Gli incerti confini della responsabilità oggettiva nel sistema penale italiano
La responsabilità penale nell’ordinamento italiano è perimetrata dal principio di colpevolezza. L’art. 27 Cost.,nella parte in cui chiarisce il carattere personalistico di quest’ultima, ripudia ogni criterio di addebito oggettivo, nonché ogni ipotesi di sottoposizione a sanzione penale per fatto altrui.
Un diritto penale ispirato alla logica del favor libertatis e della frammentarietà richiede l’accertamento del nesso psicologico tra il fatto criminoso e la condotta dell’autore. Questa visione, che trova una sua ragion d’essere nella Carta Fondamentale, sembra, tuttavia, essere smentita dall’art. 42 c.p. che, nel definire le fattispecie di responsabilità declinate in chiave soggettiva ( a seconda che si faccia riferimento a quella colposa, dolosa o preterintenzionale), precisa che spetta alla legge definire i casi in cui l’evento è, altresì, posta a carico dell’agente quale conseguenza della propria azione o omissione. Trattasi di un tertium genus di responsabilità penale da taluni qualificata in termini oggettivi; da altri, obiettivi. In entrambi i modi descrittivi, però, essa si connota del mancato accertamento dell’elemento psicologico di cui il soggetto è pervaso nella determinazione del fatto.
In questo senso, l’ammissione di un modello di responsabilità in tal modo definito si pone in contrasto con lo stesso principio previsto dall’art. 27 Cost..
A corroborare quanto si va dicendo, tra l’altro, è stata la Corte Costituzionale che, con le celebri sentenze del 1988 ( Corte Cost. n° 1085/1988; Corte Cost. n° 364/1988) ha chiarito che non possa trovare “terreno” fertile, nel sistema penale italiano, la teoria della responsabilità penale oggettiva.
Il principio di colpevolezza richiede sempre che, ai fini della perimetrazione della responsabilità suddetta , è necessario l’accertamento del contributo psichico fornito dal soggetto agente nella causazione del fatto. Un’attività di indagine che si estrinseca nella valutazione dell’esistenza di uno dei due elementi psicologici del reato: il dolo o la colpa. La Consulta, infatti, a partire dal 1988 ha precisato che il disvalore tra la condotta realizzata dal reo ed il bene giuridico presidiato dalla norma penale – seguendo una concezione normativa della colpevolezza- debba connotarsi almeno dell’indice della colpa, salva l’ipotesi del più grave reato doloso.
I principi in parola, dunque, non vanno considerati in maniera sterile, bensì, interpretati in forza della finalità garantista del diritto penale. In questa dimensione, l’imputato non corre il rischio di vedersi addebitata una responsabilità penale per il verificarsi di un evento che questi non abbia voluto, né causato. Pertanto, la rilevanza argomentativa fornita dal Giudice delle leggi trova corrente applicazione nelle recenti pronunce dei giudici di legittimità. È quanto avvenuto, ad esempio, a partire dal 2007 quando la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, pronunciandosi sul reato di violenza sessuale su minori, ha evidenziato la discrasia sussistente tra la norma penale vigente e l’art. 27 Cost.. La criticità palesata dai giudici atteneva, infatti, all’automatico criterio di imputazione di responsabilità che la disposizione prevedeva in capo all’autore del reato. Più precisamente, la sola consumazione del rapporto fisico tra quest’ultimo e il minore degli anni diciotto, legittimava l’organo giudicante ad irrogare la sanzione penale prevista dal codice. A nulla rilevava, infatti, lo stato dell’errore scusabile quale causa di esclusione della colpevolezza. Problema successivamente risolto attraverso la riforma intervenuta con la legge n° 172/2102 mediante la quale fu introdotto l’art. 609 sexies c.p. che esclude la responsabilità del soggetto agente quando questi abbia agito nell’erroneo convincimento sulla maggiore età della persona offesa.
Il profilo della responsabilità oggettiva, dunque, ha costituito da sempre un campo di confronto che ha coinvolto tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza.
Il dibattito è emerso in ragione delle difficoltà comparse nelle aule di giustizia quando, a fronte dell’accertamento della condotta penalmente rilevante, i giudici si trovavano difronte alla necessità di individuare il criterio di imputazione dell’evento verificatosi nella realtà fenomenologica, diverso e non voluto dall’agente. Da qui il problema volto a comprendere se, di tale evento, l’imputato potesse rispondere a titolo di dolo, di colpa o se fosse ammesso un criterio di imputazione oggettivo. È quanto si riscontra, ancora , nell’art. 586 c.p. ove dalla condotta posta in essere dall’autore dell’illecito ne deriva un fatto diverso e più rave; ovvero, nell’ipotesi di cui all’art. 584 c.p. relativamente al delitto preterintenzionale. In particolare, in tale ultima ipotesi, si palesa la circostanza nella quale l’agente, pur avendo agito violando una norma penale, l’evento conseguenziale alla sua condotta si presenta in maniera diversa e più grave.
È chiaro che l’adesione al principio di colpevolezza, letto in chiave psicologica, induce sempre l’interprete a compiere un’indagine causale tra il fatto prodottosi e il contributo intellettivo dell’autore.
L’impossibilità di addebitare l’evento in misura automatica ed oggettiva, pertanto, risiede nella dimensione protezionistica del diritto penale. D’altro canto, a rendere ancor più complesso il tema in parola è stata la dottrina che, nei cosiddetti reati aggravati dall’evento, ha cercato di fornire valide e diverse soluzioni all’annosa questione, talvolta in maniera infruttuosa.
In particolare, parte di essa ha ritenuto necessario soffermarsi sull’indagine del mero nesso causale tra condotta ed evento, senza dover necessariamente compiersi un’analisi gotica sull’elemento psicologico del reato.
Di avviso contrario, invece, è stata una diversa corrente di pensiero che ha attribuito rilevanza alla regola della prevedibilità in astratto. Impostazione disattesa da quanti, al contrario, hanno ritenuto opportuno propendere per il criterio della prevedibilità in concreto.
Il nodo gordiano, tuttavia, è stato sciolto dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite che, pronunciatesi in materia di cessione di sostanze di stupefacenti, ha chiarito che l’evento diverso e più grave non voluto, sia imputabile a titolo di colpa nella misura in cui l’agente abbia potuto prevedere la possibilità del verificarsi di un differente più grave fatto. Valutazione, secondo i giudici, che l’autore del crimine dovrebbe compiere in considerazione della situazione di fatto che si presenta nella realtà fenomenologica dalla quale egli possa trarre la previsione del verificarsi di un altro evento.
La caratterizzazione in chiave psicologica del principio di colpevolezza trova, però, diverse declinazioni a seconda dell’identità strutturale del reato.
Invero, la fattispecie delittuosa prevista dalla norma penale di parte speciale presenta sempre uno schema strutturale tale da comprendere gli elementi costitutivi del reato. La mancanza di uno di essi determina l’insussistenza dell’illecito penale. Tra questi assume sicuramente un ruolo predominante l’evento, inteso quale situazione scaturente dalla condotta dolosa o colposa dell’uomo.
Ciò posto, ogni riflessione giuridica che possa compiersi sulle modalità di accertamento della responsabilità penale richiede sempre il confronto con quelle circostanze di fatto che, talvolta, incidono sul processo causale del reato.
Variabili che possono condurre al verificarsi di eventi diversi da quelli concretamente voluti dall’autore del crimine o, ancora, incidere su soggetti differenti rispetto a quelli designati.
In entrambi i casi si assiste ad una variazione dell’iter criminis e, al contempo, emergono problemi nell’indagine sul coefficiente psicologico che l’imputato può aver posto ai fini del risultato perseguito.
Siffatta situazione emerge nella fattispecie dell’aberratio ictus e delicti, rispettivamente disciplinati dagli artt. 82 e 83 c.p.. Il primo trova riconoscimento in tutte le circostanze in cui il soggetto agente pone in essere una precisa condotta illecita con l’intento di ledere un predeterminato soggetto, tuttavia, l’azione si concretizza nei confronti di una persona diversa da quella designata. Diversamente, l’aberratio delicti attiene alle ipotesi nelle quali, per un errore nei mezzi di esecuzione del reato, dalla condotta illecita deriva un evento diverso e più grave rispetto a quello voluto dall’agente.
La differenza tra i due istituti, dunque, attiene al bene giuridico presidiato. Nel caso dell’aberratio ictus, infatti, vi è identità tra gli interessi tutelati della norma essendo differenti solo i soggetti portatori di questi ultimi. Nella fattispecie di cui all’art. 83 c.p., invece, si assiste ad una diversità dei beni tutelati. Differenza che si traduce nella manifestazione di un evento non voluto.
In entrambe le ipotesi, comunque, è sorta la necessità di definire i criteri di accertamento della responsabilità penale onde evitare di giungere ad una oggettivizzazione della stessa, in violazione dell’art. 27 Cost.
Nella valutazione dell’aberratio ictus monoffensiva, di cui al primo comma dell’art. 82 c.p., sono emerse considerazioni dottrinali disparate. Ciascuna di queste, infatti, si concentra sulla segmentizzazione del reato. Secondo una prima impostazione la fattispecie prevista dalla norma predetta svolge una sola funzione descrittiva. Essa , cioè, si limita solo a definire la circostanza nella quale il soggetto agente, pur avendo agito con lo scopo di arrecare un’offesa ad un determinato soggetto, lede un’altra persona.
Dunque, seguendo questa corrente di pensiero, non avrebbe senso parlare di perimetrazione della responsabilità penale, in quanto, gli eventi verificatisi sono gli stessi. In altri termini, la differenza non attiene al fatto ma al soggetto. In tal senso, se il reo ha agito con lo scopo di violare una norma penale, risponderà a titolo di dolo anche se la persona offesa sia un’altra rispetto a quella designata.
Tuttavia, la riflessione in parola è stata oggetto di disparate critiche. Si è ritenuto che la ricostruzione dell’accertamento della responsabilità penale cos’ intesa, mal si concilia con il principio di colpevolezza.
Quest’ultimo, infatti, è improntato sulla ricerca della responsabilità delineata, che tenga conto del concreto atteggiamento volitivo del soggetto agente. A fronte di tale lacuna, si è fatta strada nel panorama giuridico un’ altra corrente dottrinale più legata all’idea della scomposizione della fattispecie delittuosa. Tale per cui, l’art. 82 c.p., non andrebbe a perseguire una finalità meramente descrittiva, al contrario, costitutiva. La disposizione, infatti, nella parte in cui chiarisce che il soggetto risponde come se avesse commesso il fatto verso la persona che intendeva colpire, maschera una forma di responsabilità obiettiva.
Alla luce di tale presupposto, quindi, l’impostazione in parola ha cercato di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma. Richiamando, infatti, i principi delineati dalla Corte Costituzionale del 1988 ha precisato che non possa parlarsi al riguardo di alcuna responsabilità obiettiva.
Il principio di colpevolezza richiede sempre una precisa valutazione dell’apporto psicologico fornito dall’autore alla produzione del fatto. Contributo causale che deve, quantomeno, declinarsi nel coefficiente della colpa.
Ciò posto, l’indagine sulla configurazione del reato richiede una precisa valutazione sullo schema dell’illecito penale in considerazione dell’obiettivo voluto e perseguito dall’autore. Fra questo rientra, altresì, l’individuazione della vittima del reato. Ne consegue che la causazione dell’offesa a persona diversa, pur non atteggiandosi nella concretizzazione di un evento diverso (come nel caso dell’aberratio delicti), si pone comunque come variazione dell’iter criminis. Aspetto che richiede una disparata ricerca sull’approccio valutativo compiuto dal reo. Sulla base di queste considerazioni, si è ritenuto, che l’autore prima di porre in essere la condotta incriminata abbia valutato la possibilità che dalla propria azione, la lesione sarebbe stata arrecata a persona diversa. In tal senso, nonostante l’evento prodottosi sia identico, l’egente risponde per l’illecito compiuto a titolo di colpa – nell’accezione di quella con previsione- e non di dolo. Tale ricostruzione , seguita recentemente anche dalla giurisprudenza di legittimità, ha trovato accoglimento nel contesto giuridico in ragione della sua conformità al principio generale della personalità della responsabilità penale. Un’argomentazione senz’altro meritevole di considerazione, in quanto, improntata su una modalità di accertamento della responsabilità che tiene conto della natura sussidiaria del diritto penale e della sensibilità degli interessi messi in gioco.
Il modus operandi in questione, tra l’altro, trova terreno fertile anche nell’ipotesi dell’aberratio ictus plurioffensiva individuata nel secondo comma dell’art. 82 c.p.. Istituto che si configura in tutte le circostanze in cui l’agente lede altre persone differenti rispetto alla vittima designata. Cosicché, anche in questa situazione trova fondamento la ricostruzione costitutiva della norma volta ad una meticolosa indagine sull’elemento soggettivo del reato.
Orbene, non rimane sicuramente esente dal raggio di analisi l’aberratio delicti disciplinata dall’art. 83 c.p.. Relativamente a quest’ultimo, infatti, i riflessi costituzionali del principio di colpevolezza riverberano in maniera consistente. Prima di tutto è doveroso chiarire che l’istituto in parola riguarda le ipotesi nelle quali l’evento concretizzatosi nella realtà è diverso ed ulteriore rispetto a quello rappresentato e voluto dall’agente. Patologica, pertanto, appare l’indagine sulla delimitazione della responsabilità penale. L’analisi ermeneutica della norma citata, d’altro canto, permette di scomporre il reato in una duplice architettura. Da un lato la valutazione dell’imputabilità per il reato base, ovvero, quello che l’autore avrebbe voluto realizzare violando una precisa norma penale; dall’altro, la valutazione sul titolo del coefficiente psicologico (doloso o colposo) concernente l’evento diverso manifestatosi.
Pur non mancando quell’orientamento della giurisprudenza di merito che individua una responsabilità dolosa mista a colpa non sembrano, ad ogni modo, sussistere i presupposti per il riconoscimento di una responsabilità oggettiva o pseudo obiettiva.
I canoni ermeneutici forniti dalla Corte Costituzionale nel 1988, infatti, inducono ad affermare che, anche nel caso di aberratio delicti, il giudice sia chiamato a valutare in concreto il contributo psicologico dell’autore. Il giudizio ex-ante, infatti, permette di considerare che il soggetto attivo prima di realizzare la propria condotta avrebbe potuto prevedere la possibile concretizzazione di un diverso evento. Per questo motivo egli risponderà per il reato in questione a titolo di colpa. Ancora una volta si assiste al superamento della funzione meramente descrittiva della norma nonché delle teorie, sebbene minoritarie, che tendono a definire il problema alla luce l della c.d. regola dell’assorbimento dell’elemento psicologico dell’illecito penale. Impostazione secondo la quale, data la struttura binaria del reato, il coefficiente psicologico di base includerebbe anche quello del reato differente e più grave.
L’accoglimento del principio di colpevolezza, nei termini così delineati, trova spazio nel delitto di cui all’art. 586 c.p..
In questa norma si assiste alla determinazione di una precisa condotta ad opera del soggetto agente che si cristallizza nella determinazione dei reati più gravi di omicidio colposo e lesioni personali.
Ebbene, in questo caso, salvo la maggiorazione di pena, il legislatore prevede che l’autore dell’illecito risponde del reato differente a titolo di colpa.
Vi è, quindi, un rapporto di specialità con l’istituto dell’aberratio delicti di cui all’art. 83 c.p..
Le due disposizioni, come chiarito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, si pongono in una relazione di genere a specie. L’unica diversità attiene alla determinazione del reato più grave ed all’aumento di pena.
In conclusione, le analisi afferenti al profilo psicologico dell’illecito penale costituiscono presupposto indefettibile ai fini dell’accertamento della responsabilità del soggetto agente.
In un sistema penale che pone al centro della riflessione giuridica non l’imputato ma l’uomo, non può trovare radice una responsabilità oggettiva.
Nella dimensione umana, infatti, ogni evento è di regola conseguenza di una condotta estrinsecabile nella forma commissiva o, talvolta, omissiva in forza della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, c.p.. Pertanto, l’attribuzione di un fatto indipendente dalla volontà colpevole del soggetto si tradurrebbe nella violazione della liberta personale dell’imputato. Dinamica non consentita in un ordinamento democratico e garantista, mosso dal principio di frammentarietà del diritto penale ed ispirato al favor libertatis.
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Giuseppe Bisceglia
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