute dal giudice incidenter tantum, quando cioè non ricorrano i presupposti in forza dei quali, secondo l’art. 34 c.p.c., una questione pregiudiziale di merito si trasforma, per volontà di parte o per disposizione di legge, in un’autonoma causa pregiudiziale, da decidersi “con efficacia digiudicato[10]

La giurisprudenza prevalente, invece, tende ad estendere i limiti oggettivi del giudicato. Si è, infatti, consolidata l’idea secondo cui il giudicato investe i presupposti logici necessari della decisione, sebbene non si estenda alle enunciazioni puramente incidentali e alle considerazioni prive di relazione causale con quanto abbia formato oggetto della pronuncia, ovvero di collegamento con il contenuto del dispositivo[11], e ciò anche con riferimento alle questioni di ordine meramente processuale.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha, di recente, ribadito che: “costituisce oggetto di giudicato la situazione di fatto che si pone come antecedente logico necessario della pronuncia resa sulla domanda dell’attore o sull’eccezione del convenuto; l’autorità del giudicato copre il fatto accertato anche in relazione ad ogni altro effetto giuridico che da esso ne derivi nell’ambito del rapporto obbligatorio tra le stesse parti[12].

Fatte queste precisazioni, è stato affermato che il ruolo svolto dai limiti oggettivi del giudicato è quello di valutare se la sentenza di merito, pronunciata in un primo processo, è vincolante o meno per il giudice di un eventuale secondo processo.

Due sono i criteri che possono essere utilizzati a tal proposito: il rapporto di pregiudizialità (o dipendenza in senso tecnico) che si ha quando un diritto entra a far parte della fattispecie costituiva di un altro diritto[13]; la pregiudizialità logica, che a differenza della pregiudizialità in senso tecnico, si ha quando uno o più effetti giuridici derivano da uno stesso rapporto giuridico obbligatorio.

Parte della giurisprudenza, invece, preferisce usare – quali criteri per individuare i limiti oggettivi del giudicato – i concetti di petitum e causa petendi. È stato affermato, di fatti, che: “l’autorità del giudicato sostanziale opera soltanto entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione e presuppone che tra la precedente causa e quella in atto vi sia identità di parti, di petitum e di causa petendi[14]. I limiti oggettivi del giudicato possono estendersi oltre la causa petendi ed il petitum della domanda originaria sia quando la domanda riconvenzionale o l’eccezione del convenuto ampli l’oggetto del giudizio, sia quando una situazione giuridica sia comune a più cause tra le medesime parti, sicché la soluzione delle questioni di fatto o di diritto ad essa relative in una delle altre in cui quella rilievi”[15].

Dall’individuazione dei limiti oggettivi ne deriva per il giudice il divieto del ne bis in idem.

In maniera ormai granitica, la giurisprudenza di legittimità afferma sul punto che “qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla soluzione di questioni di fatto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di fatto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo”[16].

Tale principio è stato, successivamente, ribadito anche in alte occasioni. Pertanto, “quando due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto giuridico o titolo negoziale, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione su questioni di fatto o di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile alla statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo[17].

Solo quando il problema dei limiti oggettivi si è risolto positivamente, ossia la precedente sentenza è rilevante per la decisione della seconda controversia, si pone il problema dei limiti soggettivi. Di fatti, si ritiene che quando la controversia del primo processo ha per oggetto un diritto che non è uguale né pregiudiziale rispetto a quello del secondo, il terzo non ha la necessità di essere difeso, visto che l’efficacia del primo è per lui irrilevante (c.d. terzo indifferente)[18].

Si parla, dunque, di limiti soggettivi per determinare chi sia esattamente investito dall’efficacia vincolante del giudicato civile. Sotto questo profilo si ritiene, pertanto, che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato vincoli, come si evince dal disposto dell’art. 2909 c.c., le parti del processo, nonché i loro eredi ed aventi causa.

Salvo queste due ultime eccezioni, generalmente coloro che non hanno preso parte al processo non dovrebbero sottostare all’autorità di cosa giudicata. In questo modo si tende anche a garantire il pieno rispetto del diritto di difesa previsto dall’art. 24 Cost.[19]

Ai sensi dell’art. 2909 c.c., parti sono coloro che hanno partecipato al processo civile, cioè coloro tra i quali il rapporto processuale si è instaurato, si è concretamente sviluppato e che sono nominativamente indicati in sentenza come tali[20].

Tuttavia, il Codice civile indica alcuni soggetti “terzi”, poiché non hanno preso parte al processo. Essi sono gli eredi ed i loro aventi causa. Essi subentrano al de cuius o al dante causa dopo la formazione del giudicato sul rapporto stesso, in quanto succedono nella medesima posizione giuridica del loro predecessore o costituiscono una situazione giuridica più limitata rispetto a quella originaria[21].

Questa precisazione è di grande importanza poiché vi sono numerose disposizioni codicistiche che stabiliscono esplicitamente o presuppongono la produzione degli effetti del giudicato anche nei confronti di terzi. Si ricordano, a titolo meramente esemplificativo, gli artt. 1595, comma 3, c.c., 111, comma 4, c.p.c.; 79, r.d. 29 giugno 1939, n. 1127, come modificato dall’art. 33, d.p.r. 22 giugno 1979, n. 338.

Altre norme stabiliscono, invece, che il terzo qualora non abbia partecipato o non sia stato messo in condizione di partecipare al processo relativo all’altrui rapporto (ma che condiziona anche la sua propria posizione giuridica), è colpito comunque dall’efficacia della sentenza emessa inter alios, ma può sottrarsi a questo vincolo offrendo la prova che «esistono ragioni sufficienti» per provocare un diverso accertamento della situazione sostanziale (oggetto originario  di accertamento da parte del giudice). Basti pensare alle disposizioni di cui agli artt. 1485, 2859 e 2870 c.c.

Altre norme, infine, stabiliscono che i terzi possono avvalersi del giudicato altrui che, quindi, agisce soltanto in utilibus nei loro confronti (ad esempio l’art. 1306 comma 2 c.c.).

I principi che possono essere ricavati dall’interpretazione delle disposizioni normative citate – con riguardo all’efficacia del giudicato nei confronti dei terzi – hanno formato oggetto di un accesso dibattito in dottrina sulla dogmatica dell’efficacia riflessa delle sentenze civili.

2. La teoria degli effetti riflessi delle sentenze civili

Prima di esaminare le varie elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza occorre fare una precisazione. Si parla di efficacia riflessa del giudicato soltanto entro i limiti soggettivi individuati dall’ articolo 2909 c.c. anche quando l’avente causa abbia acquistato il diritto successivamente al giudicato. Ciò che rileva è l’esistenza di un vincolo di dipendenza giuridica sorto a livello sostanziale anche prima della vicenda processuale.

Fatta questa premessa, in un primo momento, cioè a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la dottrina prevalente aveva affermato che occorreva limitare l’efficacia delle sentenze civili. Si era, così, diffusa un’interpretazione riduttiva dei limiti soggettivi, volta a garantire il principio del contradditorio e della difesa, considerati quali principi di rango superiore e inviolabili in un sistema democratico[22].

Questa interpretazione era stata condivisa anche da una importante pronuncia della Corte Costituzionale, secondo cui l’accertamento, con efficacia di giudicato, della singola situazione giuridica sostanziale è destinato a soccombere di fronte all’affermazione di siffatti principi costituzionali, in quanto: “nessuno può subire, per giudicato inter alios, la negazione di un diritto o l’imposizione di un obbligo o di una soggezione: altrimenti, i terzi, non partecipi del processo concluso dal giudicato, verrebbero privati delle garanzie di azione e di difesa assicurate dalla Costituzione (art. 24)”[23].

Alla luce di questa premessa, era stata ritenuta contrastante con quei valori di processo equo e giusto, sui quali si fonda il modello interno ed internazionale, la possibilità di estendere un giudicato formatosi inter alios nei confronti di terzi,  titolari di autonomi diritti, i quali non abbiano avuto alcuna possibilità effettiva di influire e di incidere ex ante sulla formazione del giudicato, con l’esercizio degli stessi mezzi processuali di azione e difesa, garantiti alle parti vincolate[24].

Pertanto, parte della dottrina aveva sostenuto che non sarebbe adeguata per il terzo una tutela esclusivamente ex post, realizzata solo attraverso il rimedio dell’opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. poiché si violerebbe il principio costituzionale della difesa ex art. 24[25].

Altra parte della dottrina, tuttavia, aveva messo in evidenza alcuni punti critici di questa interpretazione così eccessivamente riduttiva. Di fatti, si era detto che – sebbene essa avesse l’enorme pregio di garantire i più alti principi del sistema democratico – aveva il difetto di non considerare tutti quei rapporti giuridici che sono soggettivamente complessicioè presentano una pluralità di titolari, i quali si atteggiano come distinti centri di interesse[26].

In questi casi si era parlato di “rapporto uno ed unico con molteplicità di soggetti” e, dunque, occorreva comprendere se l’azione doveva essere proposta da o contro tutti i legittimati e se la sentenza resa in esito al giudizio eventualmente promosso da o contro uno dei più aventi diritto producesse effetti nei confronti degli altri.

Sulla base di queste critiche, autorevole dottrina aveva affermato che in presenza di tali situazioni giuridiche, caratterizzate da una pluralità di soggetti che costituiscono la medesima parte, occorreva applicare il principio del coordinamento. In forza di questo principio, l’accertamento (compiuto dalla sentenza rispetto alla situazione unica facente capo a più soggetti) non potrebbe che valere nei confronti di tutti gli interessati o rimanere inefficace rispetto a tutti. Pertanto, si affermava che la statuizione definitiva poteva svolgere la sua efficacia nei confronti di tutti i soggetti del rapporto complesso accertato, in quanto eventuali decisioni divergenti determinerebbero un inevitabile conflitto tra giudicati[27].

Questo coordinamento tra le pronunce riguardanti l’unitario rapporto poteva forse essere ottenuto in tre diversi modi:

– Secondo la regola generale, nei processi aventi ad oggetto la situazione sostanziale comune, la legittimazione ad agire apparterrebbe disgiuntamente a ciascun contitolare. Si escludeva, in linea di principio, la sussistenza del litisconsorzio necessario iniziale, ai sensi dell’art. 102 c.p.c.;

– La sentenza di merito, emessa nel giudizio singolo, se favorevole produrrebbe effetti nei confronti di tutti i partecipanti; di contro, essa, qualora abbia contenuto sfavorevole, avrebbe efficacia limitata a colui che sia stato parte del procedimento. Tale principio del giudicato secundum eventum litistroverebbe il suo fondamento positivo nell’art. 1306, comma 2, c.c.;

– Infine, la domanda giudiziale proposta dagli altri contitolari sarebbe ammissibile. Tuttavia, poiché il diritto soggettivo comune non potrebbe esistere solo per alcuni soggetti, con esclusione di altri, l’eventuale esito positivo di siffatta azione andrebbe a vantaggio di tutti i cointeressati[28].

Diversa, invece, l’ipotesi in cui i terzi sono titolari di rapporti dipendenti da quello oggetto di accertamento con autorità di giudicato. Ad esempio, la posizione dell’avente causa o dell’erede.

Sul punto, parte della dottrina riteneva che, in questo caso, punto di riferimento normativo fosse l’art. 111 c.p.c. Si affermava che, in virtù del combinato disposto dei primi tre commi della succitata disposizione, se il successore non era stato chiamato o non era intervenuto il processo continuerebbe a svolgersi anche in sua assenza e – nonostante ciò – egli rimarrebbe sottoposto agli effetti della pronuncia di merito[29].

Questa interpretazione, tuttavia, si era esposta ad un dubbio di compatibilità con l’art. 24 Cost. e con i principi di giusto ed equo processo.

Tuttavia, la dottrina dell’epoca superò questi dubbi adducendo due argomentazioni.

In primis, era stato affermato che l’estensione al successore – in corso di causa – dell’efficacia della sentenza altrui trovava fondamento e giustificazione nell’esigenza di non vanificare la vittoria dell’acquirente. Pertanto, non si voleva costringere quest’ultimo, se attore, a riproporre la domanda contro il successore; se convenuto, non lo si voleva esporre ad una nuova domanda, sul medesimo oggetto, da parte del successore dell’alienante soccombente[30].

In secundis, si era affermato che nella generalità dei casi (e tranne quando trovava applicazione la regola del possesso in buona fede) vigeva la regola della trascrizione, per cui il successore sarebbe in grado di conoscere la pendenza del processo dai pubblici registri e, di conseguenza, sarebbe in grado di intervenire. Pertanto, qualora il successore non interveniva per sua scelta, sarebbe discutibile parlare di violazione del diritto di difesa nei suoi confronti[31].

In questo modo, si superava comunque la rigida e riduttiva interpretazione dei limiti soggettivi e si riconosceva ampiamente l’efficacia riflessa della sentenza civile anche nei confronti di terzi, successori o comunque aventi un diritto dipendente dal proprio dante causa.

Altra e diversa ipotesi presa in esame si verificherebbe quando il successore acquista un diritto dopo il passaggio in giudicato della sentenza. In questo caso, la stessa giurisprudenza aveva affermato che l’avente causa sarebbe pienamente vincolato dal giudicato emesso nei confronti del dante causa[32].  In questa circostanza, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 24 Cost. e degli altri principi su richiamati, poiché il terzo si troverebbe di fronte ad una pronuncia già emessa e definitiva e la subirebbe come qualsiasi altra attività giuridica posta in essere dal suo dante causa.

Più complessa l’ipotesi in cui il giudicato riguardi un soggetto terzo, titolare di un diritto dipendente sul piano sostanziale (in virtù di un nesso di dipendenza giuridica) da quello che è oggetto dell’accertamento e sorto prima della instaurazione del processo.

Sul punto si erano formati due diversi orientamenti.

Parte della dottrina aveva affermato che il giudicato, alla luce dei principi generali sopra richiamati, producesse effetti erga omnes: l’accertamento avente valore di giudicato coinvolge anche il terzo[33]. La sentenza avrebbe, dunque, piena efficacia riflessa anche rispetto a questi soggetti.

Secondo altro orientamento, affinché la sentenza del giudice abbia efficacia riflessa, occorrerebbe non solo che sussista un nesso di dipendenza tra le posizioni giuridiche, ma sarebbe anche necessario che questo rapporto di dipendenza abbia la stessa durata e la stessa permanenza [34].

Una terza ricostruzione, invece, cercava di mitigare le conseguenze sfavorevoli per il terzo e, dunque, si affermava che egli possa dimostrare l’ingiustizia della pronuncia diventata irrevocabile, attestandone la contrarietà alla legge[35].

Alla luce di queste interpretazioni dottrinali, si era inserita nel dibattito anche la giurisprudenza.

Per lungo tempo ed in linea generale, la giurisprudenza di legittimità aveva abbracciato la tesi favorevole all’ efficacia riflessa del giudicato, sebbene nei confronti di alcune categorie di soggetti terzi.

Di fatti, era stato messo in evidenza che l’esigenza fondamentale era quella di armonizzare le situazioni giuridiche dipendenti o subordinate rispetto a quella oggetto di accertamento.

Si escludeva, invece, che attraverso il riconoscimento dell’efficacia riflessa si potesse stabilire la preferenza di un diritto rispetto ad un altro, laddove la loro coesistenza sia inconcepibile per reciproca incompatibilità[36].

Sulla base di questa considerazione la giurisprudenza dell’epoca aveva elaborato alcuni principi in tema di efficacia riflessa delle sentenze civili.

In primis, era stato affermato che per efficacia diretta si intendeva quella derivante dall’accertamento che fa stato ad ogni effetto nei confronti delle parti, dei loro eredi e dei loro aventi causa[37].

In secundis, invece, per efficacia riflessa si doveva intendere quella che derivava dalla sentenza, quale affermazione oggettiva di verità, in grado di produrre effetti nei confronti di terzi, cioè soggetti estranei al processo, ma titolari di un diritto dipendente rispetto al rapporto accertato o comunque subordinato ad esso. Tuttavia, questa efficacia riflessa era esclusa, a priori, nei confronti di quei soggetti terzi che facciano valere un diritto autonomo, con un titolo diverso rispetto a quello accertato, o comunque siano titolari di un diritto totalmente incompatibile rispetto a quello accertato mediante giudicato[38].

È necessario, sul punto, ricordare due pronunce della giurisprudenza di legittimità, le quali consolidano e racchiudono i principi fin ora elaborati. La prima è la sentenza n. 4864/2007, secondo cui: “Il giudicato può avere, ai sensi dell’articolo 2909 c.c., oltre che un’ efficacia diretta nei confronti delle parti anche un efficacia riflessa, nel senso che la sentenza, come affermazione oggettiva di verità, può produrre conseguenze giuridiche anche nei confronti dei soggetti terzi, cioè rimasti estranei al processo in cui è stata emessa, allorquando essi siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione giuridica definita in quel processo o comunque di un diritto subordinato a tale situazione; nel caso in cui giudicato spieghi effetti pregiudizievoli nei confronti di terzo, questi può agire in giudizio per fare valere l’ingiustizia nei suoi confronti di siffatta decisione”.

La seconda, è la sentenza n. 11213/2007, in cui si affermava che “Il giudicato può spiegare efficacia riflessa anche nei confronti di soggetti estranei al rapporto processuale, quando contenga un’ affermazione obiettiva di verità (Decadenza del chiamato con testamento dal diritto ad accettare l’eredità, pronunciata su domanda di alcuni eredi legittimi) che non ammette la possibilità di un diverso accertamento, qualora si fa efficacia non si risolve in un pregiudizio giuridico ma addirittura in un beneficio per il terzo estraneo al giudizio, non essendo sufficiente l’autonomia del soggetto titolare di una pretesa analoga a quella dei partecipanti al giudizio ad escludere un estensione oggettiva del giudicato[39].

Alla luce di questi principi si era posto il problema di conciliare l’efficacia riflessa con la tutela del terzo ed in particolare con l’esercizio del diritto alla difesa di cui all’art. 24 Cost.

A tal proposito sono state individuate tre diverse soluzioni, già messe in evidenza dalla dottrina maggioritaria.

Di fatti è stato osservato che è il terzo può intervenire volontariamente nel giudizio altrui, ex art. 105 c.p.c.; può agire ex articolo 404 comma 2 c.p.c.; infine può dimostrare l’ingiustizia della sentenza in ogni giudizio e sulla base della disposizione di cui all’articolo 1485 c.c. (cioè sul modello dell’azione di garanzia per evizione).

Tali principi sono divenuti, nel corso del tempo, granitici[40].

Più di recente meritano attenzione le ordinanze della Corte di cassazione n. 18062/2019[41] e n. 11365 del 12 giugno 2020, secondo cui: “il giudicato può spiegare efficacia riflessa nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo quando sussiste un nesso di pregiudizialità – dipendenza fra situazioni giuridiche, quando contenga l’affermazione di una verità che non ammette un diverso accertamento ed il terzo non vanti un diritto autonomo rispetto a quello su cui il giudicato stesso è intervenuto”[42].

Inoltre, la sentenza passata in giudicato, anche quando non possa avere l’effetto vincolante di cui all’art. 2909 cod. civ., può avere comunque l’efficacia riflessa di prova o di elemento di prova documentale, in ordine alla situazione giuridica che abbia formato oggetto dell’accertamento giudiziale, e tale efficacia indiretta può essere invocata da chiunque vi abbia interesse, spettando al giudice di merito esaminare la sentenza prodotta a tale scopo e valutarne liberamente il contenuto, anche in relazione agli altri elementi di giudizio rinvenibili negli atti di causa[43].

Questo orientamento, divenuto maggioritario nella giurisprudenza, trova il suo punto di riferimento nella disposizione di cui all’articolo 1306 c.c.

Tale norma statuisce, al comma 1, che “la sentenza pronunziata tra il creditore e uno dei debitori in solido, o tra il debitore o uno dei creditori in solido, non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori“; invece, il comma 2 dispone che “gli altri debitori possono opporla al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni personali al condebitore; gli altri creditori possono farla valere contro il debitore, salve le eccezioni personali che questi può opporre a ciascuno di essi“.

Si tratta di una disposizione dettata in materia di obbligazioni e, in particolare, attiene alla disciplina dei rapporti plurisoggettivi solidali.

Autorevole dottrina afferma, a tale proposito, che questa disposizione deve essere interpretata nel senso che il terzo co-obbligato possa avvantaggiarsi degli effetti del giudicato a lui favorevole, qualora dimostri l’intenzione di avvalersene e può opporre questi effetti al soggetto che è stato parte del processo; diversamente non produce effetti nei confronti del terzo co-obbligato, che non ha partecipato al processo, la sentenza sfavorevole che pertanto vincola le sole parti del rapporto processuale[44].

Pertanto, si ritiene che tale disposizione attribuisca al terzo obbligato una facoltà che egli può liberamente esercitare, nel caso in cui la sentenza costituisca una circostanza favorevole.

3. L’efficacia riflessa in materia assicurativa

Nonostante la dottrina e la giurisprudenza prevalente abbraccino, in linea generale, la tesi dell’efficacia riflessa delle sentenze civili, il dibattito non è ancora sopito.

Di fatti, recentemente, la questione si è riaccesa in particolari materie, come quella assicurativa.

Sul punto, sono lentamente emersi due diversi orientamenti all’interno della stessa giurisprudenza di legittimità.

Il primo orientamento, più risalente nel tempo, affermava che il giudicato non possa essere opposto all’assicuratore che sia rimasto terzo rispetto al rapporto processuale fra danneggiato e assicurato-danneggiante[45]. Infatti, i rapporti tra danneggiante/danneggiato e quelli tra assicuratore/assicurato rimangono distinti ed autonomi. Pertanto, “nell’ambito del rapporto tra assicurato e assicuratore la ricostruzione dell’incidente può portare a negare il diritto del primo ad essere manlevato dal secondo, anche se venga accertato (con efficacia di giudicato) il diritto al risarcimento del danno del danneggiato nei confronti del danneggiante, atteso che il giudicato formatosi nel primo rapporto non può avere efficacia in relazione al secondo, diverso rapporto processuale. Ragionando diversamente, del resto, si rimetterebbe al danneggiante assicurato un potere di disposizione in relazione alla posizione giuridica dell’assicuratore, che è diversa ed autonoma”[46] .

Per il secondo orientamento, più recente e maggioritario, elaborato alla luce dei principi generali sopra evidenziati, la sentenza di condanna al risarcimento del danno, pronunciata nei confronti del responsabile di un sinistro stradale, fa stato nei confronti del suo assicuratore della responsabilità civile, per quanto concerne la sussistenza dell’obbligo risarcitorio del danneggiante e del correlativo debito, anche se l’assicuratore non abbia partecipato al relativo giudizio. Infatti, l’assicuratore non è titolare di una posizione autonoma rispetto al rapporto cui si riferisce la sentenza, ma di una situazione giuridica dipendente da essa[47].

Si legge, infatti, che “In tema di assicurazione obbligatoria della r.c.a. la sentenza emessa nei confronti del conducente o del proprietario del veicolo investitore, convenuti in giudizio dal danneggiato ex art. 2054 c.c., senza la partecipazione neppure successiva dell’assicuratore, spiega efficacia riflessa nel senso che fa stato nei confronti dell’assicuratore per quanto concerne la sussistenza dell’obbligo risarcitorio del danneggiante e del correlativo debito, atteso che l’assicuratore non è titolare di una posizione autonoma rispetto al rapporto cui si riferisce la sentenza e non può disconoscere l’accertamento in essa contenuto come affermazione oggetto di verità, ma è titolare di una situazione giuridica dipendente dalla situazione definita con la prima sentenza.[48].

Nonostante quest’ultimo orientamento fosse divenuto pressoché granitico, di recente, si è assistito ad un revirement nella giurisprudenza di legittimità.

Sul punto, di fatti, è recentemente intervenuta la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 18325/2019[49], abbracciando l’orientamento minoritario (il quale escludeva l’efficacia riflessa delle sentenze civili in questa specifica materia) in virtù di una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme in materia di giudicato, nel rispetto del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e del giusto processo (art. 111 Cost.).

Questa nuova lettura è emersa in seno alla giurisprudenza di legittimità per tre ordini di ragione.

1 – In primis, è stato messo in evidenza che – nella materia assicuratoria – esiste un collegamento particolarmente intenso tra il rapporto principale (che lega danneggiante e danneggiato e volto all’accertamento della responsabilità civile) e il rapporto di garanzia (che lega il danneggiante/assicurato e l’assicuratore).

Per la Corte, infatti, la relazione che lega il danneggiato (creditore) e l’assicuratore (condebitore) è una obbligazione solidale ad interesse unisoggettivo. Tale caratteristica dipende proprio dalla natura del vincolo che lega l’assicuratore con l’assicurazione, come delineato nelle stesse norme del codice civile.

Di fatti, nei rapporti interni tra i condebitori (assicurato e assicurazione), il debito ricade interamente su una parte (ossia sull’assicuratore, che è obbligato ex contractu nei confronti del danneggiante ed ex lege nei confronti del danneggiato). La ratio della solidarietà passiva tra assicuratore e responsabile civile verso il danneggiato è da ricercarsi nella volontà di rafforzare l’interesse del creditore, coerentemente allo scopo della legge 990/1969, ormai superata dal Codice delle Assicurazioni private[50].

A tal proposito, la Corte si esprime in termini di solidarietà atipica, poiché il debito aquiliano dell’assicurato discende ex delicto (ossia dal fatto illecito) ed è illimitato, mentre quello di natura indennitaria dell’assicuratore deriva ex lege e trova un proprio limite nel massimale[51]. Costruito così tale vincolo danneggiante/assicurato e assicuratore sono litisconsorti necessari ex art. 144 c. 3 d.lgs. 2019/2005.

2 – In secondo luogo, il richiamo alle obbligazioni solidali permettere di applicare il principio di carattere generale secondo cui le circostanze favorevoli si estendono anche ai coobbligati; diversamente, le circostanze sfavorevoli non si estendono ai coobligati rimati estranei al rapporto processuale.

È alla luce di questo principio che deve essere interpretato anche l’art. 1306 c.c.

Il legislatore, infatti, tiene conto che non si può stabilire a priori se l’effetto di una sentenza sarà favorevole o sfavorevole. Pertanto, di regola, la sentenza non si estende alle altre parti che vi sono estranee, salvo che queste decidano di profittarne.

Sulla base di queste specificazioni, una sentenza sfavorevole resa tra danneggiato (creditore) e danneggiante (debitore) non può essere estesa anche all’assicuratore, rimasto estraneo al rapporto processuale.

Questa affermazione, tuttavia, resta limitata all’ipotesi in cui sia esperita dal danneggiato/creditore un’azione diretta.  Di fatti, la Corte ha evidenziato che nel caso di azione di rivalsa proposta dal danneggiante/debitore, non si applicherebbe l’art.1306 c.c., e si avrebbe comunque una estensione del giudicato sfavorevole.

Ciò si verificherebbe poiché la regola dettata dall’art. 1306 c.c. riguarda esclusivamente i rapporti tra il creditore/il danneggiato e i condebitori solidali (danneggiante e assicuratore), ma non copre il rapporto tra assicurato-danneggiante e assicuratore, in sede di regresso.

3 – In terzo luogo, alla luce della ricostruzione della Corte, l’efficacia diretta (soprattutto in questa materia) entrerebbe in contrasto con due istituti processuali, richiamati anche dalla specifica disciplina di settore.

Il primo istituto è la chiamata ad istanza di parte. A tale proposito, punto di riferimento normativo di carattere generale è l’art. 106 c.p.c. il quale descrive due ipotesi: il garantito può chiamare in causa il garante, esercitando l’azione di regresso; il garantito opera la vocatio senza proporre domande nei confronti del garante. In quest’ultimo caso, non solo si integra il contradditorio, rendendo partecipe al rapporto processuale quel soggetto che è già “parte” di un rapporto solidale sostanziale ma, inoltre, si rende opponibile il giudicato anche a quest’ultimo.

Dunque, dato che l’ordinamento prevedere questo istituto, per la Corte sarebbe paradossale ammettere la teoria dell’efficacia riflessa e quindi l’opponibilità senza chiamata della sentenza al garante, solo in virtù del nesso di pregiudizialità – dipendenza.

Il secondo istituto è il litisconsorzio necessario processuale. A differenza del litisconsorzio necessario sostanziale, disciplinato dall’art. 102 c.p.c. che è originario, questa tipologia si realizza durante l’appello proprio per prevenire la formazione di giudicati contrastanti.

Orbene, in questo modo, il soccombente deve proporre appello anche verso il garante: solo così la sentenza originaria potrebbe produrre effetti anche nei rapporti tra garante e garantito.

Alla luce di questi due istituti, la Corte esclude l’ammissibilità dell’efficacia riflessa del giudicato.

Tuttavia, la sentenza emessa tra danneggiato e danneggiante non è totalmente priva di effetti per l’assicuratore. Di fatti, la Corte ritiene che il giudicato (tra danneggiato e danneggiante) assume efficacia di prova nei confronti dell’assicuratore, sia quando agisca il danneggiato in sede di azione diretta, sia quando agisca il danneggiante in sede di rivalsa. Infatti, si può tenere conto anche delle prove acquisite nel processo svoltosi nei confronti del solo responsabile civile.

A tal proposito, infatti, la Corte ribadisce che:l’onere di provare che vi erano ragioni per disattendere la domanda, ed in particolare l’esistenza del diritto ceduto, incombe sul venditore perché la circostanza accertata nel primo processo è propria del terzo convenuto nel secondo giudizio, al pari delle obbligazioni solidali ad interesse unisoggettivo quali si rinvengono nel rapporto fideiussorio e nella responsabilità per fatto altrui (art. 2049 c.c. e art. 2054 c.c., comma 3). La circostanza accertata nel processo ove è stato convenuto il fideiussore, il padrone o il proprietario del veicolo è propria rispettivamente del debitore principale, del domestico o del conducente del veicolo. Non altrettanto può dirsi per l’assicuratore, posto che la circostanza pregiudiziale attiene proprio al convenuto del primo processo, il danneggiante. Anche dunque nel caso di esercizio della rivalsa da parte del danneggiante, come nel caso di azione diretta promossa dal danneggiato, il giudicato relativo al rapporto pregiudiziale e le prove raccolte nel relativo processo restano prova documentale di cui l’attore può avvalersi nel giudizio promosso nei confronti dell’assicuratore, senza che possa trovare applicazione il principio alla base dell’art. 1485 c.c., comma 1»[52].

Fatte queste precisazioni, inoltre, la Corte ritiene che in questa materia non possa trovare applicazione nemmeno l’art. 1485 comma 1 c.c., dettato in materia di garanzie del venditore.

Questa esclusione trova il proprio fondamento in due ordini di ragioni.

In primis, nella collocazione sistematica della disposizione in esame, dettata in relazione al contratto di compravendita ed estensibile, eventualmente, solo ai contratti di scambio.

In secundis, nella diversità strutturale e funzionale del rapporto di assicurazione rispetto a quello di compravendita, tanto da non ammettere il ricorso all’analogia.

Questo nuovo orientamento, di carattere restrittivo, è stato nuovamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza n. 31969 del 2019.

Anche in questa occasione, la Suprema Corte rifiuta la tesi dell’efficacia riflessa delle sentenze civili. Si sostiene, infatti, che : “Ne ricorre – nel caso – l’ipotesi dell’efficacia riflessa, nei confronti dell’assicuratore non evocato in giudizio, del giudicato intervenuto fra danneggiato e conducente e/o proprietario del veicolo investitore, predicata da non pochi arresti di questa Corte, i quali hanno ravvisato nella posizione dell’assicuratore una “situazione giuridica dipendente dalla situazione definita con la prima sentenza […]  Mette conto al riguardo peraltro segnalare che la compatibilità costituzionale della nozione di giudicato riflesso è stata da ultimo sottoposta a profonda revisione critica (e negata) da Cass. 09/07/2019, n. 18325, alle cui ampie e qui pienamente condivise considerazioni può farsi rimando.”

Questa conclusione, per la Corte, trova il suo fondamento nel fatto che – ammettendo la teoria dell’efficacia riflessa – ciò che integrerebbe il fatto costitutivo della domanda risulterebbe accertato in modo irretrattabile senza il contraddittorio con il convenuto e senza che questi possa esercitare il diritto di difesa. Per il terzo, l’altrui decisione resterebbe, quindi, res inter alios acta.

Il rispetto dei principi costituzionali sopra richiamati porta la Corte a  ritenere che i limiti soggettivi di efficacia del giudicato restano disciplinati dalle norme positive (art. 1306 c.c. ed art. 1595 c.c., comma 3; art. 404 c.p.c.), e che all’infuori dei confini indicati da tali disposizioni, il giudicato ha al massimo efficacia di prova o elemento di prova documentale, quale fatto storico risultante da un documento.

Sebbene questa, prima facies, sembri l’interpretazione ormai consolidatasi, in realtà la questione non è affatto risolta.

Di fatti, più recentemente, e precisamente con la sentenza n.1104 del giugno 2020, la Suprema Corte è nuovamente intervenuta sulla questione, accogliendo una interpretazione in parte diversa.

La questione che ha dato origine alla pronuncia su citata è singolare. Di fatti, un mezzo blindato all’interno di una caserma aveva provocato un sinistro e, in seguito a questo fatto, il danneggiato aveva promosso l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore.

L’assicurato/danneggiante (il ministero) aveva chiesto al proprio assicuratore di pagare direttamente il terzo danneggiato, ex art. 1917, comma 2, c.c. Tuttavia, Il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda di garanzia per cui il responsabile era stato costretto a pagare integralmente il terzo.

Proposto appello, il giudice di secondo grado aveva, poi, accolto, la domanda di garanzia e aveva condannato l’assicuratore a pagare nei confronti del terzo danneggiato. L’assicurato/danneggiante aveva, così, convenuto in giudizio l’assicuratore, chiedendo la rifusione di quanto pagato al terzo danneggiato in esecuzione della sentenza di primo grado. Tuttavia, l’assicuratore aveva rifiutato, affermando che l’indennizzo non era più dovuto perché al momento del sinistro il mezzo era condotto da persona non abilitata alla guida.

La Corte di cassazione, cassando la decisione di merito, ha ritenuto che la sentenza conclusiva del primo giudizio, condannando l’assicuratore a pagare direttamente il terzo, ex art. 1917, comma 2, c.c., aveva implicitamente statuito sulla efficacia e sulla validità del contratto di assicurazione, sicché l’assicuratore non poteva più, per effetto del giudicato, esercitare la rivalsa, il cui presupposto era l’inefficacia della garanzia.

La Corte, infatti, sostiene “appare allora fondata la tesi difensiva della Amministrazione statale ricorrente secondo cui la sentenza n. (omissis) avrebbe pronunciato – con efficacia di giudicato – anche sul rapporto contrattuale, implicitamente affermandone la validità ed efficacia e dunque disattendendo, per implicazione necessaria, anche la domanda di rivalsa fondata sulla inoperatività della polizza. Ne segue che nel successivo giudizio promosso dal Ministero della Difesa, ogni questione concernente la validità ed efficacia della polizza, doveva intendersi ormai preclusa dall’accertamento del rapporto assicurativo, ritenuto operante nella clausola che estendeva la garanzia dell’assicurato anche alla responsabilità derivante da sinistri verificatisi in aree private o comunque non adibite a pubblico transito, contenuto nella sentenza n. (omissis) passata in giudicato”.

La Corte, dunque, riprendendo l’orientamento maggioritario che si era consolidato negli anni passati, ha riaffermato la tesi dell’efficacia riflessa del giudicato, anche in materia di R.C.A.

 

 

 

 

 


Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al codice civile del 4 aprile 1942.
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Cfr. Cass. n. 15627/2016; Cass. n 8607/2017; Cass. n.2735/2017; Cass. 27161/2018.
Cass. 11672/2000, in Mass. Giur. It., 2000.
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Corte Cost. n. 55/1971.
Cass. n. 6178/ 1981; Cass. n. 610 /1981.
Cass. n. 7530/1983.
Cass. n. 7271/1997.
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Cass. n. 4864/2007.
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Cass. n. 6788/2013; Cass. n. 8766/2019.
Cass. 4241/2013.
Cass.10919/2011; Cass. 4192/2004; Cass. 3223/1976; Cass. 2859/1963.
Cass.10919/2011.
Cass. 4241/2013; Cass. 1359/2012; Cass. 10017/2005; Cass. 12612/2001; Cass. 371/1979.
Cass. n. 12612/01; Cass. n. 10017/05.
Cass. n. 10919/2011.
Cass. 23057/2009; Cass. 15462/2008; Cass.  4005/2001; Cass. 5883/1999; Cass. 6128/1995; Cass. 4950/1988; Cass. 6428/1982.
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 _______________________________
[1] CONCAS A., La cosa giudicata, disciplina giuridica e caratteri, in Diritto.it, 2015, ISSN 1127-8579, www.diritto.it/la-cosa-giudicata-disciplina-giuridica-e-caratteri/.
[2] CONCAS A., La cosa giudicata, disciplina giuridica e caratteri, in Diritto.it, 2015, ISSN 1127-8579, www.diritto.it/la-cosa-giudicata-disciplina-giuridica-e-caratteri/.
[3] LA MARCHESINA D., I limiti oggettivi e soggettivi del giudicato, in Diritto.it, 2014, ISSN 1127-8579, www.diritto.it/i-limiti-oggettivi-e-soggettivi-del-giudicato/.
[4] Cfr. Cass. n. 15627/2016; Cass. n 8607/2017; Cass. n.2735/2017; Cass. 27161/2018.
[5] LA MARCHESINA D., I limiti oggettivi e soggettivi del giudicato, in Diritto.it, 2014, ISSN 1127-8579, www.diritto.it/i-limiti-oggettivi-e-soggettivi-del-giudicato/.
[6] NARDO GIULIO N., Note in tema di giudicato, in Judicium, il processo civile in Italia e in Europa, Pacini giuridica.
[7] Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al codice civile del 4 aprile 1942.
[8] MANDRIOLI C. – CARATTA A., Diritto processuale civile – Nozioni introduttive e disposizioni generali, Vol. I, Giappichelli Editore, 2007, pp. 446 ss.
[9] Cfr. CERINO CANOVA, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Comm. c.p.c. Allorio, II, 1, Torino, 1980, 7 ss.; SASSANI, Impugnativa dell’atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989, 53 ss.; CONSOLO, Oggetto del giudicato e principio dispositivo. I. Dei limiti oggettivi e del giudicato costitutivo, in RTPC, 1991, 215 ss.; Id., «Domanda giudiziale», in Digesto/ civ., VII, Torino, 1991, 44 ss., specie 64 ss.; VERDE, I limiti oggettivi del giudicato nelle controversie di lavoro, DG, 1991, 716 ss.; MERLIN, Compensazione e processo. II. Il giudicato e l’oggetto del giudizio, Milano, 1994, 119 ss.; VULLO, La domanda riconvenzionale nel processo ordinario di cognizione, Milano, 1995, 145 ss.
[10] NARDO GIULIO N., Note in tema di giudicato, in Judicium, il processo civile in Italia e in Europa, Pacini giuridica.
[11] Cass. 11672/2000, in Mass. Giur. It., 2000.
[12] Cass. n. 28415/2017.
[13] LA MARCHESINA D., I limiti oggettivi e soggettivi del giudicato, in Diritto.it, 2014, ISSN 1127-8579, www.diritto.it/i-limiti-oggettivi-e-soggettivi-del-giudicato/.
[14] Cass. n. 6830/2014.
[15] Cass. n. 5245/2014.
[16] Cass. n. 18381/2009.
[17] Cass. n. 23723/2013; in termini simili si esprimono anche le sentenze n. 24433/2013, n.25546/2014; 25269/2016;
[18] LA MARCHESINA D., I limiti oggettivi e soggettivi del giudicato, in Diritto.it, 2014, ISSN 1127-8579, www.diritto.it/i-limiti-oggettivi-e-soggettivi-del-giudicato/.
[19] Ibidem.
[20] MANDRIOLI C. –  CARATTA A., Diritto processuale civile – Nozioni introduttive e disposizioni generali, Vol. I, Giappichelli Editore, 2007, pp. 313- 316.
[21] Ibidem.
[22] MONTESANO L., La tutela giurisdizionale dei diritti, Utet, vol.14, 2003, pp. 270.
[23] Corte Cost. n. 55/1971.
[24] COMOGLIO L.P., Etica e tecnica del “giusto processo”, Giappichelli Editore, 2004, pp. 270.
[25] Cfr. ANDRIOLI V., Diritto processuale civile, Edizioni scientifiche italiane, vol. II, 2019, pp.954; PROTO PISANI A., Opposizione di terzo ordinaria, Jovene, 2002, pp. 259.
[26] REDENTI E., Il giudizio civile con pluralità di partiMilano, 1960, pp. Vol. XXIII-XXIV, pp. 17-18, 77 ss., 107 ss.
[27] ANDRIOLI V., Diritto processuale civile, Edizioni scientifiche italiane, vol. II, 2019, pp.954; PROTO PISANI A., Opposizione di terzo ordinaria, Jovene, 2002, pp. 259; MENCHINI S.Intervento, in Atti del XX Convegno Nazionale dell’Associazione tra gli studiosi del processo civile, «Processo civile e società commerciali», Milano, 1995, pp. 232 ss.
[28] MENCHINI S., Regiudicata civile, Utet, 2002, pp. 404 ss.
[29] FAZZALARI E., Istituzioni di diritto processuale civile, Cedam, 1996, pp. 470.
[30] MONTESANO L., La tutela giurisdizionale dei diritti, Utet, 2003, pp. 289-290.
[31] MENCHINI S., Regiudicata civile, Utet, 2002, pp. 404 ss.
[32] Cass. n. 6178/ 1981; Cass. n. 610 /1981.
[33] ALLORIO E, La cosa giudicata rispetto a terzi, Giuffrè, 1993, pp. 67.
[34] FAZZALARI E., Istituzioni di diritto processuale civile, Cedam, 1996, pp. 450 – 451.
[35] COMOGLIO L.P., Il principio di economia processuale”, Giappichelli Editore, 2004, pp.132 ss.
[36] Cass. n. 7530/1983.
[37] Cass. n. 7271/1997.
[38] Cass. n. 793872002; n. 7262/ 2003; n.5320/ 2003; N.13283/2003. Più di recente cfr. Cass. 8766/2019; Cass. 5411/2019; Cass.12252/2017; Cass. 24558/2015; Cass. 1237/1963; Cass. 3928/1968; Cass. 656/1970.
[39] Nella fattispecie, la Corte di Cassazione aveva avuto modo di precisare che tale autonomia non aveva impedito al soggetto estraneo alla vicenda processuale, ma pur sempre titolare di una pretesa analoga, a far valere in fatto, a proprio favore, in via transattiva (rinunciando gli effetti di quella sentenza a fronte dell’attribuzione in proprietà di un certo numero di immobili facenti parte dell’asse ereditario)l’obiettiva verità dell’intervenuta decadenza contenuta nel giudicato formatosi fra altri.
[40] Cfr. Cass. n. 2421/2010; n.691/2011; n.4241/2013; n.6788/2013.
[41] La S.C., in applicazione di detto principio, ha escluso, con riferimento all’accertamento delle responsabilità nella causazione di un sinistro stradale, l’efficacia riflessa del giudicato intervenuto fra danneggiato e proprietario del veicolo investitore nei confronti dell’assicuratore non evocato in giudizio. Per approfondimento vedesi pgf. 3.
[42] Cfr. anche Cass. n. 6788/2013; Cass. n. 8766/2019.
[43] Cass. n. 4241/2013.
[44] GALGANO F., Le obbligazioni in generale, 2011, Cedam, pp. 24 -26.
[45] Cfr. Cass.10919/2011; Cass. 4192/2004; Cass. 3223/1976; Cass. 2859/1963.
[46] Cfr. Cass.10919/2011.
[47] Cass. 4241/2013; Cass. 1359/2012; Cass. 10017/2005; Cass. 12612/2001; Cass. 371/1979.
[48] Cass. n. 12612/2001; Cass. n. 10017/2005.
[49] Cfr. anche Cass. n. 10919/2011.
[50] Si richiamano, inoltre, Cass. 23057/2009; Cass. 15462/2008; Cass.  4005/2001; Cass. 5883/1999; Cass. 6128/1995; Cass. 4950/1988; Cass. 6428/1982.
[51] Si richiamano, inoltre, Cass. 7993/2002; Cass. 5262/2001; Cass. 6128/1995.
[52] Cass. n. 18325/2019.

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Veronica Schirripa

Dott.ssa Veronica SchirripaLaureata presso l'Università degli studi di Catania nel 2018 con Tesi sperimentale in diritto penale “Il reato di Tortura tra fonti sovrannazionali e diritto interno" (relatrice: Prof. Rosaria Sicurella). Durante il percorso accademico, la grande passione per i diritti umani e il diritto internazionale l'ha spinta a partecipare ad uno stage al palazzo delle Nazioni Unite (New York) in occasione del CWMUN 2016, organizzato dall'associazione Diplomatici, nella qualità di delegate as Namibia; ad assistere nel 2017 alle discussioni del Parlamento Europeo sul tema della lotta alla criminalità e agli hate speeches. Ha frequentato la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali e Forensi di Catania “A. Galati", conseguendo il Diploma nel 2020 con tesi di Diritto Civile “Gli obblighi del sanitario" (Relatore: prof Giovanni Di Rosa). Durante il percorso post-accademico ha svolto un periodo di stage presso la Procura Generale della Repubblica, presso la sede di Catania. Abilitata all'esercizio della professione forense. Svolge l'attività di consulente presso lo Studio Di Paola & Partners.

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