Gli interessi fra usura e anatocismo

Gli interessi fra usura e anatocismo

La l. 108/1996 ha radicalmente modificato il quadro normativo in materia di usura, atteso che il c.d. tasso soglia non viene più stabilito dal giudice discrezionalmente caso per caso, bensì dalla legge.

L’art. 644 c.p. punisce il reato di usura ed è inevitabile un’interferenza con il diritto civile, sicché occorre distinguere tra usura pecuniaria ad interessi da una parte e, dall’altra, usura reale ovvero pecuniaria non ad interessi.

Nel primo caso, il rimedio applicabile è la nullità parziale di cui all’art. 1815, co. 2 c.c. in forza del quale se viene pattuito il pagamento di interessi usurari, quindi eccedenti il tasso soglia di cui sopra, la relativa clausola è nulla e il mutuo si riconfigura come gratuito, perciò non sono più dovuti interessi al mutuante.

Tale considerazione può ragionevolmente estendersi anche ai contratti di finanziamento in generale.

All’opposto, qualora l’usura fosse reale o pecuniaria senza interessi, per una prima opinione l’azione esercitabile è quella di rescissione ex art. 1448 c.c. per lesione ultra dimidium.

Ciò vuol dire che, oltre l’approfittamento dello stato di bisogno di una delle parti ad opera dell’altra con conseguente stipula di un contratto gravemente iniquo, si richiede che il valore della prestazione a carico del contraente bisognoso sia superiore al doppio di quello della controprestazione.

D’altra parte, l’art. 644 c.p., pur prevedendo che il soggetto passivo del reato versi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria, al contempo non tipizza quale presupposto aggiuntivo la lesione di cui sopra.

Ne consegue che, per altri orientamenti, sarebbe preferibile dichiarare la nullità virtuale del contratto ex art. 1418, co. 1 c.c. per violazione del 644 quale norma imperativa ovvero, nell’ipotesi di lesione infra dimidium, attivare la responsabilità precontrattuale da “vizi incompleti” della volontà per ottenere il risarcimento del danno commisurato all’interesse positivo differenziale, giacché il contratto, pur dannoso e sconveniente, resta valido ed efficace.

Esaurita questa premessa, é utile fare una panoramica sulla più recente giurisprudenza nomofilattica a proposito di  tre questioni: l’usura sopravvenuta, l’estensione o meno della disciplina antiusura anche agli interessi moratori, nonché il rapporto tra questi ultimi e gli interessi compensativi.

Per il primo aspetto, le Sezioni Unite con la sentenza n. 24675/2017 hanno optato per la irrilevanza del superamento del tasso soglia in esecuzione del contratto.

Invero, già il legislatore, nel biennio 2000 – 2001 attraverso l’interpretazione autentica della l. 108/1996, aveva stabilito che la valutazione di usurarietà andasse riferita solo a quegli interessi eccedenti il tasso soglia nel momento in cui vengono promessi o convenuti a qualunque titolo, non quando sono pagati.

Ergo, a prescindere dal fatto che la clausola sia stata pattuita prima o dopo la novella del ’96, non può ritenersi contraria al principio di buona fede oggettiva di cui all’art. 1375 c.c. la pretesa del mutuante di ottenere dal mutuatario il pagamento di interessi che sono andati oltre il tasso soglia nella fase di attuazione del rapporto contrattuale e non quando furono convenuti.

Sempre le Sezioni Unite, con un ulteriore pronunciamento (sentenza n. 19597/2020), hanno ritenuto applicabile pure agli interessi moratori la disciplina antiusura, muovendo dall’assunto che tali interessi, unitamente a quelli compensativi, assolvano ad una funzione reintegrativa in senso lato.

Peraltro, già con la sentenza n. 29/2002 la Corte costituzionale, pronunciandosi positivamente sulla legge di interpretazione autentica della 108/1996 e valorizzando l’inciso “a qualunque titolo”, si espresse a favore dell’applicazione delle norme contro l’usura anche agli interessi moratori.

Logico corollario é che la convenzione sul pagamento degli interessi moratori, assimilabile alla clausola penale, dia una tutela non antitetica, ma complementare a quella delle norme sull’usura, ragion per cui due sono i possibili scenari.

Il primo é quello in cui gli interessi de quibus superano il tasso soglia e allora trova applicazione la già citata nullità ex art. 1815, co. 2 c.c.

Se, invece, gli interessi sono pattuiti in misura manifestamente eccessiva, ma non usuraria, a mente dell’art. 1384 c.c. il giudice, anche d’ufficio e in virtù di elementi di prova evincibili ex actis, può ridurne equamente l’importo.

Da ultimo, il giudice nomofilattico é stato chiamato a dare una risposta al seguente quesito : se gli interessi moratori sono usurari, restano dovuti quelli compensativi ovvero la nullità suindicata ha portata generale e non spetta più alcun interesse al mutuante?

Orbene, la Cassazione ha escluso un nesso di reciproca interdipendenza, perciò al netto della non debenza degli interessi moratori quando eccedono il tasso soglia, la nullità non concerne anche a quelli compensativi, se rientrano nei limiti del predetto tasso.

Ferma restando l’applicabilità del 1815, co. 2 c.c., se gli interessi moratori, pur non usurari, sono stati convenuti in misura eccessiva nell’ambito del “secondo contratto” tra professionista e consumatore, la relativa clausola risulta vessatoria e nulla ex artt. 33 e 36 codice del consumo, di conseguenza il tasso degli interessi dovuti é individuabile a mente dell’art. 1224 c.c.

Del resto, se il professionista riesce a confutare la presunzione di vessatorietà, in tal caso, pure nell’ambito del secondo contratto, il giudice potrebbe ridurre equamente l’importo degli interessi convenuti in forza dell’art. 1384 c.c.

Un esempio tipico di secondo contratto con una parte forte e l’altra debole é quello bancario.

Difatti, quella di raccolta del risparmio, esercizio del credito e intermediazione nella circolazione del denaro altro non é che un’attività di impresa commerciale e l’istituto di credito che la esercita dispone di una serie di informazioni ignote al cliente a nocumento del quale il professionista potrebbe abusare di questa asimmetria per l’appunto informativa.

In questo frangente, viene in rilievo l’anatocismo, ovverosia la capitalizzazione di interessi scaduti da almeno sei mesi e che producono, a loro volta, ulteriori interessi.

Orbene, contenendo l’art. 1283 c.c. nel suo incipit l’espressione “in mancanza di usi contrari”, sul finire degli anni ’90 la Cassazione ritenne contrastante con tale norma la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito, inserita unilateralmente nei contratti bancari e invalsa in virtù di un mero uso negoziale, non normativo, quindi mancante della c.d. opinio iuris ac necessitatis.

Peraltro, vi era un’evidente disparità di trattamento rispetto alla clausola di capitalizzazione degli interessi a credito con una periodicità, invece, annuale.

Con il D.lgs. 342/1999 il legislatore, preso atto del mutamento giurisprudenziale, attribuì al CICR (Comitato interministeriale per il credito e il risparmio) il potere di fissare criteri e modalità di calcolo degli interessi anatocistici e inserì nell’art. 120 T.U.B. una norma, ancora oggi esistente, che autorizza la capitalizzazione degli interessi a credito e a debito nei rapporti di conto corrente o di conto di pagamento, purché ciò avvenga con la stessa periodicità, in ogni caso non inferiore ad un anno.

Allo stesso tempo, però, il legislatore attuò una sanatoria di tutte le clausole di capitalizzazione trimestrale antecedenti e, in ordine a questa previsione, a distanza di un anno la Consulta, con la sentenza n. 425/2000, dichiarò il decreto illegittimo per eccesso di delega.

Le Sezioni Unite (n. 21095/2004), nel solco del pronunciamento della Consulta, dichiarò nulla ogni clausola di capitalizzazione trimestrale di interessi a debito pattuita fino al 22 aprile 2000, data di entrata in vigore del primo provvedimento del CICR su criteri e modalità di calcolo degli interessi anatocistici.

Ciò diede la stura al moltiplicarsi delle azioni di ripetizione di indebito ex art. 2033 c.c. da parte dei correntisti, ragion per cui le Sezioni Unite dovettero intervenire nuovamente (24418/2010), affermando che, preclusa la conversione della clausola di capitalizzazione trimestrale in annuale, il termine di prescrizione decennale decorreva dalla data di chiusura definitiva del conto corrente.


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Jacopo Bracciale

Dopo aver conseguito la maturità classica con una votazione finale di 100/100, mi sono laureato cum laude in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Teramo con una tesi in Teoria generale del diritto dal titolo "Il problema dei principi generali del diritto nella filosofia giuridica italiana". In seguito, ho svolto con esito positivo presso il Tribunale di Teramo il tirocinio formativo teorico - pratico di 18 mesi ex art. 73 D.L. 69/2013 : per un anno nella Sezione Penale e, nei restanti sei mesi, in quella Civile. Parallelamente ho frequentato e, ancora oggi, frequento il corso di Rocco Galli per la preparazione al concorso in magistratura. Dal mese di novembre del 2020 collaboro con la rivista scientifica Salvis Juribus come autore di articoli di diritto civile, penale ed amministrativo.

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