Gli impedimenti del difensore e dell’imputato a partecipare all’udienza ex art. 420-ter c.p.p.

Gli impedimenti del difensore e dell’imputato a partecipare all’udienza ex art. 420-ter c.p.p.

Per individuare l’ambito applicativo della disciplina in esame, occorre soffermarsi dapprima sulla sua collocazione codicistica. Attualmente, l’art. 420 ter c.p.p. è rubricato nel Libro V – “Indagini preliminari e udienza preliminare”, in particolare nel Titolo IX “Udienza preliminare”. Prima dell’introduzione della Legge Carotti (L. 16 dicembre 1999, n. 479), la sua collocazione era diversa, essendo previsto dall’art. 486 c.p.p. che oggi  risulta abrogato.

La risistemazione dell’istituto del legittimo impedimento a comparire del difensore all’interno del codice di rito lascia supporre l’assoluta rilevanza di tale disciplina, non consentendo che il suo ambito di operatività si arresti alle prime fasi del procedimento penale, ma che, al contrario, sia garantito durante tutto il corso di questo. Esso può realizzarsi in qualsiasi momento: udienza preliminare, dibattimento, udienza d’appello e giudizio di legittimità. La giurisprudenza maggioritaria esclude categoricamente che la prescrizione in questione possa trovare applicazione nei procedimenti camerali diversi dall’udienza preliminare, anche se si tratta di procedimenti a contraddittorio necessario, sostenendo che quest’ultimo è regolato secondo le speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti appositamente predisposta dal legislatore.

Sul punto si è espressa la Corte di Cassazione con due pronunce, dapprima nel 2006 (Cass. n. 31461/2006) ed in seguito nel 2015 (Cass. n. 25501/2015) per affermare il seguente principio di diritto: Il disposto di cui all’art. 420 ter c.p.p., secondo cui il legittimo impedimento del difensore può costituire causa di rinvio dell’udienza preliminare, non trova applicazione con riguardo agli altri procedimenti camerali, ivi compresi quelli per i quali la presenza del difensore è prevista come necessaria, soccorrendo, in tali ipotesi, la regola dettata dall’art. 97, comma quarto, c.p.p.”. Quest’ultima fattispecie riguardava la rinnovazione dell’istruttoria disposta dal giudice di appello ai sensi dell’art. 599, comma terzo, c.p.p., nella quale la Corte di Cassazione ha giudicato illegittima la decisione di procedere all’assunzione di una testimonianza in assenza del difensore dell’imputato, senza provvedere alla necessaria nomina di un difensore di ufficio.

Ulteriore pronuncia della Corte di Cassazione affermava che la disciplina relativa all’impedimento del difensore, prevista dall’art. 420 ter, comma 5, stesso codice, non trova applicazione nel procedimento di esecuzione e di sorveglianza, ove la partecipazione necessaria del difensore, in caso di mancanza, anche giustificata, di quello di fiducia, viene assicurata dalla nomina di un difensore d’ufficio (Cass.n. 3529/2000).

La prova del legittimo impedimento del difensore a comparire al dibattimento deve essere sempre fornita dall’interessato al fine di consentire al giudice il controllo sulla fondatezza dell’addotto impedimento.Risultano irrilevanti le ragioni che eventualmente hanno determinato la mancata comparizione delle altre parti processuali. Secondo la giurisprudenza costituzionale, la scelta legislativa di non estendere al difensore della parte civile il diritto al differimento dell’udienza, previsto invece per il difensore dell’imputato, è una scelta ragionevole in considerazione del diverso rilievo di cui l’imputato e la parte civile sono portatori, diversa la natura degli scopi perseguiti ed eterogeneità delle posizioni processuali (C. Cost., 14 luglio 2009, n. 217).

Alcune tra le principali cause giustificatrici della legittima impossibilità di comparire sono costituite o da un precedente e concomitante impegno professionale ovvero da altra causa che impedisce la fisica presenza del difensore dovuta ad ostacoli di carattere fisico o sanitario.

Con riferimento al concomitante impegno professionale, la Cassazione ha stabilito che: “il difensore che intenda ottenere il rinvio del dibattimento deve presentare una richiesta al giudice nel più breve tempo possibile rispetto al momento in cui è insorta la causa dell’impedimento, affinché questi possa tempestivamente valutarla ed adottare gli opportuni procedimenti”.Ne consegue che, la comunicazione pervenuta il giorno stesso dell’udienza è da ritenersi intempestiva. Sul punto si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza 20693 del 2010, riconoscendo che l‘impedimento a comparire del difensore per contemporaneo impegno professionale si considera prontamente comunicato, e quindi costituisce causa di rinvio a nuova udienza, quando è posto alla cognizione del giudice con congruo anticipo e, cioè, in prossimità della conoscenza da parte del difensore della contemporaneità degli impegni. Nel caso di specie era stata ritenuta intempestiva l’istanza di rinvio presentata soltanto il giorno precedente quello d’udienza, pur se la notificazione dell’avviso concernente l’impegno professionale concorrente risaliva a diversi giorni prima. Sempre in tema di impedimento a comparire del difensore, si è stabilito che va considerato come “prontamente comunicato” quell’impedimento che sia reso noto al giudice non appena conosciuta la contestualità degli impegni professionali (Cass. n. 49759/2012).

Nella specie, la Corteha ritenuto non tempestiva la comunicazione dell’impegno di un difensore che, non avendo partecipato all’udienza in quanto sostituito da difensore di ufficio, aveva depositato l’istanza di differimento dopo dieci giorni, a decorrere da detta udienza in relazione ad un’udienza di poco successiva, fondando la richiesta sulla sussistenza di impegni professionali da tempo preesistenti.

Tuttavia il giudice deve valutare la tardività della comunicazione dell’impedimento non in relazione alla data rispetto alla quale l’impegno viene fatto valere, ma in relazione al momento in cui è insorta la causa dell’impedimento medesimo e il difensore ne sia venuto a conoscenza. In particolare il rinvio deve essere chiesto non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni e il difensore deve esporre le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione per la particolare natura dell’attività a cui deve presenziare. La valutazione della prova di tale impedimento deve essere fatta in concreto dal giudice di merito e si sottrae ad ogni censura di legittimità solo se adeguatamente motivata secondo i criteri di completezza e logicità. Le Sezioni Unite hanno stabilito che “spetta al giudice effettuare la valutazione comparativa dei diversi impegni al fine di contemperare le esigenze della difesa e della giurisdizione, accertando se sia effettivamente prevalente quello prospettato dal difensore,che non deve pertanto trarre alimento dalla sua soggettiva opinio e deve essere prontamente comunicato dallo stesso, verificando che non sussistano contrarie ragioni di urgenza, da valutarsi con ponderata deliberazione nel necessario bilanciamento fra le indicate contrapposte esigenze” (SS.UU. n. 29529/2009).

Si è sostenuto che l’impedimento del difensore, per contemporaneo impegno professionale, quantunque tutelato dall’ordinamento con il riconoscimento del diritto al rinvio dell’udienza, non costituisce un’ipotesi d’impossibilità assoluta a partecipare all’attività difensiva e non dà luogo pertanto a un caso in cui vengono in applicazione i limiti di durata della sospensione del corso della prescrizione previsti dall’art. 159, comma primo, n. 3, c.p., nel testo introdotto dall’art. 6 della L. 5 dicembre 2005 n. 25 (Cass. n. 44609/2008).

Inoltre, la richiesta di differimento dell’udienza per concomitante impegno professionale del difensore deve essere corredata anche dalla giustificazione della mancata nomina di un sostituto, come è desumibile, oltreché da ragioni d’ordine sistematico, dall’ultimo periodo dell’art. 420 ter, comma quinto, c.p.p.

Innanzitutto il giudice deve considerare rilevanti solo le assenze dovute ad assoluta impossibilità di comparire riconducibili ad impedimenti legittimi prontamente comunicati. Ciò nonostante, il meccanismo non opera qualora l’imputato abbia nominato due difensori e l’impedimento riguardi solo uno di essi o nel caso in cui il difensore impedito abbia nominato un sostituto ovvero l’imputato consenta che si proceda anche in assenza del difensore impedito. Viceversa, in caso contrario, il giudice con ordinanza, anche d’ufficio, rinvia ad una nuova udienza e dispone che sia rinnovato l’avviso dell’imputato a norma dell’art. 419 co. 1. Nei primi due casi si lascia aperta la strada della discrezionalità del giudice. Di regola la nomina del sostituto esclude l’applicazione del legittimo impedimento; per farlo valere, il difensore impedito deve presentare la documentazione e le ragioni per le quali ritiene impossibile avvalersi di un sostituto processuale. Pertanto, l’art. 420 terc.p.p. deve essere inteso nel senso che non rientra nella discrezionalità del difensore nominare un sostituto ma se questi volesse avvalersene deve indicare le ragioni per cui è impossibilitato a comparire in udienza e dimostrare al giudice che la natura dell’attività cui occorre presenziare, ovvero la fase del procedimento, gli consentono legittimamente la sostituzione del difensore perché ciò non si ripercuoterà sulla difesa tecnica di cui l’imputato ha diritto. Competerà successivamente al giudice procedente operare il bilanciamento degli interessi della difesa con quelli dell’amministrazione della giustizia, all’esito del quale le prospettazioni del difensore possono essere rigettate.

Altra causa che legittima l’impedimento di comparizione del difensore in udienza è lo stato di malattia in cui quest’ultimo versa. In questi casi, per trovare le linee guida che regolano la fattispecie in commento ci si deve rifare alla giurisprudenza circa l’impossibilità di comparire per causa di malattia dell’imputato. Il giudice, nel valutare secondo il proprio libero convincimento l’impedimento a comparire all’udienza dedotto dall’avvocato, mediante produzione di certificazione sanitaria, deve attenersi alla natura dell’infermità dedotta, valutandone il carattere impeditivo e certamente può disattendere la prognosi contenuta nel certificato medico. Nell’apprezzamento della prova dell’impedimento a comparire al dibattimento, la valutazione del giudice di merito, seppure discrezionale, deve essere tuttavia sorretta da una motivazione adeguata, logica e corretta, non essendo sufficiente che vi sia una qualsivoglia motivazione che illustri le ragioni del giudizio negativo formulato circa la dedotta assoluta impossibilità di comparire, ma occorrendo, invece, che tale motivazione inerisca puntualmente alla prodotta prova dell’impedimento e sia immune da vizi logico-giuridici. Conseguentemente, nel disattendere la certificazione medica, il giudice non può valutare in maniera arbitraria ed illogica la natura ed il carattere dell’infermità in essa attestata ed il carattere impeditivo del male da cui si afferma l’imputato. Il certificato medico prodotto in udienza è atto idoneo a comprovare l’impossibilità a comparire dell’imputato se non è contraddetto da una diversa valutazione tecnica, alla quale è dato pervenire attraverso un accertamento medico fiscale e che non può essere sostituita dal generico apprezzamento del giudice.

Si è affermata in giurisprudenza l’illegittimità del provvedimento con cui il giudice di merito rigetta l’istanza di rinvio dell’udienza, per impedimento del difensore a comparire, documentata da un certificato medico che si limita ad attestare un’infermità con stato febbrile e ad indicare una prognosi di quattro giorni senza precisare il grado di intensità di tale stato e la sua attitudine a determinare l’impossibilità a lasciare l’abitazione, trattandosi di elementi essenziali per la valutazione della fondatezza, serietà e gravità dell’impedimento, non riscontrabili laddove si tratti di una diagnosi e di una prognosi che, secondo nozioni di comune esperienza, denotino l’insussistenza di una condizione tale da comportare l’impossibilità di comparire in giudizio, se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la propria salute(Cass. n. 3558/2015). Secondo la giurisprudenza prevalente è del tutto esclusa dall’ipotesi del legittimo impedimento la fattispecie dell’impossibilità per il difensore di presenziare l’udienza a causa dell’adesione ad una astensione collettiva dalle associazioni professionali di categoria. La ragione risiede nel fatto che l’assoluta impossibilità di comparire attiene a situazioni oggettive non dipendenti dalla volontà del soggetto impedito, mentre l’astensione dallo svolgimento delle attività difensive costituisce una libera scelta. Attualmente, tale disciplina rientra nell’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, quale il diritto allo sciopero previsto dall’art. 40 Cost. Dopo un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, le Sezioni Unite, con sentenza 40187 del 2014, sono intervenute sul punto, qualificando e riconoscendo l’adesione ad un’astensione collettiva da parte del difensore come l’esercizio di un diritto costituzionale che il giudice è tenuto a garantire, purché avvenga nel rispetto delle condizioni e dei presupposti previsti dalle specifiche norme che lo regolano. Il difensore dovrà tempestivamente comunicare il suo impedimento a comparire derivante dall’adesione all’astensione della categoria professionale. Quanto alle modalità di trasmissione della dichiarazione di astensione, la relativa comunicazione può essere trasmessa a mezzo telefax alla cancelleria del giudice procedente, dovendo applicarsi la norma speciale contenuta nell’art. 3, comma secondo, del vigente codice di autoregolamentazione, secondo la quale l’atto contenente la dichiarazione di astensione può essere trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o nella segreteria del pubblico ministero. In motivazione, la S.C. ha precisato che tale soluzione appare imposta non solo da un’interpretazione letterale della norma, che non richiede l’adozione di forme particolari per la comunicazione o il deposito, ma anche da un’interpretazione adeguatrice e sistematica, rispondente all’evoluzione del sistema di comunicazioni e notifiche, oltre che alle esigenze di semplificazione e celerità richieste dal principio della ragionevole durata del processo (Cass. n. 40187/2014).

Un canone fondamentale del diritto di difesa consiste, notoriamente, nella personale partecipazione al processo dell’imputato, la quale naturalmente richiede, sul piano dell’effettività, che lo stesso sia in grado di prendere parte «coscientemente» al giudizio che lo riguarda (comma 1 dell’art. 70 c.p.p.). La legge processuale, allo scopo di garantire l’osservanza del principio, prescrive che nei casi dubbi siano svolti accertamenti, e che sia disposta la sospensione del procedimento quando risulti che«lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento» (comma 1 dell’art. 71 c.p.p.).

Questo meccanismo risulta disfunzionale quando l’incapacità dell’imputato dipenda da patologie irreversibili. La verifica periodica si risolve in uno spreco di tempo e denaro. D’altra parte, non essendo in alcun modo prevista una definizione del processo per l’incapacità processuale dell’accusato, situazioni del genere danno vita a pluriennali pendenze, destinate a chiudersi, in sostanza, solo con la morte dell’interessato. La Corte è stata investita della questione sull’equiparazione tra la morte del reo e la sua permanente incapacità, per l’evidente carattere pregiudiziale della richiesta medesima. La Corte ha negato l’effettiva assimilabilità delle situazioni poste a confronto. La morteè un dato facilmente accertabile e pacificamente irreversibile, che elimina fisicamente il soggetto del rapporto processuale. La patologia mentale richiede una diagnosi ed una prognosi, con un grado di opinabilità assai più elevato, soprattutto in punto di durata della malattia e di sua reversibilità. L’eliminazione delle verifiche periodiche creerebbe il rischio di procedimenti sospesi a tempo indeterminato, sostanzialmente dimenticati, e non ripresi neppure quando sopravvenga, per una ragione o per l’altra, la possibilità di pronunciare sentenza. Una obiezione del genere potrebbe essere mossa, forse, anche riguardo alla soluzione di una dichiarazione di improcedibilità con sentenza suscettibile di revoca nei casi di nuove e diverse emergenze circa la capacità processuale dell’imputato.

Rispetto alle modalità di partecipazione all’udienza, la giurisprudenza con sentenza n. 10482 del 2016ha affermato che la disciplina di cui all’art. 420-ter c.p.p.– che concerne non solo la capacità di recarsi fisicamente in udienza, ma anche quella di partecipare attivamente, per l’esercizio del diritto costituzionale di difesa –sussiste anche in relazione ad una malattia a carattere cronico, purché determini un impedimento effettivo, legittimo e di carattere assoluto, riferibile ad una situazione non dominabile dall’imputato e a lui non ascrivibile. La situazione di assoluto impedimento dell’imputato non essendo caratterizzata dalla temporaneità, sussiste anche in relazione ad una malattia a carattere cronico, purché determini un impedimento riferibile ad una situazione non dominabile dall’imputato e a lui non ascrivibile. La Corte ha ritenuto l’invalidità dell’ordinanza con cui il giudice di merito aveva dichiarato la contumacia dell’imputato sul presupposto che non sussistesse l’impedimento a comparire, trattandosi di una malattia di natura cronicae, come tale, non suscettibile di prevedibili futuri miglioramenti (Cass., VI Sez., 30 ottobre 2001).

Ciò posto, con sentenza n. 11678del 2012, la Corte ha espressamente pronunciato il seguente principio di diritto: “l’assoluta impossibilità a comparire derivante da infermità fisica, quale causa ostativa del giudizio contumaciale, non va intesa in senso esclusivamente meccanicistico, come impedimento materiale che risulti superiore a qualsiasi sforzo umano, prescindendo dalle condizioni psico-fisiche in cui versa l’imputato, in quanto la garanzia sottesa all’esercizio del diritto di difesa comporta che egli sia in grado di presenziare al processo a suo carico come parte attiva della vicenda che lo coinvolge”. Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto che la diagnosi di “insufficienza respiratoria in bronchitico-cardiopatia post infartuale”, pur non rappresentando una controindicazione assoluta al trasporto, fosse tale da integrare un legittimo impedimento a partecipare all’udienza.

Dove, quindi, esista uno stato morboso che incida seriamente sulla salute, potrà solo esigersi che l’interessato spinga il suo sforzo diretto a partecipare al processo sino a dove non esista una situazione psico-fisica incompatibile con tale impegno. Nella specie, lo sforzo che l’imputato avrebbe dovuto esercitare incontrava due ostacoli, discendenti, entrambi, da altrettanti principi fondamentali del nostro ordinamento: quello del diritto alla salute, che implica l’inesigibilità di imporre al malato stress psico-fisici tali che aggravino le sue condizioni di salute o provocare sofferenze apprezzabili; quello del diritto di difesa, esplicabile sono in condizioni di lucidità mentale che non siano compromesse da patologie rilevanti (Cass. Sez. IV, 4 febbraio 2005).

Al fine di garantire all’imputato la cosciente partecipazione al procedimento e il relativo diritto di difesa, la Consulta, con sentenza n. 45 del2015 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 159, co.1, c.p., nella parte in cui, nel caso di sospensione del procedimento per stato mentale dell’imputato, non esclude anche la sospensione della prescrizione, quando lo status sia stato accertato in maniera irreversibile. La questione riguarda l’incapace eternamente giudicabile, cioè la persona che si trova in condizioni psichiche tali da precludere di partecipare coscientemente al processo penale che la riguarda, e che in particolare sia afflitta da una patologia tale da risultare, in base alle conoscenze mediche disponibili, non reversibile.  Al fine di garantire il diritto di difesa, la legge impedisce la celebrazione del procedimento e ne impone dunque la sospensione. Tuttavia, tale disciplina giustifica anche la sospensione dei termini di prescrizione, in quanto, diversamente, in caso di patologie irreversibili, si sarebbe verificata una stasi insuperabile del giudizio, non rimediabile neppure attraverso l’estinzione del reato per il trascorrere del tempo. Sulla questione, determinante è stata l’introduzione dell’art. 72 bisc.p.p., ad opera dell’art. 1, comma 22, della L. 23 giugno 2017, n. 103, il quale detta la disciplina da seguire in caso di definizione del procedimento per incapacità irreversibile dell’imputato. Il nuovo art. 72 bisc.p.p. sancisce di fatto l’abbandono dell’impostazione perseguita dal legislatore del 1988 e segna l’adesione ad una linea che vede la soluzione al problema dei c.d. “eterni giudicabili” nell’individuazione dell’incapacità irreversibile come ostacolo di natura procedimentale che influisce sulla possibilità di celebrare il giudizio. Nel prevedere che, “se a seguito degli accertamenti previsti dall’articolo 70, risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento e che tale stato è irreversibile, il giudice, revocata l’eventuale ordinanza di sospensione del procedimento, pronuncia sentenza di non luogo a procedere o sentenza di non doversi procedere, salvo che ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca”.  In realtà, la dottrina auspicava già da tempo di ricorrere ad una pronuncia di non doversi procedere per incapacità irreversibile dell’imputato; disciplina poi approvata e confluita nell’attuale art. 72 biscp.p..

Inoltre, l’ultima parte del nuovo art. 72 bis c.p.p. prevede poi che l’improcedibilità possa essere dichiarata solo se non ricorrono i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. Il tenore della disposizione lascia intendere che nel bilanciamento tra esigenze di definizione del procedimento ed esigenze di tutela della collettività della pericolosità sociale di chi è sottoposto a procedimento, queste ultime restino comunque prevalenti, inibendo espressamente al giudice la pronuncia della nuova formula di cui all’art. 72 bis c.p.p.. Diverso, invece, appare il caso in cui l’imputato sia sottoposto alla misura dell’affidamento in prova al servizio sociale per lo svolgimento di un programma di recupero della tossicodipendenza presso una struttura pubblica o privata. Si è sostenuto che, in questo caso, non sussiste un legittimo impedimento a comparire, posto che si tratta di una modalità del trattamento in regime di libertà e non di una misura restrittiva della libertà personale. La Corte ha precisato che l’imputato non deve chiedere alcuna autorizzazione per comparire all’udienza, essendo solo tenuto a dare tempestiva notizia al servizio sociale, e l’autorità giudiziaria non deve disporne la traduzione in udienza (Cass. n. 19216/2016). Nel caso in cui l’imputato che sia sottoposto all’obbligo di non allontanarsi senza autorizzazione dal territorio di un determinato comune, venga raggiunto da una regolare notifica del decreto di citazione per il giudizio, quest’ultimo avrà l’onere di attivarsi tempestivamente per ottenere detta autorizzazione e di comunicare al giudice procedente la propria volontà di presenziare all’udienza( n. 44764/2001). Se il soggetto imputato risulta invece sottoposto alla misura degli arresti domiciliari per altra causa ed intende comparire in udienza, questi avrà l’onere di chiedere tempestivamente al giudice competente l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario, non essendo, in tal caso, configurabile un obbligo dell’autorità giudiziaria procedente di disporne la traduzione (Cass. n. 30825/2014). Diversamente, la restrizione dell’imputato che si trovi agli arresti domiciliari per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio in contumacia, anche quando risulta che l’imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico, a differenza di quanto accade per il difensore, alcun onere di tempestiva comunicazione dell’impedimento (Cass. n. 18455/2014).

Riflettendo la disciplina prevista per l’imputato dal punto di vista del difensore, la precedente e consolidata giurisprudenza di legittimità considerava l’impossibilità a comparire in senso esclusivamente “materiale” quale impossibilità fisica a presenziare l’udienza per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento. Recentemente, l’evoluzione giurisprudenziale ha ulteriormente ampliato lo spettro delle situazioni che giustificano l’impedimento legittimo di comparire in udienza, includendovi anche circostanze ascrivibili a situazioni gravi sotto il profilo umano morale che possono, da un punto di vista emotivo, essere ritenute di ostacolo alla partecipazione attiva all’incarico di difesa tecnica affidata all’avvocato. Pertanto, alla luce della nuova interpretazione giurisprudenziale dell’istituto del legittimo impedimento, l’assoluta impossibilità di comparire del difensore non va più intesa esclusivamente in senso “meccanicistico” ossia un mero impedimento materiale a partecipare all’udienza, contribuendo a cementare la garanzia costituzionale del diritto di difesa.

Particolarmente dibattuta è stata la questione circa l’assenza in dibattimento sia dell’imputato che del difensore. Le Sezioni Unite, con sentenza 8285 del 2006 hanno affermato che, in quest’ultimo caso, risulta preliminare la decisione sull’effettiva rilevanza dell’impedimento a comparire eventualmente prospettato dall’imputato e comunque l’eventuale dichiarazione della sua contumacia, cui il giudice deve provvedere sentito il pubblico ministero e il sostituto designato per il difensore assente. Solo dopo avere deciso sulla posizione dell’imputato, quindi, il giudice può prendere in esame la richiesta di rinvio per impedimento del difensore. Di conseguenza, non è viziata da nullità ai sensi dell’articolo 178 lettera c) c.p.p. la dichiarazione di contumacia dell’imputato, allorché il giudice, a tal fine, abbia nominato d’ufficio un sostituto del difensore assente, che sia stato poi ritenuto legittimamente impedito. Il difensore che abbia ottenuto la sospensione o il rinvio del dibattimento per legittimo impedimento a comparire ha diritto all’avviso della nuova udienza solo quando non ne sia stabilita la data già nell’ordinanza di rinvio, poiché, nel diverso caso di rinvio a udienza fissa, la lettura dell’ordinanza sostituisce la citazione e gli avvisi sia per l’imputato contumace che per il difensore impedito.

Quanto alla natura giuridica dell’impedimento previsto dall’art. 420 ter, co. 5, questo è il solo ad essere qualificato come “legittimo”: cioè conforme alla legge o da questa consentito. Sebbene ciò, il legislatore non ha compiutamente completato la fattispecie codicistica astratta tipizzando le cause che, ex lege, sono idonee ad integrare il legittimo impedimento. Ciò ha determinato, a fortiori, l’intervento suppletivo della giurisprudenza di legittimità. A fronte dell’esigenza di riempire di contenuto il dettato normativo, la Suprema Corte ha necessariamente dovuto ricercare i parametri costituzionali giuda a cui ispirarsi per dirimere le controversie a questa sottoposte. La Cassazione ha stimato come assolutamente necessario garantire all’imputato il diritto alla difesa e il diritto al contraddittorio. Gli impedimenti a comparire per cause di malattia, possono essere giustificate dal diritto costituzionale alla salute(art. 32 Cost.). La necessità che il difensore possa debitamente curarsi è condizione idonea a giustificare la sua assenza dalle udienze.

Ovviamente tale garanzia viene sottoposta, secondo l’interpretazione prevalente di legittimità, a rigorosi criteri di controllo – presentazione del certificato medico e controlli di carattere fiscale – affinché la garanzia a tutela del diritto alla salute del difensore non venga da lui strumentalizzata per finalità tattico-dilatorie nel procedimento penale. Sul punto si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza n. 37422/2017 affermando che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen., con riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui consente il diniego del rinvio richiesto per motivi di salute da uno dei codifensori dell’imputato allorquando l’altro sia presente in udienza, dato che la predetta disposizione processuale contempera il diritto di difesa dell’imputato sancito dall’art. 24 della Costituzione con il principio, anch’esso di rango costituzionale (art. 111 Cost.), della ragionevole durata del processo. Le ragioni giustificatrici del legittimo impedimento a comparire del difensore devono essere circoscritte a cause assolutamente necessarie che discendono da diritti inviolabili della persona, e l’avvocato, al pari di qualsiasi altro, ha diritto a goderne. Un’eccessiva dilatazione delle cause di legittimità dell’impedimento, ampliando eccessivamente il ventaglio delle garanzie, finiscono per generare incertezze applicative ed eccessivi rinvii delle udienze, sminuendo il diritto alla ragionevole durata del processo, quale valore riconosciuto sia a livello nazionale che sovranazionale (artt. 111, co. 2, Cost.; 6, co. 1, CEDU) che, in una valutazione comparativa tra le esigenze dei protagonisti del procedimento, è senz’altro da preferire perché il processo penale è già di per sé una pena per l’imputato e pertanto è necessario concluderlo quanto prima affinché questi possa tornare a godere degli altri diritti costituzionalmente garantiti. Il diritto costituzionale diviene effettivo nel momento in cui viene garantita all’imputato la difesa in «ogni stato e grado del procedimento», non lasciando che cause di forza maggiore, eventi fortuiti o altre circostanze che impediscano la partecipazione del difensore al procedimento, inclusi gravi situazioni sotto il profilo umano e morale, precludano a quest’ultimo il diritto alla difesa tecnica, e, in ultima analisi, al suo diritto inviolabile di difesa in giudizio e diritto al contraddittorio. Cionondimeno è necessario scongiurare che si strumentalizzi l’istituto del legittimo impedimento per fini dilatori concretizzando un diniego di giustizia. La giurisprudenza di legittimità sta lentamente riuscendo a trovare il giusto contemperamento tra queste due opposte esigenze. Nel caso in cui il legislatore volesse sollevare la Suprema Corte da questa responsabilità, si ritiene che una soluzione potrebbe essere quella di “tipizzare” i principi guida, ispirati ai diritti inviolabili dell’uomo, idonei a giustificare le cause che legittimano l’impedimento a comparire del difensore. Se, al contrario, ad essere tipizzate dovessero essere le fattispecie, a causa della molteplicità delle circostanze che nella realtà materiale potrebbero impedire al difensore di essere presente, si rischierebbe di comprimere a priori ed in modo sistematico il diritto alla difesa dell’indagato prima, e dell’imputato poi.


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