Gli strumenti dell’equilibrio contrattuale: adeguamento del corrispettivo e rinegoziazione

Gli strumenti dell’equilibrio contrattuale: adeguamento del corrispettivo e rinegoziazione

Sommario: 1. L’equilibrio negoziale nei contratti pubblici – 2. Il Principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale fra vecchio e nuovo codice – 2.1. Il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale nel D.Lgs. 50/2016 – 2.2. Il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale nella disciplina emergenziale – 2.3. Il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale nel D.Lgs. 36/2023 – 3. Gli strumenti dell’equilibrio contrattuale – 3.1. Il diritto alla rinegoziazione – 3.2. La revisione prezzi – 3.2.1. Evoluzione normativa e giurisprudenziale – 3.2.2. La revisione prezzi nel nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 36/2023) – 4. Conclusioni

 

1. L’equilibrio negoziale nei contratti pubblici

Costituisce insegnamento noto quello per cui l’intera disciplina dei contratti commutativi (quale, a titolo esemplificativo, il contratto d’appalto) si regge, fra gli altri, sul principio di corrispettività fra prestazione e controprestazione.

L’equilibrio sinallagmatico nell’ambito dei menzionati rapporti negoziali assume un rilievo tale che, ove risulti carente sin dal momento di perfezionamento dell’accordo (mancanza del c.d. sinallagma genetico), il contratto viene attinto addirittura da nullità per difetto di causa.

Al contrario, se la sproporzione fra le prestazioni insorga in corso di esecuzione per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili (al ricorrere, cioè, di una violazione del sinallagma funzionale), al contraente penalizzato è riconosciuta la possibilità di esperire, quale rimedio civilistico, la risoluzione del contratto a meno che la controparte non si offra di modificare equamente le condizioni negoziali (trattasi dell’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità) [1].

Nel medesimo solco si pone, inoltre, la disciplina di cui all’art. 1664 c.c., il quale, in costanza dei medesimi presupposti sperequativi, consente alla parte sfavorita, senza giungere necessariamente al rimedio demolitorio, di agire per ricondurre il rapporto ad equità previa revisione dei prezzi originariamente concordati[2].

Il principio in discussione, quindi, generale e consolidato in materia di contratti commutativi a esecuzione continuata o periodica o differita, impone che, tanto in fase di genesi dell’accordo quanto in fase esecutiva, l’equilibrio fra le prestazioni negoziali esista e sia preservato; un rapporto giuridico patrimoniale, ove non altrimenti disciplinato, non può essere mantenuto in vita quando siano venute meno, in misura notevole, le condizioni di equilibrio sulle quali è sorto[3].

La solidità del canone in questione appare, tuttavia, destinata a mostrare importanti incrinature– o almeno lo era sino all’entrata in vigore del d.Lgs. 36/2023 – ove solo ci si chieda se esso effettivamente si applichi sempre e ad ogni contratto commutativo indipendentemente dalla natura dei contraenti ed, in particolare, se esso goda della medesima forza e della stessa innegabile efficacia riconosciuta in ambito civilistico qualora si discorra d’appalti pubblici.

Un possibile approccio potrebbe indurre a richiamare la teoria bifasica negli appalti pubblici.

La sistematica dei contratti pubblici viene tradizionalmente scomposta secondo uno schema – logico e cronologico – di tipo “bifasico”, nel quale si succedono due sequenze caratterizzate da un differente regime giuridico: la fase di scelta del contraente e quella di esecuzione del contratto.

Nella prima – anche detta fase “pubblicistica” – l’amministrazione agisce secondo moduli autoritativi, scanditi dagli atti del procedimento selettivo ad evidenza pubblica, disciplinato dalla legge in armonia con le direttive europee e retto dai principi di concorrenza e favor partecipationis, non discriminazione e par condicio, trasparenza e pubblicità, proporzionalità ed economicità. Nella seconda, che si svolge nel solco del rapporto contrattuale instaurato con l’aggiudicatario, l’amministrazione opera, di regola, in veste di contraente e quindi in posizione di tendenziale parità con la controparte privata, secondo le regole del diritto comune[4].

Secondo la menzionata teoria, quindi, successivamente al perfezionamento del contratto il rapporto fra PA e appaltatore sarebbe regolato, per lo più, jure privatorum; allo stesso, pertanto, sarebbero applicabili gli istituti dettati dal c.c. fra cui, appunto, quello di cui ai richiamati artt. 1467 e 1664 c.c.

Ne discenderebbe il corollario per cui anche nell’ambito di appalti pubblici, in caso di sopravvenienze sperequative impreviste ed imprevedibili, potrebbe riconoscersi il pieno diritto dell’appaltatore di invocare la risoluzione per eccessiva onerosità giusto art. 1467 c.c., ovvero la revisione del prezzo nei termini di cui all’art. 1664 c.c.

Semplice e lineare sotto il profilo logico, come detto, eppure la logica, come spesso accade, tende ad obliterare obiezioni che al giurista non possono sfuggire.

Esattamente come per il Manzoni risultava impossibile tracciare fra ragione e torto una linea di demarcazione tanto netta “che ogni parte abbia soltanto dell’una e dell’altro”[5], anche per la disciplina degli appalti pubblici appare impossibile distinguere in termini netti la fase pubblicistica da quella privatistica, tanto da ritenere che quest’ultima rimanga del tutto immune ed impermeabile alla natura pubblicistica di uno dei contraenti interessati.

La più recente dottrina è giunta, difatti, a tratteggiare il carattere solo tendenziale della tradizionale ricostruzione “bifasica” (della vicenda) dei contratti pubblici[6].

La natura pubblicistica del Committente e la valenza collettiva dell’interesse da questi perseguito riverberano la propria incidenza non solo in fase procedimentale dell’appalto pubblico, ma anche in fase contrattuale; di talché la completa e totale equiparazione su piano paritario fra le parti in fase negoziale costituisce espressione di una lettura fondamentalista della teoria bifasica, la quale però mal si concilia con l’evidenza per cui anche in fase esecutiva sono riconosciute all’Amministrazione molteplici posizioni autoritative, tramite le quali le è consentito di imporre la propria volontà alla controparte.

Vi è stato un tempo in cui parte della dottrina era giunta a negare in radice il carattere autenticamente contrattuale delle fattispecie negoziali pubbliche e ad enfatizzarne piuttosto la continuità rispetto alla fase pubblicistica in cui l’amministrazione esercita autentiche situazioni di potere[7].

Questo tempo, tuttavia, si è oramai esaurito e la tesi del tutto superata; cionondimeno non può sottacersi che, dall’analisi dell’attuale assetto normativo degli appalti pubblici, emerge chiara la volontà del Legislatore di tener conto e valorizzare, anche in fase contrattuale, la priorità assunta dall’interesse collettivo perseguito dal contrente pubblico rispetto a quello condotto dall’appaltatore privato e ciò, come detto, non consente di aderire pedissequamente alla versione più integralista della tesi bifasica.

Potrebbe giovare, a questo punto, volgere lo sguardo al c.d. “paradigma della specialità”, sintetizzato dalla dottrina in materia di appalti pubblici ed affermatosi, con crescente evidenza, negli ultimi decenni.

Secondo i più recenti studi, il contratto pubblico dev’essere considerato alla stregua sì di un autentico contratto – e non di mera appendice della fase di affidamento -, ma ad esso vanno riconosciuti, anche all’indomani della conclusione della fase di aggiudicazione, significativi caratteri di “singolarità” rispetto alle fattispecie tra privati.

L’appalto pubblico assume connotati di specialità, collocandosi nel medesimo genus dell’appalto fra privati, ma qualificandosi come species distinta in ragione della natura pubblica del Committente e del tenore collettivo degli interessi da questi perseguiti[8].

La specialità ontologica che connota il negozio in questione, ovviamente, si riflette ed infonde tale connotazione anche alla normativa che lo disciplina; di talché è ben possibile sostenere che fra le fonti legislative dirette a regolamentare gli appalti pubblici e quelle civilistiche dirette a regolare l’appalto tra privati esista un rapporto di specialità, con conseguente prevalenza delle prime su queste ultime nello specifico ambito di pertinenza[9].

L’impostazione testè delineata implica importanti ricadute, le quali non mancano di gravare anche sulla possibilità di ritenere immediatamente applicabili ai contratti pubblici d’appalto gli istituti compensativi disciplinati dal codice civile.

Sul punto merita d’essere evidenziato, per completezza di analisi, come una parte della giurisprudenza – invero anche nel recente passato – abbia ritenuto di avvalorare la tesi della piena esperibilità dei rimedi civilistici anche nell’ambito di contratti pubblici d’appalto[10].

Tale ermeneusi, tuttavia, è rimasta minoritaria e di fatto priva di grosse conferme se è vero, com’è vero, che ad oggi l’indirizzo ampiamente prevalente tende a fornire una lettura di senso contrario.

Il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che i contratti ad oggetto pubblico non sono disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma meramente dai “principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti”, sempre “in quanto compatibili” e salvo che “non diversamente previsto”» (così Consiglio di Stato, sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3653).

Tale affermazione è valsa, quindi, ad escludere una mera trasposizione automatica dei rimedi civilistici, offerti nel caso di eccessiva onerosità sopravvenuta, nel settore dei contratti pubblici. Lo hanno ribadito con forzai giudici di Palazzo Spada, i quali hanno richiesto, nel predetto arresto giurisprudenziale, una «verifica puntuale e in concreto del tipo di contratto considerato».

In linea con tale arresto anche l’ANAC ha recentemente ribadito che “l’inapplicabilità dell’art. 1664 c.c. agli appalti pubblici è stata affermata dalla giurisprudenza amministrativa alla luce del principio di specialità della disciplina dettata in materia dal codice dei contratti pubblici; ancorché tale orientamento si riferisca al d.lgs. 163/2006, il predetto principio di specialità sembrerebbe confermato dalla disposizione dell’art. 106, co. 1, lett. a) del D. Lgs. 50/2016, anche alla luce dell’obbligo, oggi imposto dall’art. 29 della l. 25/2022, di inserire nei bandi di gara specifiche previsioni in materia di revisione dei prezzi[11]

Il principio di specialità, quindi, è quello su cui – almeno per il momento – la giurisprudenza prevalente e l’Autorità garante convergono nel delineare il rapporto esistente fra la disciplina che regola i contratti in cui sia parte la Pubblica Amministrazione e quelli fra privati.

Se così è, quindi, l’indagine sugli strumenti di perequazione applicabili ai contratti pubblici d’appalto non può che abbandonare il tentativo, fin’ora abbozzato, di ravvisare l’applicabilità di rimedi civilistici all’ambito pubblico, per virare verso una puntuale disamina delle norme specifiche che regolano tale tipologia di negozi, ossia di quei corpi normativi che, succedutisi con frequenza vertiginosa negli ultimi anni, vanno sotto il nome di Codice dei Contratti Pubblici.

2. Il Principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale fra vecchio e nuovo codice

L’assetto normativo che attualmente regola la disciplina degli appalti pubblici è connotato – e lo sarà per qualche anno ancora – da una sorta di stratificazione (rectius, di coabitazione) fra norme.

Ci si riferisce, nello specifico, al fenomeno per cui, pur essendo oramai entrato pienamente in vigore il più recente d.Lgs. 36/2023, permangono molti contratti, in particolare di servizi o forniture a prestazione continuativa e di durata, i quali vanno ancora sotto l’imperio del D.Lgs. 50/2016.

Come noto, difatti, il D.Lgs. 36/2023 ha assunto piena vigenza a partire dal 31/07/2023, mentre ai procedimenti in corso a tale data continuano ad applicarsi le norme di cui al precedente codice[12].

La pletora di contratti pubblici che ancora oggi soggiacciono all’ultravigenza del d.Lgs. 50/2016 impone di analizzare anche questo testo normativo, tanto più considerato che il confronto fra lo stesso ed il nuovo Codice di recente conio, può fornire la chiara evidenza della radicale evoluzione a cui, nei soli 7 anni intercorsi fra l’entrata in vigore dei due corpi normativi, la disciplina dei rapporti negoziali pubblici sia andata incontro, particolarmente nell’ambito degli istituti in analisi.

2.1. Il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale nel D.Lgs. 50/2016

Giova premettere sin da subito che il precedente Codice Appalti non riservava alcuna menzione, benché minima, al principio in questione.

E’ sicuramente emblematico che un testo normativo composto di ben 220 articoli e 25 allegati ed il quale sia diretto, fra l’altro, a disciplinare rapporti contrattuali a prestazioni corrispettive, obliteri di riconoscere espressamente la conservazione dell’equilibrio contrattuale come valore fondamentale della disciplina degli appalti pubblici; così come è significativa la mancanza di norme imperative che impongano, ove necessario, l’adozione di misure funzionali alla  preservazione del sinallagma contrattuale.

Si suol dire che quello del 2016 abbia rappresentato il “codice dell’anticorruzione”, ciò sicuramente per il contributo fornito dall’ANAC nella sua stesura e per gli ampi poteri che all’Autorità venivano riconosciuti tanto in sede di regolazione (soft regulation) quanto in sede decisoria[13], resta tuttavia forte l’impressione che la menzionata definizione sia stata meritata anche per il particolare approccio impartito al rapporto pubblico-privato.

La lettura della norma, nel suo complesso, lascia chiaramente intendere come la stessa fosse del tutto intesa a realizzare, sotto il profilo economico, obiettivi evidentemente diretti a preservare gli interessi della PA, in questo delineando una disciplina attenta a porre puntuali presidi preventivi rispetto a possibili abusi a danno dell’Amministrazione senza, di contro, contemplare istituti che, ove effettivamente necessario, potessero fungere da contrappeso per contemperare le citate esigenze di tutela del contraente pubblico con le parimenti meritevoli esigenze di tutela del privato.

Si potrebbe essere indotti a ritenere che il mancato richiamo al principio di equilibrio nel precedente codice sia ascrivibile alla volontà di evitare la ridondanza determinata dal fatto che esso, quale valore immanente nel nostro ordinamento, non richiederebbe un’espressa previsione.

Tale tesi, tuttavia, non può convincere.

In primo luogo, difatti, ove così fosse, sarebbe stato legittimo attendersi dal Legislatore del 2016, se non l’espressa riaffermazione del principio, quantomeno l’emanazione di una disciplina degli istituti idonea a potervi dare concreta attuazione in una logica di pari dignità fra le posizioni dei contraenti; ciò, come meglio si vedrà di seguito, non è accaduto.

In secondo luogo, poi, è lo stesso tenore del nuovo codice del 2023 a smentire tale lettura. Allorché lo abbia ritenuto necessario, difatti, il Legislatore ha avuto cura di esprimere e positivizzare il principio in questione, addirittura ponendolo fra quelli che costituiscono i canoni fondamentali che reggono l’intero impianto normativo in materia di appalti pubblici (Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).

Le precedenti considerazioni corroborano l’idea per cui nel codice del 2016 sia stata operata una scelta chiara e consapevole.

Non bisogna dimenticare che i lavori di elaborazione e l’emanazione stessa del codice del 2016 si collocano in un periodo di fervore da “spending review”, ossia in un periodo storico connotato dalla particolare attenzione riversata sulla razionalizzazione della spesa pubblica e dalla crociata contro “gli sprechi della pubblica amministrazione”.

In seguito all’emergenza finanziaria del 2011-2012, difatti, il processo di analisi della spesa ha subito un vertiginoso impulso con l’emanazione di alcuni decreti mirati al risanamento dei conti pubblici.

A titolo puramente esemplificativo, una forte accelerazione del programma di revisione della spesa, in ragione delle straordinarie condizioni di necessità e urgenza del momento, è alla base dell’istituzione (con il decreto legge n. 52 del 2012) di un Comitato interministeriale con compiti di indirizzo e coordinamento in materia di spending review e, successivamente, della nomina di un Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa (decreto legge n. 69/2013). Il decreto legge dettava una serie di norme sostanziali riguardanti il miglioramento della qualità delle procedure di acquisto centralizzato di beni e servizi, incrementandone significativamente l’utilizzo. Venne introdotto l’obbligo, da parte di tutte le pubbliche amministrazioni, di rispettare i parametri prezzo-qualità dei bandi Consip per le procedure di acquisto di beni e servizi comparabili, nonché la pubblicazione da parte dell’Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture dei dati sugli acquisti delle pubbliche amministrazioni e la trasmissione degli stessi al Ministero dell’economia e delle finanze e alla Consip[14].

Il clima entro il quale si è evoluta la gestazione del codice del 2016, ad ogni modo, ha trovato la sua massima espressione nel disposto dell’art. 9 ter d.l. 78/15, conv. in L. n. 125/15.

Tale norma, difatti, imponeva agli enti del servizio sanitario nazionale di proporre ai fornitori di beni e servizi una rinegoziazione dei contratti in essere, con l’obiettivo di conseguire una riduzione su base annua del 5 per cento del valore complessivo dei contratti in essere. La medesima norma, inoltre, stabiliva che, in caso di mancato accordo con i fornitori in merito alla suddetta rimozione, gli enti del Servizio sanitario nazionale avrebbero maturato il diritto di recedere dal contratto, in deroga all’articolo 1671 del codice civile, senza alcun onere a carico degli stessi, fatta salva la facoltà del fornitore di recedere dal contratto entro trenta giorni dalla comunicazione della manifestazione di volontà di operare la riduzione.

Come evidente, quindi, all’alba del Codice del 2016, l’interesse prioritario verso cui la produzione normativa convergeva in senso uniforme era quello di ‘razionalizzazione della spesa’ e ‘risanamento dei conti pubblici’, al cui perseguimento, come visto, veniva tranquillamente sacrificato, non solo il principio di equilibrio, ma anche ogni finalità manutentiva del rapporto, essendo addirittura stato legittimato il ricorso a misure demolitorie del contratto in essere in caso di mancato accordo sullo sconto da praticare.

La lettura del D.Lgs. 50/2016, specialmente sotto il profilo di nostro interesse, non può prescindere dalla consapevolezza che la produzione normativa che vi ha dato vita è stata fortemente influenzata – come, d’altronde, è naturale attendersi –  da canoni e interessi al tempo ritenuti prevalenti, il cui precipitato principale risiedeva nell’impedire, o quantomeno ridurre radicalmente, qualunque possibilità di variazione dei termini contrattuali che, in corso di esecuzione, potesse condurre ad un incremento di costi ed all’incertezza delle spese che sarebbero gravati in capo alla P.A.; ciò, con ogni probabilità, anche nel tentativo di erigere nuovi e – nelle intenzioni – invalicabili presidi atti a scongiurare fenomeni di natura corruttiva.

Ferme le considerazioni precedentemente svolte, appare comunque opportuno rimarcare che il Codice del 2016 non risulta del tutto privo di una disciplina di revisione del contratto.

Il D.lgs. 50/2016, difatti, dando attuazione alle direttive del 2014 (artt. 72, 89 e 43 rispettivamente dir. n. 24, n. 25 e n. 23), ha regolamentato le ipotesi di modifiche contrattuali agli artt. 106 (appalti) e 175 (concessioni), seguendo tuttavia una logica restrittiva, improntata su un generale disfavore per soluzioni che potessero alterare surrettiziamente il gioco della concorrenza incidendo sostanzialmente sulla natura del contratto, e che vedevano l’Amministrazione ancora unica titolare della potestà di rinegoziazione, a fronte della posizione di interesse legittimo dell’impresa affidataria.

Il Legislatore del 2016, d’altronde, ha dato ampia dimostrazione di considerare le eventuali modifiche del contratto – ed in particolare quelle riferite al corrispettivo – sempre e solo come eventi anomali e potenzialmente lesivi dei principi di economicità, concorrenza, evidenza pubblica, non mai invece come momenti che, per circostanze sopravvenute, debbano intendersi del tutto necessari ed addirittura connaturati nei rapporti negoziali, soprattutto in quelli di durata a prestazione periodica o continuativa[15].

Ne è derivata una rigida tipizzazione dei motivi legittimanti le modifiche in corso d’opera.

Con riferimento a quelle che incidano esclusivamente sul corrispettivo, in particolare, è significativo che le stesse fossero consentite solo in presenza di un’espressa previsione della legge di gara in clausole chiare, precise e concordanti[16].

In assenza di specifiche norme della lex specialis, quindi, nessuna possibilità di adeguamento del corrispettivo doveva intendersi consentita, a prescindere dalla circostanza che la relativa esigenza fosse provocata da sopravvenienze imprevedibili e non riconducibili a responsabilità di alcuno dei contraenti[17].

2.2. Il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale nella disciplina emergenziale

L’approccio agli istituti della rinegoziazione e revisione del corrispettivo negli appalti pubblici ha senz’altro risentito del grave impatto prodotto dai noti eventi emergenziali.

La pandemia da COVID-19 ed il conflitto bellico russo-ucraino si sono rivelati banchi di prova dinanzi ai quali lo ius condito s’è scoperto del tutto inadeguato ed anzi, sotto molti profili, addirittura deleterio, poiché il rigore e le restrizioni positivizzate dal Legislatore del 2016, hanno rischiato di gravare il tessuto economico di un carico esiziale, al punto da richiedere, fra il 2020 ed il 2023, reiterati interventi nomofilattici e normativi i quali giungessero a mitigarne e correggerne termini e modalità di applicazione.

Si rammenti che il fenomeno pandemico in Italia ha iniziato a manifestare il proprio impatto, imponendo restrizioni ed estreme misure preventive, a decorrere dal mese di marzo 2020; già  nel mese di luglio dello stesso anno, a distanza di soli 5 mesi, si è reso necessario un intervento interpretativo e di indirizzo da parte degli Ermellini.

Con la relazione tematica n. 56 del 8 luglio 2020, difatti, la Suprema Corte ha tentato di dare riscontro alle invocazioni che da più parti del tessuto imprenditoriale italiano si elevavano al fine di rappresentare una condizione di estrema difficoltà e l’impossibilità di farvi fronte tramite il ricorso agli strumenti normativi disponibili.

L’intervento in questione, non a caso, debutta con una chiara presa di coscienza: “ Lo shock economico da pandemia mette sul tavolo due problematiche interconnesse: quella della gestione delle sopravvenienze perturbative dell’equilibrio originario delle prestazioni contrattuali; quella dei correlati rimedi di natura legale e convenzionale. Le problematiche attengono alla fase esecutiva di tutti i contratti sinallagmatici, che in quanto tali ottemperano ad una funzione di scambio nel cui quadro una prestazione è in funzione dell’altra ed il vizio o difetto che colpisce la prima incide sulla seconda. Il legame fra le due prestazioni – il c.d. sinallagma – è essenziale poichè qualora una delle prestazioni venga a mancare, l’altra diviene sproporzionata vanificando il senso dell’operazione programmata”

Il canone espresso dai Giudici della Cassazione è chiaro ed è diretto ad affermare che il rimedio demolitorio non può essere l’unico attuabile ove l’equilibrio contrattuale venga infranto; è necessario, al contrario, profondere ogni possibile sforzo, prima di giungere all’infrazione del rapporto, per ristabilire il corretto sinallagma fra le prestazioni e ripristinare l’equilibrio contrattuale, riconducendolo entro limiti di sostenibilità[18].

Non v’è chi non possa ravvisare nei concetti espressi dagli Ermellini fondate ragioni di natura logica, prima ancora che giuridica, e non v’è chi non possa condividere, alla luce dei valori di cui il nostro sistema giuridico suole ammantarsi, le argomentazioni addotte dall’Interprete; eppure il fatto stesso che questo intervento si sia reso necessario, fornisce l’esatta cifra della totale inadeguatezza delle leggi vigenti e, come l’urlo del fanciullo all’indirizzo del re nudo, disvela agli occhi di tutti le gravi mancanze da cui la disciplina dei contratti – pubblici e privati – risulta trapunta e che, tollerabili o mascherabili in condizioni di ordinaria amministrazione, son causa di tracollo, se non rimosse, allo spirare d’un vento imprevisto.

In disparte ogni considerazione in merito all’articolato – ed a tratti sofistico – sforzo argomentativo operato dagli Ermellini per sostenere che il diritto alla rinegoziazione del rapporto contrattuale sia in qualche modo rinvenibile fra le pieghe dell’ordito normativo tratteggiato da alcuni articoli del codice civile[19], è significativo che poi i medesimi Giudici per poter individuare una base legale solida su cui fondare l’obbligo di rinegoziazione, siano costretti a ricorrere al buon vecchio principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto.

Secondo i Giudici di Legittimità, difatti, “la risposta all’esigenza manutentiva del contratto e di rinegoziazione necessaria del suo contenuto va ritrovata nell’attuale diritto dei contratti riletto al lume del principio di solidarietà e rivitalizzato in un’ottica costituzionalmente orientata attraverso la clausola di buona fede, che di quel principio è il portato codicistico. La clausola generale di buona fede diviene, in questa prospettiva, garanzia di un comportamento corretto nella fase di attuazione delle previsioni contrattuali. In virtù della valutazione economico-giuridica del criterio della bona fides e degli obblighi di cooperazione fra le parti nella fase esecutiva del contratto, l’adeguamento del contenuto di quest’ultimo connesso all’obbligo di rinegoziare non contraddice l’autonomia privata, in quanto adempie alla funzione di portare a compimento il risultato negoziale prefigurato ab initio dalle parti, allineando il regolamento pattizio a circostanze che sono mutate […] La rinegoziazione, a fronte di sopravvenienze che alterano il rapporto di scambio, diventa, pertanto, un passaggio obbligato, che serve a conservare il piano di costi e ricavi originariamente pattuito, con la conseguenza che chi si sottrae all’obbligo di ripristinarlo commette una grave violazione del regolamento contrattuale.  Ed allora l’obbligo di rinegoziazione ex bona fide non urta, ma, al contrario, rispetta l’autonomia negoziale delle parti che un siffatto dovere non abbiano manifestamente escluso: l’obbligo infatti, assecondando l’esigenza cooperativa propria dei contratti di lungo periodo, consente la realizzazione e non la manipolazione della volontà delle parti.”

E’ bene evidenziare che, il canone da ultimo richiamato, comunque si voglia intendere la natura del rapporto negoziale intercorrente fra Pubblica Amministrazione e appaltatore privato, assume carattere generale alla cui osservanza non può sfuggire la conduzione delle commesse pubbliche[20]; in quest’ambito, anzi, esso è stato a più riprese e reiteratamente confermato ben prima che ciò si rendesse necessario per via dell’emergenza e che, infine, fosse cristallizzato come principio fondamentale all’art. 5 del D.Lgs. 36/2023 [21].

Si può dunque ritenere che l’intervento della Suprema Corte abbia introdotto il riconoscimento generalizzato di un diritto all’attuazione di misure perequative volte a ristabilire il sinallagma contrattuale?

Per rispondere a questa domanda occorre operare una rapida puntualizzazione.

Il diritto alla rinegoziazione, difatti, non deve in alcun modo essere confuso e sovrapposto con il diritto al ripristino dell’equilibrio contrattuale. Se il primo, difatti, comporta l’obbligo di intavolare trattative secondo correttezza e buona fede, il secondo sarebbe ravvisabile solamente ove, per norma di legge o disposizione negoziale, fosse riconosciuta al contraente leso una posizione potestativa tale da poter imporre l’attuazione delle necessarie misure di perequazione[22].

L’intervento della Cassazione, per quanto pregevole sotto il profilo accademico, quindi, rischiava di rimanere un mero atto d’indirizzo vacuo e sterile benché meritorio, se non fosse stato seguito da interventi normativi idonei a positivizzare rimedi concreti ed immediatamente attuabili, i quali prescindessero da lunghi e spesso estenuanti confronti con la P.A. e non lasciassero margini di discrezionalità in capo a quest’ultima.

Sotto questo profilo assume sicura rilevanza il profluvio di norme emergenziali che, ad intervalli pressocché regolari, sono intervenute a puntellare la disciplina dei contratti pubblici (per lo più in forma di decreto legge).

In quest’ottica, merita d’essere menzionato l’art. 29 del d.l. n. 4/2022 (c.d. decreto Sostegni-Ter), che – con riferimento ai contratti banditi dal 27/1/2022 sino al 31/12/2023 – reintroduceva (temporaneamente, sino al 31/12/2023, e per tutti gli appalti di lavori, servizi e forniture) l’obbligatorietà delle clausole di revisione prezzi, come già in precedenza prevista dal c.d. Codice de Lise (art. 115 del d.lgs. n. 163/2006).

Vi è stata poi una dettagliata disciplina destinata ai soli appalti di lavori.

Solo relativamente a questi ultimi, difatti, la medesima norma prevedeva che (in deroga a quanto stabilito dall’art. 106 del d.lgs. n. 50/2016) fossero attribuite compensazioni alle imprese se le variazioni di prezzo dei singoli materiali da costruzione avessero superato il 5% del prezzo rilevato nell’anno di presentazione dell’offerta, sulla base delle rilevazioni dei prezzi effettuate semestralmente dal Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili (MIMS). La compensazione sarebbe stata limitata all’80% dell’aumento dei prezzi in eccedenza alla percentuale di invarianza del 5%.

E’ evidente come la norma in discussione, assai analitica, non lasciasse margine alcuno a valutazioni discrezionali.

In presenza dei presupposti oggettivi nella stessa indicati, il contraente leso avrebbe potuto vantare un diritto pieno alla compensazione e quindi al rispristino dell’equilibrio contrattuale, senza necessità di negoziazione e senza alea di rifiuto da parte dell’Amministrazione[23].

Nel medesimo solco tracciato dalla disciplina derogatoria testè richiamata, si è poi posta l’ulteriore produzione normativa resasi necessaria a seguito dello scoppio del conflitto bellico.

Gli artt. 25 del d.l. n. 17/2022 e 23 del d.l. n. 21/2022  (c.d. Decreti Ucraina) hanno, difatti, riattivato il sistema di compensazioni previsto dall’art. 1-septies del d.l. n. 73/2021 ai contratti in corso di esecuzione, consentendo altresì anticipazioni sugli importi non ancora accertati, in deroga alla disciplina di cui agli artt. 133 del d.lgs. n. 163/2006 e 106 del d.lgs. n. 50/2016.

L’art. 26 del d.l. n. 50/2022 (c.d. Decreto Aiuti) ha infine previsto di applicare i prezziari aggiornati ai contratti già stipulati, anche in deroga a specifiche clausole contrattuali e, al contempo, disposto l’abrogazione dello speciale sistema compensativo previsto dall’art. 25 del d.l. n. 17/2022 (che pure avrebbe dovuto operare solo per il primo semestre del 2022).

La rapida rassegna testé esposta rende evidente, in primo luogo, con quale affanno il Legislatore abbia tentato di risolvere ex post situazioni di squilibrio negoziale che si erano già verificate e rispetto alle quali, come già più volte ribadito, l’ordinamento risultava del tutto inadeguato.

Emerge, inoltre, come ogni intervento di urgenza sia stato diretto a porre misure manutentive, concrete ed effettive, le quali, comunque in deroga al dettato normativo del Codice Appalti vigente, potessero realmente assicurare la conservazione dell’equilibrio contrattuale tramite strumenti revisionali del corrispettivo[24].

La richiamata produzione normativa, benché caratterizzata da temporaneità ed a volte da scarsa coerenza complessiva, oltre che per le ricadute favorevoli prodotte in fase di piena crisi, ha assunto importanza per aver costituito la gemma da cui poi è germogliata la disciplina, consacrata nel d.Lgs. 36/2023, che, sotto il profilo di interesse, appare di certo più equilibrata e coerente con i generali principi del nostro ordinamento.

2.3. Il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale nel D.Lgs. 36/2023

Con la legge 21 giugno 2022, n. 78, il Parlamento, delegando al Governo il compito di adottare uno  o   più   decreti legislativi recanti la disciplina dei contratti  pubblici, ha posto quale criterio direttivo, fra gli altri, la previsione dell’obbligo per le stazioni appaltanti di inserire nei bandi di gara, negli avvisi e inviti, in relazione  alle  diverse tipologie di contratti pubblici, un regime obbligatorio di  revisione dei  prezzi  al  verificarsi  di  particolari  condizioni  di  natura oggettiva  e  non   prevedibili   al   momento   della   formulazione dell’offerta[25]

Nell’assolvere al compito ricevuto, la commissione all’uopo costituita ha coniato un codice il quale, all’evidenza, risente della influenza predominante dei Giudici del Consiglio di Stato che vi hanno concorso e che si manifesta, per quanto qui interessi, nell’approccio alla materia dei contratti pubblici in aperta discontinuità con il passato.

Il nuovo codice abbandona ogni riserva e sfavore rispetto all’istituto revisionale il quale, anzi, anche sulla scorta dell’impulso impartito dalla legge delega, viene pienamente riconosciuto come utile strumento di riequilibrio.

Il merito che occorre riconoscere all’intervento innovativo del Codice risiede non solo e non tanto nell’aver dato dignità di principio fondamentale alla conservazione dell’equilibrio contrattuale, dedicandovi specificatamente l’art. 9 e di fatto riconoscendone la prevalenza anche nel settore dei contratti pubblici, ma soprattutto, anche tramite il rinvio agli art. 60 e 120 del codice, nell’aver disciplinato gli istituti attraverso i quali poter assicurare il ripristino dell’originario equilibrio del contratto oggetto dell’affidamento, puntualizzando che l’attivazione degli stessi configura in capo al contraente svantaggiato gli estremi di un vero e proprio diritto soggettivo e non più una posizione di mero interesse legittimo[26].

Si può notare che, nella sua declinazione codicistica, il principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale, abbia conosciuto un’affermazione addirittura più ampia e solida rispetto a quanto non fosse auspicato nella legge delega n. 78 del 21/06/2022.

Quest’ultima, difatti, non riserva alcuna espressa menzione alla necessità di positivizzare il principio in questione, limitandosi invece ad invocare l’introduzione di un regime obbligatorio di revisione dei prezzi al verificarsi di determinate circostanze (art. 1, c.2, lett. g), oltre ad una ridefinizione della disciplina delle varianti in corso d’opera, con la possibilità della modifica dei contratti “nella fase dell’esecuzione” nei limiti consentiti dall’ordinamento europeo (art. 1, c.2, lett. u)[27].

Il Legislatore, tuttavia, tracimando dagli argini che, a stretto tenor di norma, gli erano stati posti, ha inteso perfino rubricare l’intero articolo 9 del codice, dedicandone la stesura al principio in parola. L’intento evidentemente perseguito è quello di porre l’interesse alla manutenzione del vincolo contrattuale come canone fondamentale che, esattamente alla stregua degli altri posti nei primi 12 articoli del nuovo codice, deve guidare l’operato della Amministrazione.

Si può notare quanto dirompente e innovativa rispetto al passato, sotto questo profilo, risulti la normativa posta dal nuovo codice.

Mentre, difatti, in vigenza del D.lgs. 50/2016 la disciplina del rapporto contrattuale era spiccatamente diretta ad attuare la prioritaria preservazione dell’Amministrazione dal rischio di incontrollati e non previsti incrementi di costi (con buona pace e facoltà di sacrificio, ove necessario, dell’interesse manutentivo del rapporto), nel nuovo codice il Legislatore, anche rifacendosi ad esperienze ed esempi tratti dalla prassi internazionale, ha inteso riconoscere ed elevare la necessità di preservare il vincolo contrattuale a valore di pari rilievo col quale dover necessariamente fare i conti nella gestione delle sopravvenienze.

Il carattere innovativo della normativa in parola, peraltro, si lascia apprezzare non solo se raffrontato con la precedente disciplina di settore, ma anche se si tiene conto che lo stesso codice civile, nel porre la disciplina dei contratti, non contempla espressamente un diritto alla revisione.

Come già avuto modo di accennare in precedenza, difatti, in sede privatistica la parte penalizzata da sopravvenienze sperequative ha la facoltà di sciogliersi dal vincolo contrattuale e non anche di pretendere la rinegoziazione delle condizioni negoziali al fine di riequilibrare il rapporto (risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c.)[28].

Viene, dunque, subito in rilievo la differenza tra l’art. 1467 c.c. e l’art. 9 del D.Lgs. 36/2023: il primo, facendo riferimento alla risoluzione del contratto, descrive una tutela demolitoria mentre il secondo prevede una tutela manutentiva sulla base dell’interesse dell’amministrazione e del contraente privato.

Parimenti dicasi per quanto prescritto all’art. 1664 c.c., il quale declina l’adeguamento dei prezzi in termini di mera facoltà delle parti, le quali vi possono legittimamente derogare, attesa la non vincolatività dell’istituto in questione[29].

Occorre puntualizzare ad ogni modo che l’evoluzione impartita dall’art. 9 D.Lgs. 36/2023 non si è tradotta in una sorta di “liberalizzazione incontrollata” del ricorso alla revisione e adeguamento del corrispettivo.

L’articolo in parola, difatti, si fa carico, in prima battuta di perimetrare puntualmente il novero delle sopravvenienze rilevanti ai fini dell’applicazione della norma[30]. La relazione di accompagnamento al codice, sul punto, è chiara nel precisare che “La disposizione deve, pertanto, essere interpretata restrittivamente e richiede un rilevante squilibrio tra le prestazioni, da valutarsi alla luce delle concrete circostanze e dello specifico contenuto negoziale”.

Sotto altro profilo, poi, sempre l’art. 9, al c. 2, ha cura di puntualizzare come la rinegoziazione abbia l’esclusiva finalità di ripristinare l’originario equilibrio del contratto, avuto riguardo al complesso degli atti alla base della costituzione del rapporto [31].

La finalità è, dunque, quella di circoscrivere la libertà dei contraenti: l’accordo di rinegoziazione non solo deve avere ad oggetto il mero ripristino dell’equilibrio contrattuale originario, ma deve essere precipuamente volto a non alterarne la sostanza economica, in modo da evitare un’elusione delle regole della procedura ad evidenza pubblica.

L’interesse manutentivo del rapporto e la conseguente necessità di conservazione dell’equilibrio contrattuale, dunque, non si impongono sempre e comunque sugli altri principi fondamentali ma, a differenza di quanto non fosse previsto nel previgente codice, nemmeno vi soggiacciono, destinati sempre e comunque a recedere dinanzi ad interessi pubblici assertivamente prevalenti.

Il cardine della immutabilità del contratto, tributo al principio di certezza dei rapporti (e della spesa pubblica) – o, se si vuole, all’insegnamento che i latini riassumevano nel brocardo “pacta sunt servanda” – da sempre considerato prevalente nell’ambito dei contratti pubblici, trova contrappunto e dev’essere oramai contemperato (nei contratti pubblici forse ancor più che in quelli fra privati) con la necessità di assicurare, nei limiti del possibile, il mantenimento del rapporto e l’utile conclusione dello stesso; poiché, anche coerentemente con il principio del risultato dettato all’art. 1 del nuovo Codice, non può negarsi che sia a questo che tenda l’operato dell’Amministrazione, ossia a conseguire l’utilità ultima cui il contratto è preordinato.

Ciò comporta che la Pubblica Amministrazione debba farsi parte attiva per evitare, ove possibile, di ricorrere a rimedi ablatori ed invece favorire la conservazione del contratto, rimuovendo, pur nel rispetto di parametri di cui si dirà, quegli impedimenti che potrebbero frapporsi rispetto al conseguimento del fine ultimo.

3. Gli strumenti dell’equilibrio contrattuale

3.1. Il diritto alla rinegoziazione

L’art. 9 del d.Lgs. 36/2023 riconosce come “diritto alla rinegoziazione” la posizione giuridica della parte che risulti svantaggiata dalla sopravvenienza di eventi straordinari e imprevedibili i quali, estranei alla normale alea, all’ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato, incidano sull’equilibrio contrattuale. L’esercizio del diritto in questione deve intendersi preordinato al ripristino dell’originario equilibrio del contratto oggetto dell’affidamento, quale risultante dal bando e dal provvedimento di aggiudicazione, senza alterarne la sostanza economica.

La definizione testé delineata consente di operare alcune necessarie considerazioni, fra cui la prima attiene, logicamente, ai presupposti legittimanti la richiesta di rinegoziazione.

Non tutti gli eventi sopravvenuti, difatti, possono assumere rilevanza in tal senso, ma esclusivamente quelli che, ricadenti nel novero del caso fortuito o della forza maggiore, producano un effettivo impatto sulla commessa.

Il tentativo di tipizzare tutte le sopravvenienze rilevanti, ovviamente, potrebbe risultare vano ed improbo, attesa la mutabilità, la specificità e la oggettiva impronosticabilità degli eventi in questione (i quali, non a caso, vengono definiti appunto “imprevedibili”).

Se si volesse comunque fornire un’idea, pur sommaria, della portata degli eventi di cui si parla, si potrebbe far riferimento alle linee guida ANAC n. 9 approvate dal Consiglio dell’Autorità con Delibera n. 318 del 28 marzo 2018[32] . Queste ultime, difatti, pur se direttamente riferibili ai contratti di partenariato pubblico privato e nello specifico alle cause di revisione del Piano Economico Finanziario[33], sono certamente significative e suscettibili di analisi estensiva anche ai nostri fini.

L’enormità degli eventi elencati dall’Autorità per i quali sia spendibile la definizione di “eventi di forza maggiore” e soprattutto la portata dei potenziali effetti che agli stessi si possono agevolmente collegare, lascia ben intendere come non una qualunque sopravvenienza, per quanto idonea a mutare l’originario assetto sinallagmatico del rapporto, possa ritenersi legittima causa di insorgenza al diritto alla rinegoziazione se non qualificata nei termini anzidetti.

Emblematico, sotto questo profilo, è il dibattito in corso relativamente alla rilevanza, al fine di un possibile intervento equilibratore, della intervenuta sottoscrizione di nuovi CCNL che incidano significativamente sul costo della manodopera a carico dell’appaltatore.

In materia, difatti, la Giurisprudenza prevalente tende a sostenere che “gli aumenti del costo del lavoro in seguito al rinnovo del contratto collettivo costituiscono circostanze del tutto prevedibili da parte dell’impresa appaltatrice, che per tale ragione dovrebbe tenerne conto al momento della formulazione della propria offerta”[34]; vi è, tuttavia, una corrente minoritaria che accenna a manifestarsi, soprattutto grazie all’impulso del nuovo codice e della legge delega 21 giugno 2022, n. 78[35], secondo cui il rinnovo dei Contratti Collettivi costituisce giusta causa di revisione del rapporto negoziale[36].

Comunque la si pensi nel merito, ciò che qui rileva evidenziare è che permane un certo (importante) grado di incertezza in merito a quali possano essere le circostanze sperequative idonee a legittimare la rinegoziazione. Allo stato attuale, quindi, in assenza di una precisa tassonomia degli eventi rilevanti, deve intendersi rimesso alle Stazioni Appaltanti il compito di dirimere eventuali incertezze, caso per caso, ed in riferimento alla fattispecie concreta.

All’amministrazione, in fase istruttoria e prima ancora di avviare l’eventuale negoziazione, è quindi richiesto di operare una puntuale analisi, la quale sia diretta, per un verso a riconoscere i necessari caratteri di straordinarietà ed imprevedibilità dell’evento sperequativo denunciato, mentre per altro a verificare se e in quale misura detto evento possa concretamente ed effettivamente aver attinto il rapporto negoziale per cui sia stata richiesto il riequilibrio.

E’ ben possibile, difatti, che una sopravvenienza, benchè oggettivamente straordinaria ed imprevedibile, agisca in maniera differente in base alle diverse commesse, risultando dirompente per alcune tipologie di appalto ed al contempo sostanzialmente sterile rispetto ad altre[37]. I contratti ad alta intensità di manodopera, ad esempio, saranno più suscettibili rispetto ad accadimenti che attingano la voce di costo riferita al personale, mentre invece le commesse connotate da elevata incidenza delle forniture risentiranno di eventi sperequativi in termini di incremento dei prezzi delle materie prime.

Non bisogna dimenticare, difatti, che, secondo quanto stabilito dall’art. 9 del Codice, la finalità ultima cui deve tendere l’attività di rinegoziazione è quella di giungere “al ripristino dell’originario equilibrio del contratto oggetto dell’affidamento, quale risultante dal bando e dal provvedimento di aggiudicazione, senza alterarne la sostanza economica”.

La prescrizione è chiara nel tracciare la responsabilità dell’Amministrazione, la quale non può limitarsi ad attuare acriticamente misure perequative purché siano, ma deve individuare esattamente le più coerenti con la fattispecie specifica e che possano ripristinare la commessa nella condizione di equilibrio tracciata al momento dell’affidamento.

Ciò implica che, prima di avviare i negoziati, si acquisisca piena cognizione dell’esatto margine di ripristino da dover assicurate, poiché esso rappresenterà non solo il delta da recuperare per la manutenzione del rapporto, ma anche, se non soprattutto, il limite massimo oltre il quale ogni ulteriore concessione sarebbe da considerarsi illegittima[38].

Sul punto occorre rimarcare che il diritto alla rinegoziazione posto dall’art. 9 del Codice a favore del contraente leso, si traduce nell’obbligo della controparte di non sottrarsi ad un confronto corretto ed incentrato su trattative eque condotte secondo buona fede. Non è invece affatto obbligatorio – né il Legislatore del 2023 ha inteso ingiungerlo – che tale confronto poi sfoci necessariamente in un accordo perequativo. Quest’ultimo, difatti, costituisce solamente il frutto eventuale della condivisione di soluzioni idonee ed – appunto – coerenti con l’impianto negoziale nella sua strutturazione originaria; ove detta condivisione non intervenga, alcun accodo può essere imposto[39].

In tal senso depone l’ordito dell’art. 120 c. 8 del D.Lgs. 36/2023.

Si tenga presente, peraltro, che le soluzioni perequative potrebbero essere le più svariate, non dovendosi risolvere necessariamente in fattori di variazione del corrispettivo monetario.

Lo spunto è propizio per una rapida digressione sulla natura della posizione giuridica assunta dal richiedente (solitamente l’appaltatore).

A meno di non voler delineare quello alla rinegoziazione come un obbligo assoluto e aprioristico gravante sulla Amministrazione a fronte di una qualunque istanza, occorre ammettere che l’attività di rinegoziazione implichi l’avvio di una sorta di “subprocedimento”, il quale scaturisce sì dalle vicende contrattuali ma poi si svolge in maniera autonoma rispetto alle stesse, senza interferirvi[40],  e giunge ad esiti che non necessariamente tornano poi a ripercuotersi sul rapporto negoziale da cui esso è stato provocato.

Si potrebbe ipotizzare, al riguardo, che, successivamente all’avvenuta ricezione di un’istanza formulata ai sensi dell’art. 120, c.8, l’attività a cui l’Amministrazione è tenuta a dare seguito, possa essere distinta in due differenti momenti.

Il primo, che potremmo definire “pre-negoziale”, in cui la Committente dovrà verificare se le ragioni esposte dall’appaltatore e gli eventi da questi dedotti a fondamento della propria richiesta siano effettivamente tali da poter integrare il legittimo avvio di un confronto di revisione del contratto. Qualora, difatti, l’istanza fosse radicata su ragioni all’evidenza inconsistenti o evocasse circostanze sopravvenute palesemente irrilevanti, poiché prive di quelle stringenti connotazioni che il Legislatore individua all’art. 9, non potrebbe essere ravvisabile in capo alla Amministrazione alcun obbligo di proporre un nuovo accordo sulla base del quale avviare il confronto con l’appaltatore.

Tale conclusione trova suffragio se si considera che la stessa relazione di accompagnamento al nuovo codice, relativamente all’art. 9, ha inteso puntualizzare espressamente che “La disposizione specifica, quindi, quali sono le sopravvenienze da cui sorge il diritto alla rinegoziazione, precisando che, oltre che sopravvenute e imprevedibili, devono essere estranee anche al normale ciclo economico, integrando uno shock esogeno eccezionale e imprevedibile”.

In assenza di sopravvenienze qualificate dai caratteri normativamente previsti, quindi, il diritto alla rinegoziazione non viene ad esistenza.

La prescrizione dell’art. 120, c. 8, del codice, secondo cui “ Il RUP provvede a formulare la proposta di un nuovo accordo entro un termine non superiore a tre mesi (dalla ricezione dell’istanza di rinegoziazione n.d.r.)” deve essere quindi letta assumendo come implicita condizione che lo stesso RUP abbia ravvisato quantomeno una parvenza di fondatezza nella richiesta pervenuta e nelle ragioni di revisione in essa esposte.

Ne deriva che la fase di negoziazione in senso proprio, ossia quella incentrata sul dibattito fra le parti intorno a possibili soluzioni perequative, costituisca un momento solamente successivo ed eventuale, poiché subordinato al riconoscimento delle imprescindibili condizioni da parte dell’amministrazione.

Da quanto esposto, si potrebbe dedurre che la presentazione dell’istanza di revisione non comporti l’immediata insorgenza del diritto soggettivo alla rinegoziazione, quanto piuttosto un mero interesse legittimo in capo all’appaltatore consistente nell’aspettativa che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti ed incentrati sulla necessità di indagare l’effettiva sussistenza dei presupposti all’uopo necessari.

Tale posizione, invece, assume il rango di vero e proprio diritto soggettivo allorché l’Amministrazione, riconosciuta l’esistenza di detti presupposti, sia obbligata ad avviare effettivamente il negoziato con l’appaltatore sulla base della proposta di nuovo accordo formulata dal RUP nei termini di legge.

Secondo parte della dottrina, una lettura di tal genere mal si concilia con la declinazione del nuovo Codice che all’art. 9 definisce quello alla rinegoziazione come – appunto – un vero e proprio diritto e, di contro, all’art. 120 ricostruisce la posizione dell’amministrazione, a fronte dell’istanza di rinegoziazione dell’operatore economico, in termini di “obbligo”[41].

Non può, tuttavia, sfuggire che, sempre l’art. 9 del Codice, è perentorio nello stabilire che detto diritto sorge solo ove sia constatata la sopravvenienza di precise condizioni che, in riferimento alla fattispecie concreta, producano rilevanti effetti sperequativi; pertanto – lo si ribadisce – dal momento di presentazione dell’istanza a quello di accertamento dell’effettiva sussistenza dei presupposti per la rinegoziazione, per espressa previsione normativa alcuna posizione di diritto soggettivo può essere riconosciuto in capo all’appaltatore.

L’istituto della rinegoziazione, quindi, non implica alcun automatismo rispetto all’effettiva revisione dell’accordo, né in merito all’an né tampoco in merito al quantum o al quomodo, salvo il caso – in vero ancora molto raro – in cui la Stazione appaltante, accogliendo l’invito di cui al comma 4 dell’art. 9 del Codice[42], abbia avuto cura di inserire nella legge di gara o nel contratto specifiche clausole che pongano una regolamentazione puntuale dell’istituto.

Tali clausole, tuttavia, non devono risolversi in una mera riproduzione del testo normativo, ma dovrebbero presentare una disciplina dettagliata, poiché solamente in tal modo le parti potrebbero dar luogo all’immediata applicazione dell’istituto, riferendosi a regole che individuino esattamente i presupposti, le condizioni ed i termini di conclusione dell’eventuale accordo revisionale.

Alla luce delle superiori considerazioni, è possibile tracciare i seguenti requisiti essenziali dell’istituto in parola:

  • quanto ai presupposti, il diritto alla rinegoziazione, si atteggia come diritto soggettivo attivabile al verificarsi di accadimenti non tipizzati ma individuati in forza del loro carattere di imprevedibilità e straordinarietà, nonché in ragione dell’effettivo impatto destabilizzante prodotto sull’equilibrio contrattuale della commessa. Quest’ultimo, in particolare, deve manifestarsi in termini rilevanti al punto da porre a rischio ed alterare il sinallagma in misura non coerente con la normale alea, ovvero con la ordinaria fluttuazione economica e il rischio di mercato[43];

  • quanto alla portata precettiva, il diritto alla rinegoziazione, allorché se ne sia riconosciuta l’insorgenza, si sostanzia nella possibilità di imporre alla controparte l’obbligo di avviare un confronto, improntato a correttezza e buona fede, volto ad individuare soluzioni condivise utili al ripristino dell’originario equilibrio negoziale. L’ordinamento, quindi, non garantisce il diritto ad una revisione che riconosca le condizioni pretese dalla parte svantaggiata, ma impone esclusivamente l’onere in capo ai contraenti di avviare trattative sul punto;

  • quanto all’onere istruttorio gravante sull’Amministrazione, l’istanza di rinegoziazione avanzata dall’appaltatore impone alla committente di operare, prima ancora di avviare la negoziazione, un’istruttoria puntuale diretta ad indagare, per un verso l’effettiva portata degli eventi sperequativi denunciati dalla parte richiedente, mentre per altro a verificare l’entità delle reali ripercussioni da questi prodotti sul rapporto contrattuale. L’istruttoria, quindi, non può risolversi nella mera ed aprioristica presa d’atto di dati statistici o di carattere generale, ma deve essere diretta ad evidenziare, con riferimento alle concrete circostanze ed allo specifico contenuto negoziale, se effettivamente vi sia stata e che grado di rilevanza abbia assunto l’alterazione dell’equilibrio contrattuale eziologicamente connessa ai citati eventi;

  • quanto ai limiti di variazione normativamente imposti, essi possono essere ricondotti ad un duplice ordine di valori. In primis, difatti, ai sensi del comma 1, dell’art. 9 del Codice, è ravvisabile un vincolo di invarianza finanziaria del quadro economico di commessa[44]. In secondo luogo, poi, al comma 2 del medesimo articolo, è confermato in termini perentori il limite imposto dall’assetto originario del rapporto, di talché nessuna ipotesi di rinegoziazione può dirsi legittima ove produca l’effetto di sovvertire la sostanza economica dell’accordo come ravvisabile dalla legge di gara e dal contratto;

  • quanto al possibile esito della negoziazione, il confronto avviato fra le parti può giungere ad un accordo che si risolva nell’applicazione di misure perequative. Queste ultime possono incidere sull’aspetto prettamente monetario del rapporto (si pensi, a titolo esemplificativo, alla refusione dei maggiori costi sostenuti dall’appaltatore), ovvero possono incidere sul profilo prestazionale (si pensi, ad esempio, alla possibile ricalibrazione delle obbligazioni dell’appaltatore), ovvero ancora possono attingere entrambi i suddetti profili. E’ ben possibile, tuttavia, che le parti non giungano ad alcun accordo e che, quindi, l’attività di negoziazione rimanga inesitata. Quest’ultima evenienza è espressamente contemplata all’art. 120, c.8, D.Lgs. 36/2023 il quale prevede che il mancato raggiungimento di un accordo entro un termine ragionevole, consente alla parte svantaggiata di adire l’autorità giudiziaria per ottenere l’adeguamento del contratto all’equilibrio originario, salva la responsabilità per la violazione dell’obbligo di rinegoziazione. Giova qui evidenziare come la norma, in aperta discontinuità con le analoghe previsioni civilistiche, non contempli, anche in caso di mancato accordo, la possibilità dei contraenti di ricorrere ad iniziative ablatorie. Il Legislatore del 2023, in altri termini, ha inteso delineare quello alla rinegoziazione, come un diritto dal cui esercizio, in ogni caso, non possa scaturire la risoluzione del contratto; tale facoltà, difatti, non è legittimamente consentita alla parte svantaggiata che veda frustrate le proprie istanze. Il rimedio al mancato accordo, quindi, non risiede nella possibilità di sciogliersi dal vincolo negoziale, ma in quella di rivolgersi ad un’Autorità terza cui, in un certo senso, demandare il compito di eterodirigere il confronto fra le parti e garantire il raggiungimento del risultato ultimo agognato, ossia la conservazione del contratto;

  • quanto alla giurisdizione, l’obbligo di rinegoziazione può intendersi violato solamente allorché la parte avvantaggiata (solitamente l’Amministrazione) si sottragga all’avvio dell’istruttoria in merito alla sussistenza dei necessari presupposti e se del caso al successivo confronto. Quando le citate attività vengano avviate (e condotte secondo canoni di buona fede), invece, l’obbligazione imposta dalla legge può ritenersi assolta, mentre invece, come già detto, il mancato raggiungimento dell’accordo costituisce solamente una possibilità endemica da cui deriva la facoltà di adire l’autorità giudiziaria. L’individuazione del Giudice cui rivolgersi, tuttavia, non è nodo semplice da svolgere. Si può ritenere che, ove la Committente abbia avuto la lungimiranza di inserire nel contratto clausole di rinegoziazione puntuali e concrete, efficaci al punto da poter delineare una disciplina completa dell’istituto (in termini di individuazione esatta dei presupposti, di condizioni e misura della variazione, ecc..), l’eventuale inosservanza di dette clausole, integrando un vero e proprio inadempimento contrattuale, potrebbe ricadere nella giurisdizione del G.O.[45] A favore di tale conclusione depone anche l’argomento per cui, ove, come detto, il contenuto della clausola contrattuale sia così preciso nell’an e nel quantum, ciò varrebbe ad escludere ogni margine di valutazione discrezionale ed a riconoscere in capo all’appaltatore un diritto soggettivo tutelabile innanzi al G.O.[46]Qualora, invece, la clausola di rinegoziazione manchi, ovvero si risolva nella mera e sterile riproposizione del dettato normativo, allora la problematica rimane ed ancora persiste il dibattito in merito al riparto di giurisdizione nei termini precedentemente accennati. Dato l’attuale assetto normativo, connotato da una riserva di giurisdizione ancora vigente – poiché l’articolo 133, comma 1, lettera e), n. 2), cod. proc. amm. non è stato in alcun modo scalfito dall’entrata in vigore del nuovo codice – e tenuto conto che l’art. 120, c.8, d.Lgs. 36/2023 si limita a disporre che in caso di mancato accordo “la parte svantaggiata può agire in giudizio” senza alcuna precisazione in merito alla sede d’elezione di tale “giudizio”, si potrebbe propendere per l’attribuzione della giurisdizione in capo al G.A.

3.2. La revisione prezzi

E’ importante, quando si parla di “revisione dei prezzi” (ovvero, in termini sinonimici, di “adeguamento prezzi” oppure ancora di “aggiornamento prezzi”), non trascurare la valenza semantica dell’espressione.

Assumendo che le scelte lessicali del Legislatore non possano mai dirsi casuali o grossolane, occorre notare che il lemma “revisione”, a differenza di quanto non accada per la locuzione “rinegoziazione”, rimanda all’idea di un’attività di mero adeguamento, la quale non attinge a livelli profondi del proprio oggetto, non comporta importanti modifiche, né presuppone l’insorgenza di circostanze dirompenti che ne impongano l’avvio. Essa, piuttosto, richiama l’immagine di un agire diretto ad attuare interventi, anche di entità minima, volti ad apportare piccoli aggiustamenti finalizzati ad aggiornare l’oggetto dell’intervento stesso, adeguandolo – appunto – a variazioni che, anche in ragione del fattore tempo e di circostanze del tutto endemiche e pronosticabili, possano essere intervenute e delle quali occorra tenere conto.

Entrare in confidenza col concetto testé accennato aiuta, per quel che rileva ai fini della presente trattazione, sia a tener ben ferma la linea di demarcazione che inevitabilmente si frappone a distinguere radicalmente l’istituto della rinegoziazione da quello della revisione prezzi[47], sia ad apprezzare logica e natura delle caratteristiche legislativamente tracciate per quest’ultimo.

3.2.1. Evoluzione normativa e giurisprudenziale

V’è da puntualizzare, preliminarmente, che anche sotto un profilo di pretta “storiografia giuridica”, lo studio della normativa sui contratti pubblici mostra come l’istituto della revisione prezzi, rispetto a quello della rinegoziazione, goda di un conio ben più risalente e di un’evoluzione ricca di circonvoluzioni.

Senza voler spingere troppo addietro nel tempo l’esame[48], si può constatare come già nel 1993 la trama legislativa intessuta in materia di contratti pubblici manifestasse un particolare interesse per l’istituto in parola.

Ci si riferisce, nello specifico all’art 6, c.4, della Legge n. 537/1993[49] ed all’art. art. 44, 4 comma della L. n. 724/94[50].

Grazie, inoltre, ai copiosi interventi del G.A., è stato possibile arricchire il dettato normativo di puntualizzazioni e chiarimenti, i quali hanno fortemente contribuito a delineare la portata dell’istituto che, in estrema sintesi, sotto l’imperio della L. 537/1993, assumeva le seguenti connotazioni:

  • la revisione si applica a qualunque contratto d’appalto pubblico[51];

  • la revisione deve essere applicata anche quando il contratto non la preveda espressamente – c.d. efficacia eterointegrativa dell’istituto revisionale[52];

  • la revisione si applica anche quando il contratto la neghi espressamente[53];

  • alla revisione prezzi inerente agli appalti pubblici non si applica l’alea del 10% prevista dall’art. 1664 c.c., cosicché la revisione, si applica per l’intero importo dell’incremento dei prezzi dei fattori della produzione anche se tale aumento è inferiore al 10%[54].

  • L’interesse alla cui tutela avrebbe dovuto essere diretto il ricorso all’istituto in parola era duplice e di pari dignità. L’istituto della revisione è infatti preordinato, per un verso, alla tutela dell’esigenza dell’amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo (talora frutto di illecite collusioni), tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto, nonchè prevenire cause di destabilizzazione del sinallagma rivenienti da possibili incrementi, anche sostanziali, dei prezzi delle materie prime necessarie per l’adempimento delle prestazioni contrattuali facenti capo al soggetto appaltatore, i quali produrrebbero, inevitabilmente, un sensibile detrimento del livello di qualità del servizio e/o lavoro da quest’ultimo effettuato. Per altro verso, invece, rispetto alla posizione del privato, era opinione espressa dal Supremo Collegio che l’istituto partecipasse soprattutto della finalità di attualizzare, nell’interesse dell’appaltatore, il prezzo contrattuale al mutamento del costo della vita ove lo stesso avesse superato, nel tempo necessario all’esecuzione del contratto, un certo limite di tollerabilità[55].

Appare evidente come la Giurisprudenza formatasi sull’argomento fosse, in prima battuta, indirizzata a riconoscere che l’applicabilità dell’istituto della revisione prezzi ad una determinata fattispecie discendesse direttamente dalla legge che la realizzava mediante il meccanismo della cosiddetta “inserzione automatica” della norma imperativa la quale, ai sensi degli artt.1419, comma 2, c.c. e 1339 c.c.[56].

Il rango di norma imperativa riconosciuto alla disciplina de qua e gli effetti che la medesima produceva sulle pattuizioni intervenute fra i contraenti, aveva indotto parte della giurisprudenza ad affermare che il Legislatore “…mediante la previsione dell’obbligatoria inserzione della clausola revisionale nei contratti pubblici di appalto di fornitura di beni e servizi , e della coeva nullità parziale dei contratti in contrasto, con il meccanismo di integrazione ex lege del contratto, ha riconosciuto un vero e proprio diritto al compenso revisionale…” (TAR Puglia, sede di Bari, sentenza n. 4446 del 13/10/2004).

In tal senso si espressero anche i Giudici di Palazzo Spada, i quali, intervenendo sul punto, ebbero modo di statuire che, in sede d’attuazione della normativa in questione, “…l’amministrazione appaltante non dispone di poteri autoritativi, dovendo limitarsi a verificare se sussistano i presupposti per la liquidazione del compenso revisionale e a quantificarlo. Ne consegue che le note con cui viene negato il compenso revisionale, o l’applicabilità dell’art. 6 , non costituiscono atti a contenuto provvedimentale impugnabili nei termini decadenziali, ben potendo l’appaltatore proporre giudizio di accertamento e condanna nei termini prescrizionali…” (Cons. Stato, sez.V 13/3/2006 n. 1295).

Con l’entrata in vigore del Codice “De Lise” (D.Lgs 163/2006), il Legislatore manifestò l’intento di confermare l’istituto in parola tanto da riservagli espressa menzione all’art. 115[57].

La disposizione, nella prima versione del c.d. «Codice Appalti», riproduceva in termini pressoché pedissequi la previsione di cui all’art. 6, c.4, L. 537/1993 e all’art. 44, 4 comma della L. n. 724/94.

Nella sostanza, pertanto, l’istituto in parola confermò tutte le caratteristiche già riconosciutegli dalla previgente normativa e dalla giurisprudenza già formatasi in materia.

E’ tuttavia interessante notare come quest’ultima sia stata poi affiancata, ed in seguito sopravanzata, da una corrente ermeneutica del tutto intesa a condividere la convinzione per cui l’applicazione dell’istituto revisionale non dovesse avvenire in temini automatici ma che, piuttosto, richiedesse una specifica attività istruttoria da parte dei dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi, la quale fosse diretta a verificare, tanto sotto il profilo normativo, quanto sotto quello economico, la sussistenza dei presupposti per riconoscere il diritto all’applicazione dell’istituto revisionale.

Sul punto la giurisprudenza iniziò a raccogliersi attorno all’assunto per cui “l’istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, modello che sottende l’esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale dell’amministrazione nei confronti del privato contraente, potendo quest’ultimo collocarsi su un piano di equiordinazione con l’amministrazione solo con riguardo a questioni involgenti l’entità della pretesa; di conseguenza, la posizione del privato contraente si articolerà nella titolarità di un interesse legittimo con riferimento all’an della pretesa ed eventualmente in una situazione di diritto soggettivo con riguardo al quantum, ma solo una volta che sarà intervenuto il riconoscimento della spettanza di un compenso revisionale” (Consiglio di Stato, sez. III, 06.08.2018 n. 4827).

I molteplici interventi dell’Interprete, di cui quello precedentemente annotato è solo uno fra i più illustri, appaiono evidentemente diretti a restringere le maglie di un fenomeno che vedeva le amministrazioni soggiacere acriticamente e con sempre con maggior disinvoltura alle richieste degli appaltatori, acconsentendo ad istanze di adeguamento di dubbia fondatezza – anche postume – e a discapito dell’equilibrio finanziario della commessa.

Anche in linea con i precetti sovranazionali in materia di concorrenza[58], dunque, si assistette – soprattutto a partire dal 2010 – ad una serie di interventi interpretativi che, benché in una cornice normativa non proprio favorevole, potessero limitare i meccanismi di revisione dei prezzi degli appalti pubblici per evitarne i potenziali effetti elusivi rispetto a quanto stabilito durante la gara pubblica.

Accanto alle specifiche caratteristiche dell’istituto già declinate in vigenza dell’art. 6, c.4, L. 537/1993 e dell’art. 44, 4 comma della L. n. 724/94, la giurisprudenza ritenne dunque opportuno fissarne delle altre:

  • la clausola di revisione dei prezzi nei contratti ad esecuzione continuata e periodica non assume la funzione di eliminare completamente l’alea tipica di un contratto di durata[59];

  • ogni variazione del prezzo non può comportare la revisione, in ogni caso, in via automatica, di quanto contrattualmente stabilito, tenuto conto del vincolo di invarianza finanziaria cui deve ottemperare l’Amministrazione[60];

  • la revisione dei prezzi presuppone sempre un’attività di accertamento istruttorio prima di essere autorizzata, costituendo infatti una deroga rispetto all’ordinaria applicazione del contratto;

  • lo scopo principale dell’istituto è quello di tutelare l’interesse pubblico ad acquisire prestazioni di servizi qualitativamente adeguati e, solo in via indiretta, l’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verificano durante l’arco del rapporto[61].

Si nota, soprattutto da quest’ultima precisazione, come la volontà espressa in quel momento storico fosse del tutto intesa a delineare un istituto il quale non dovesse essere derubricato alla stregua di una mera clausola di indicizzazione, ma che mantenesse una funzione di tutela e perseguimento – in via prioritaria – dell’interesse pubblico e solo in via mediata dell’appaltatore privato. Le posizioni dei contraenti, a differenza di quanto non fosse stato affermato precedentemente, quindi, vennero rimosse dal piano livellato su cui erano state poste dalla precedente giurisprudenza per essere ricollocate su due livelli ben distinti, di cui quello attribuito all’interesse pubblico tornava ad assumere carattere preminente.

In un contesto di tal fatta, non può stupire che, malgrado la norma di riferimento non presentasse alcun accenno in merito, il Giudice Amministrativo sia persino giunto ad affermare che al fine di attuare l’adeguamento dei prezzi fosse necessaria la ricorrenza di circostanze eccezionali e imprevedibili, la cui esistenza non potesse essere ricondotta ad aumenti del costo di fattori della produzione prevedibili – anche dal punto di vista della loro consistenza valoriale – nell’ambito del normale andamento dei mercati relativi, dovendo invece a tal fine farsi riferimento ad eventi, appunto eccezionali ed imprevedibili, tali da alterare significativamente le originarie previsioni contrattuali[62].

Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016, ad ogni modo, la disciplina dell’istituto in parola è stata, de iure condito, adeguata all’indirizzo ermeneutico da ultimo affermatosi, in attuazione di quell’anomalo fenomeno – invero non così raro – per cui è sovente il Legislatore ad allinearsi all’Interprete e non viceversa, sebbene in tal senso non possa negarsi la spinta decisiva impartita dal disfavore rispetto all’istituto in parola manifestatosi anche a livello sovranazionale.

La revisione dei prezzi, nel codice del 2016, ha perso quindi il rango di istituto meritevole d’esser disciplinato in articoli specifici ed è invece confluito, in forma di mero e fuggevole inciso, nel testo dell’art. 106 rubricato “Modifica di contratti durante il periodo di efficacia[63].

Si può certamente ritenere che l’innovazione introdotta dal Legislatore del 2016 in materia di revisione prezzi sia stata determinata da quanto disposto a livello comunitario con direttiva n. 2014/24/UE del 26 febbraio 2014[64]; non si può sottacere, tuttavia, che, come già accennato, l’affermarsi dell’interpretazione restrittiva, espressione di chiaro sfavore e diffidenza rispetto all’istituto, ha iniziato a maturare nella giurisprudenza nazionale ben prima che la citata direttiva fosse adottata.

Il D.lgs. 50/2016, ad ogni modo, ha rimosso ogni obbligatorietà di inserzione della clausola revisionale nei contratti di durata ed anzi ha inteso limitare in termini stringenti la possibilità di far ricorso all’istituto revisionale.

A differenza di quanto non fosse previsto nella previgente normativa, l’inserzione di clausole revisionali nel contratto, cessa di essere un obbligo e diviene una mera facoltà rimessa alla piena discrezionalità della stazione appaltante, la quale, nel caso, deve prevederlo in clausole chiare precise ed inequivocabili della legge di gara.

Il soggetto competente per l’attività di verifica e controllo non è più il dirigente responsabile dell’acquisizione di beni e servizi, ma tale incombente viene fatto ricadere sul RUP.

Diviene, pertanto, prioritaria nella menzionata attività di controllo, l’indagine di legittimità giuridico-amministrativa intesa a verificare, preliminarmente, se la legge di gara e/o il contratto prevedessero espressamente la possibilità di revisionare il corrispettivo, nonché se, una volta accordato l’aggiornamento, ciò non avrebbe potuto in qualche modo alterare l’assetto generale del contratto[65].

In assenza dei citati presupposti, l’ipotesi di revisione è da escludersi se non a causa di sopravvenute circostanze impreviste ed imprevedibili, ex art. 106, c.1, lett. c) D.Lgs. 50/2016.

Come già ampiamente argomentato in precedenza, tuttavia, l’inadeguatezza della normativa da ultimo menzionata si è resa tragicamente evidente all’insorgere di circostanze sperequative di eccezionale portata.

E’ stato, difatti, solamente in ragione della crisi pandemica e della forte impennata dei costi dell’energia e delle materie prime per la guerra in Ucraina che l’istituto revisionale è stato reintrodotto con numerose norme speciali (contenute per lo più nella decretazione d’urgenza e nelle ultime leggi annuali di bilancio cui si è già fatto ampio riferimento nei precedenti paragrafi), le quali hanno operato esplicitamente in deroga al dettato normativo del Codice degli Appalti del 2016 e ciò, ancora una volta e con ancora maggiore chiarezza, evidenzia le criticità e le disarmonie provocate da quest’ultimo nel sistema dei contratti pubblici.

Il lavacro lustrale alle fonti dell’anticorruzione e del sacro principio della massima concorrenza a cui il codice degli appalti è stato sottoposto nel 2016 si è spinto sino al punto di assumere connotati fideistici e fondamentalisti. Ciò ha condotto il Legislatore nazionale, piuttosto che ad adattarne la disciplina, a tranciare in radice, senza troppe remore, l’operatività di istituti equilibratori, necessari e connaturati ad ogni dinamica contrattuale, per il solo senso di diffidenza generalmente affermatosi fra giurisprudenza ed ambienti sovranazionali nel contesto storico di riferimento.

Ne è derivata, in fase emergenziale, la necessità di abbandonarsi ad una grave forma di bulimia legislativa da cui è scaturito un coacervo di leggi-provvedimento – non sempre coerenti e spesso di difficile contemperamento – che hanno cercato di risolvere ex post situazioni di squilibrio negoziale che in vero si erano già verificate.

3.2.2. La revisione prezzi nel nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 36/2023)

L’intervento normativo risoltosi con l’approvazione del nuovo Codice del 2023, fortunatamente, ha posto un freno al fenomeno precedentemente esposto.

L’istituto della revisione prezzi, nella nuova declinazione del codice, è tornato a distinguersi dalle altre forme di modifica contrattuale, tant’è che, mentre queste ultime vengono disciplinate all’art. 120 del D.Lgs. 36/2023, l’istituto revisionale trova dimora autonoma nell’art. 60[66].

La nuova normativa, per quanto si dirà di seguito, rappresenta ben più che un mero ritorno al passato; essa, in effetti, piuttosto che un semplice colpo di spugna sulla pregressa normativa, rappresenta un’importante innovazione anche rispetto alla disciplina del “Codice de Lise”.

Il Legislatore del 2023, infatti, non si è limitato a reintrodurre l’obbligo di inserzione nei documenti di gara iniziali delle procedure di affidamento delle clausole di revisione, ma ha anche inteso definire ex lege i presupposti ed i parametri cui le parti sono necessariamente vincolate nell’attuazione dell’istituto.

Per quel che attiene ai presupposti, in particolare, giova evidenziare come il Legislatore abbia avuto cura precisare che la revisione vada attivata “al verificarsi di particolari condizioni di natura oggettiva” e purché resti inalterata “la natura generale del contratto”.

Si noti che, a differenza rispetto a quanto visto per la rinegoziazione, relativamente alla revisione prezzi non è riproposto il richiamo a necessari caratteri della imprevedibilità e della eccezionalità che devono connotare gli eventi sperequativi da cui essa possa discendere[67].

In effetti la legittimazione del ricorso all’istituto risiede non nella natura della causa destabilizzante, quanto piuttosto esclusivamente nell’entità dell’effetto da essa prodotto. In tal senso, non può essere considerato casuale che il Legislatore abbia inteso esplicitare in termini puntuali la soglia di rilevanza dell’effetto sperequativo da cui possa discendere l’adeguamento dei prezzi, il quale difatti, deve avere luogo qualora si verifichi “una variazione del costo dell’opera, della fornitura o del servizio, in aumento o in diminuzione, superiore al 5 per cento dell’importo complessivo e operano nella misura dell’80 per cento della variazione stessa, in relazione alle prestazioni da eseguire”.

Quanto al divieto di alterare la natura generale del contratto, invece, la previsione invero lascia perplessi. L’eventuale alterazione della natura del contratto, difatti, sembra far riferimento a elementi di ordine qualitativo, mentre la revisione prezzi opera sotto il profilo prettamente quantitativo, comportando esclusivamente una variazione della misura del corrispettivo. Essa, peraltro, opera secondo un automatismo che prescinde da ogni valutazione discrezionale, ulteriore elemento che rende difficilmente configurabile una eventuale alterazione della natura del contratto, anche nell’ipotesi in cui la variazione del corrispettivo sia significativa.

Si potrebbe essere indotti a pesare che il richiamo al vincolo di immutabilità della natura del contratto costituisca più un tributo formale al presidio di invarianza (quasi un monito a non abusare dell’istituto), che un precetto di rilevanza sostanziale[68].

I corollari che discendono dalle precedenti considerazioni, ad ogni modo, sono molteplici e di sicura rilevanza.

In primo luogo, difatti, si può sostenere che anche sopravvenienze del tutto prevedibili ed addirittura connaturate alle dinamiche di mercato (quali le dinamiche inflattive dei prezzi ovvero il rinnovo di CCNL) possano innescare la clausola revisionale, purché le stesse provochino un effettivo intacco sull’equilibrio negoziale.

In secondo luogo, poi, si evince che l’istruttoria, cui comunque la Committente è chiamata a dare seguito, non dovrà concentrarsi sulla natura e tipologia dell’evento sperequativo (se esso, cioè, possa considerarsi effettivamente imprevedibile, eccezionale, ecc…), quanto piuttosto esclusivamente sull’entità dell’effetto da esso prodotto ed in particolare se detto effetto raggiunga la soglia minima di rilevanza tracciata al comma 2 dell’art. 60 del Codice.

Ove, quindi, il RUP constati che, applicando gli indici statistici elencati al comma 3 dell’articolo in questione, il costo dell’opera, fornitura o servizio, nel periodo di riferimento abbia subito un incremento superiore al 5%, allora dovrà senz’altro procedere, quale che ne sia stata la causa, ad adeguare il corrispettivo contrattuale nella misura stabilita dalla legge.

Il meccanismo revisionale così delineato, apparentemente semplice, ha posto tuttavia alcune questioni interpretative.

Innanzi tutto, difatti, ci si è chiesti a quale valore in concreto si debba far riferimento per verificare il superamento della soglia del 5% di variazione stabilita per attivare l’adeguamento.

Il Legislatore sul punto rinvia al valore “dell’importo complessivo” del “costo dell’opera, della fornitura o del servizio”. Nonostante l’espressione lasci qualche margine di ambiguità, gli interpreti sono orami concordi nel ritenere che tale importo vada identificato con l’importo del contratto stipulato[69].

Posto, quindi, che l’istituto revisionale si può attivare solo se la variazione dei costi è superiore al 5 % del corrispettivo contrattuale, resta il dubbio se, una volta superata tale soglia, l’incremento vada calcolato per l’intera variazione o solo per la parte eccedente il 5%.

Il dubbio è stato alimentato anche dal raffronto fra la prescrizione testuale dell’art. 60 (secondo cui l’adeguamento opera “nella misura dell’80 per cento della variazione stessa”) con quanto in precedenza stabilito dall’art. 29, c.1, lett. b del decreto-legge 27 gennaio 2022, n. 4 (secondo cui l’adeguamento opera “in misura pari all’80 per cento di detta eccedenza”).

Mentre quest’ultimo, difatti, è chiaro nel prescrivere che la misura dell’adeguamento dev’essere pari al 80% del valore eccedente la soglia del 5% di variazione, l’art. 60 non è altrettanto esplicito sul punto, di talché è sorto il dubbio se, una volta superata tale soglia, l’incremento del 80% vada calcolato per l’intera variazione o solo per la parte eccedente il 5%.

Benché il tenore letterale dell’art. 60 possa lasciare intendere che, ove superato il 5% di variazione, il corrispettivo revisionale vada calcolato sull’intero valore della variazione (ossia, ipotizzando un incremento del 10%, si dovrebbe riconoscere una variazione del 8% calcolata sull’intera percentuale di incremento e non invece del 4%, pari all’80% della sola eccedenza), tale lettura appare non condivisibile sotto il profilo sistematico e sostanziale.

Appare evidente, difatti, che, posta la soglia del 5% di variazione, il Legislatore abbia voluto individuare in essa il valore dell’alea contrattuale ordinaria che deve integralmente e necessariamente restare a carico delle parti. Ove si accogliesse la formula che prevede il calcolo sull’intero valore della variazione, ciò di fatto eliderebbe ogni addebito di alea a carico dell’appaltatore (poiché il margine del 5% verrebbe di fatto superato), con ciò incidendo sulla corretta allocazione del rischio di impresa.

Fortunatamente sul punto è intervenuta di recente la proposta di correttivo al codice licenziata dal Consiglio dei Ministri n. 101 del 21/10/2024 la quale, benché ad oggi ancora in fase di approvazione, all’art. 3, c.3, del nuovo allegato II.2-bis dedicato proprio alla disciplina delle “Modalità applicative delle clausole di revisione prezzi”, ha puntualizzato che “Le clausole di revisione dei prezzi si applicano nella misura dell’80 per cento del valore eccedente la variazione del 5 per cento, applicata alle prestazioni da eseguire dopo l’attivazione della clausola di revisione”.

Si può, quindi, definitivamente concludere sul punto che, seppur in attesa della definitiva approvazione del correttivo, sia coerente con la volontà del Legislatore l’applicazione di una percentuale di adeguamento da calcolare sul solo margine di eccedenza e non sul valore dell’intera variazione.

Il connotato che, tuttavia, caratterizza più di ogni altro l’attuale disciplina della revisione prezzi, qualificandola come un’importante evoluzione rispetto a tutte le precedenti esperienze normative in materia, ivi incluso il “codice De Lise”, è di certo lo spiccato carattere di automatismo infuso alla dinamica dell’istituto in questione.

Sul punto si può ravvisare piena coerenza, sin dalla legge delega e poi nella relazione di accompagnamento alla proposta di decreto[70] (sino, come si vedrà, alla bozza di correttivo), nell’improntare l’istituto in parola ad un modello di indicizzazione al fine di rendere più rapida e “sicura” l’applicazione della revisione.

Tale connotato, forse, nella stesura attuale del c. 2 dell’art. 60 emerge con minor forza di quanto non fosse stato esposto nei documenti precedentemente citati. Il tenore letterale della norma, difatti, non riporta espressioni che evochino i caratteri di automatismo e la funzione di indicizzazione che invece emergono palesemente nella legge delega e nella relazione di accompagnamento.

Ciò potrebbe indurre a concludere che, esattamente come già fatto dal Legislatore del 2006, anche quello del 2023 abbia voluto vincolare le Amministrazioni alla sola previsione di clausole revisionali, non anche alla effettiva attuazione dell’istituto, rispetto alla quale sarebbe da riconoscere ancora oggi, come già in passato, un margine di discrezionalità in capo alla Committente. In altri temini, permarrebbe in capo a quest’ultima il potere di riconoscere o meno il diritto alla revisione, risultando a suo carico l’esclusivo obbligo di istruire l’eventuale istanza all’uopo formulata dall’appaltatore.

Se così fosse, si potrebbe dire che il codice del 2023, rispetto alla materia in questione, si sia limitato a chiudere la sciagurata parentesi aperta con l’entrata in vigore del codice del 2016, riportando semplicemente indietro, sino al 2006, le lancette dell’orologio giuridico.

Tale conclusione è tuttavia palesemente smentita dalla proposta di correttivo al codice attualmente in discussione e già oggetto di approvazione nel Consiglio dei ministri del 21/10/2024.

L’analisi dell’istituto revisionale alla luce del testo da ultimo licenziato dal Governo sarebbe meritevole di adeguato approfondimento ma ciò necessiterebbe una trattazione a parte, non foss’altro in ragione dell’ipotesi di un nuovo allegato al Codice (l’allegato II.2 – bis) espressamente dedicato alla disciplina di nostro interesse.

Il perimetro di analisi entro il quale si rimarrà costretti in questa sede, quindi, riguarderà la dinamica di attivazione delle clausole revisionali così come delineata all’art. 3 dell’allegato II.2 – bis annesso alla bozza di correttivo[71] e pur sempre tenendo ben a mente che, sino al momento della sua definitiva approvazione, esso potrebbe subire rilevanti modifiche.

Si può immediatamente rilevare, dalla lettura del comma 1 del citato articolo, l’intendimento del Legislatore di chiarire che è specifico dovere delle Stazioni Appaltanti quello di monitorare l’andamento degli indici di riferimento. Ciò implica che le Committenti dovranno, fra l’altro, avere cura di arricchire le clausole revisionali da introdurre negli atti di gara di un preciso riferimento alla tempistica ed alla modalità di rilevazione degli indici in questione, auto vincolandosi, così, al pieno rispetto di tali prescrizioni la violazione delle quali potrebbe integrare evidentemente gli estremi dell’inadempimento contrattuale.

Ne deriva che, non soltanto la mancata applicazione dell’istituto revisionale, ma anche il solo mancato monitoraggio e rilevamento degli indici di riferimento potrebbero dar corso a responsabilità della Amministrazione nei confronti dell’appaltatore.

Tale previsione trova coerente contrappunto in quanto stabilito al successivo comma 2, allorché il Legislatore esprime la volontà di rendere l’istituto revisionale ad attivazione automatica da parte dell’Amministrazione – “anche in assenza di istanza di parte” – ogni qualvolta l’indice di riferimento registri una variazione eccedente la soglia del 5% rispetto all’importo del contratto quale risultante dal provvedimento di aggiudicazione.

Non può sfuggire la portata innovativa e dirompente della norma. Essa esprime appieno l’intento (già, come detto, anticipato dalla legge delega) di rendere la revisione uno strumento di indicizzazione automatica che l’Amministrazione deve attuare in autonomia e anche senza alcun contributo da parte del contraente privato.

Mai, in precedenza, malgrado il lungo trascorso normativo dell’istituto in questione, esso era stato definito in termini così perentori e aderenti a quelli di un vero e proprio diritto potestativo.

Chiunque tragga vantaggio dalla variazione registrata, a seconda che essa sia in aumento o in diminuzione, potrà pretendere non solo che essa venga adeguatamente registrata e applicata al contratto in essere, ma anche che ciò avvenga in automatico, senza alcun margine di discrezionalità né alcuna necessità di confronto o condivisione.

L’adeguamento dei prezzi diviene così, il frutto di una mera operazione matematica del tutto scevra da profili di incertezza, soggezione o arbitrarietà.

Le ricadute delle menzionate previsioni, già oggi – volendole accogliere come giuda per l’interpretazione della volontà del Legislatore – e tanto più ove fossero confermate, appaiono essenziali ed amplissimi sono i panorami di studio che aprono.

Per quel che qui rileva, il riconoscimento dell’istituto revisionale come strumento di indicizzazione automatica del contratto implica, in prima battura, che quello alla revisione possa essere riconosciuto senza alcun margine di dubbio come un vero e proprio diritto soggettivo, il quale si esaurisce non più nella sola pretesa di vedere disciplinato l’istituto in clausole contrattuali, ma nella pretesa di attuare l’aggiornamento immediato del corrispettivo in presenza di presupposti oggettivi ed in misura prestabilita.

In secondo luogo, poi, l’obbligo della committente previsto al comma 1 dell’art. 60 del D.Lgs. 36/2023 (“Nei documenti di gara iniziali delle procedure di affidamento è obbligatorio l’inserimento delle clausole di revisione prezzi”), si potrebbe tradurre in quello di definire solamente aspetti operativi di dettaglio nella procedura revisionale (quale la frequenza di monitoraggio degli indici ovvero il riferimento ad indici inflattivi convenzionalmente individuati fra le parti). Data la specificità della disciplina posta dall’allegato II.2 – bis, non è escluso difatti che, ove questo fosse definitivamente approvato, la clausola contrattuale potrebbe addirittura risolversi in un mero rimando alle condizioni ivi tracciate.

Andrebbe totalmente rivisto, in terzo luogo, l’assioma relativo al riparto di giurisdizione in merito all’istituto in parola. Le dinamiche di attuazione dello stesso, già oggi (anche alla luce dei più recenti risvolti che – come detto – benché non definitivi non posso essere ignorati), privano l’Amministrazione di qualsivoglia potere autoritativo tecnico-discrezionale nei confronti del privato contraente; di talchè la posizione di quest’ultimo si atteggia sin da subito in guisa di diritto soggettivo e non più quale interesse legittimo sino all’adozione di un espresso provvedimento attributivo da parte della Amministrazione, come invece ritenuto in passato e come sostenuto dai fautori del doppio canale di giurisdizione[72].

Se ne potrebbe agevolmente dedurre che, già oggi, unico competente a conoscere di controversie vertenti sulla clausola revisionale, attenendo le stesse a posizione di puro diritto soggettivo, dovrebbe essere riconosciuto il solo Giudice Ordinario, con buona pace – e, probabilmente, con profondo sollievo – del Giudice Amministrativo.

Come tale interpretazione possa conciliarsi con la riserva di giurisdizione dettata dall’art. 133, c.1, lett. e, n. 2 del D.Lgs. n. 104 del 2010, è agevolmente comprensibile facendo riferimento alla più recente giurisprudenza in forza della quale “ nelle controversie relative alla clausola di revisione del prezzo negli appalti di opere e servizi pubblici, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in conformità alla previsione di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 133, comma 1, lett. e), n. 2), sussiste nell’ipotesi in cui il contenuto della clausola implichi la permanenza di una posizione di potere in capo alla P.A. committente, attribuendo a quest’ultima uno spettro di valutazione discrezionale nel disporre la revisione, mentre, nella contraria ipotesi in cui la clausola individui puntualmente e compiutamente un obbligo della parte pubblica del contratto, deve riconoscersi la corrispondenza di tale obbligo ad un diritto soggettivo dell’appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa di adempimento contrattuale, come tale ricadente nell’ambito della giurisdizione ordinaria”[73].

In presenza di una clausola revisione che, ai sensi dell’art. 60, c.1, D.Lgs. 36/2023, sia idonea – di per sé stessa ovvero per rinvio alla dettagliata normativa posta in materia – a definire puntualmente l’an ed il quantum del compenso revisionale, ogni controversia relativa a quest’ultimo non darebbe adito a giurisdizione del G.A., ma ricadrebbe senz’altro in quella del G.O.

Le superiori considerazioni consentono di tracciare i seguenti tratti distintivi dell’istituto in parola:

  • quanto ai presupposti, il diritto alla revisione dei prezzi è attivabile in presenza di accadimenti non necessariamente caratterizzati da imprevedibilità e straordinarietà, ma che si connotano in ragione dell’effetto prodotto sulla commessa. Quest’ultimo, difatti, deve essere tale da procurare una variazione dei costi di valore eccedente la soglia minima stabilità al c.2 dell’art. 60 D.Lgs. 36/2023, quand’anche ciò non determini un grave sconvolgimento dell’equilibrio contrattuale.

  • quanto alla portata precettiva, il diritto alla revisione dei prezzi non si esaurisce esclusivamente nella pretesa di veder inserita negli atti di gara e nel contratto la previsione di un’apposita clausola, ma anche, allorché se ne verifichino le condizioni, nella pretesa di veder attuato l’aggiornamento del corrispettivo con la frequenza e nella misura già stabiliti dalla legge, ovvero, se differenti, dalla apposita clausola negoziale. Appare interessante notare sul punto che, in effetti, l’attuale disciplina dell’istituto in questione – per come posta all’art. 60 D.Lgs. 36/2023, per come chiarita nella relazione di accompagnamento al codice e per come infine integrata e puntualizzata nella proposta di correttivo – sia tale da potersi ritenere del tutto superata la posizione interpretativa, consolidatasi anche nel recente passato presso autorevole giurisprudenza, secondo cui l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti[74]. Quest’ultima impostazione, ancora attuale come visto relativamente all’istituto della rinegoziazione ed alle clausole contrattuali invocate dall’art. 9 del D.Lgs. 36/2023, risulta evidentemente anacronistica se riferita all’istituto della revisione prezzi ed alle clausole contrattuali richiamate all’art. 60 D.Lgs. 36/2023, le quali si connotano per il loro spiccato automatismo e per l’evidente finalità di indicizzazione del corrispettivo loro attualmente infusa.

  • quanto all’onere istruttorio gravante sull’Amministrazione, l’istanza di revisione prezzi avanzata dall’appaltatore (ovvero, nella previsione del correttivo, l’automatica attivazione da parte dell’Amministrazione), impone alla Committente di operare una semplice verifica matematica dell’andamento degli indici statistici assunti quale riferimento e, constatatone il mutamento oltre il delta minimo previsto dalla legge, applicare la formula matematica per quantificare l’effettivo ammontare della variazione da applicare al valore della commessa;

  • quanto ai limiti di variazione normativamente imposti, anche per l’istituto in questione, come espressamente previsto al c. 2 dell’art. 60 D.Lgs. 36/2023, essi possono essere ricondotti, in primo luogo, all’assetto originario del rapporto, di talché nessuna ipotesi di revisione prezzi può dirsi legittima ove produca l’effetto di alterare la natura generale del contratto. In seconda battuta, poi, il c. 4 del suddetto articolo indica le fonti di finanziamento ai cui poter attingere per far fronte ai maggiori oneri derivanti dalla revisione prezzi. Quest’ultima prescrizione, per un verso sembra indicare, seppur senza fissarlo esplicitamente, un perimetro quantitativo entro il quale sia consento attuare la revisione durante l’intero protrarsi del rapporto, mentre, per altro verso, pone un presidio di garanzia rispetto alla effettività dell’istituto, così come peraltro chiarito nella relazione di accompagnamento al codice[75];

  • quanto ad eventuale attività di confronto fra le parti, a differenza di quanto previsto per l’istituto della rinegoziazione per la quale la fase di patteggiamento assume carattere di assoluta centralità, l’applicazione dell’istituto di revisione prezzi non contempla alcun momento di negoziazione né di confronto. Data la dinamica impressa all’istituto, fortemente importata ad immediatezza ed automatismo, quest’ultimo risponde a logiche aritmetiche più che conciliative. Non è certo un caso che, a differenza di quanto previsto per la rinegoziazione dall’art. 120, c. 8, D.Lgs. 36/2023, per il caso di revisione prezzi non sia minimamente contemplata la possibilità che le parti non giungano ad alcun accordo; ciò, evidentemente, per via del fatto che l’istituto revisionale, come detto, non contempla alcuna fase di confronto o negoziazione e, conseguentemente, alcun accordo fra i contraenti.

  • quanto alla giurisdizione, come già anticipato, deve intendersi superato il tradizionale paradigma del riparto di giurisdizione fra G.A. e G.O. a seconda che sia intervenuta o meno l’espressa adozione da parte della Committente di un espresso provvedimento attributivo o la stessa abbia tenuto un comportamento da cui derivi l’implicito riconoscimento del diritto alla revisione. Ad oggi, anzi, ed ancor più ove la proposta di correttivo giungesse invariata a definitiva approvazione, deve ritenersi che, anche a dispetto della riserva di giurisdizione di cui all’art. art. 133, c.1, lett. e, n. 2 del D.Lgs. n. 104 del 2010, l’unico Giudice competente a conoscere di controversie vertenti sulla revisione prezzi debba essere individuato nel G.O. poiché, tramite clausole contrattuali puntuali ovvero tramite il mero rinvio alla dettagliata normativa di legge, deve ritenersi che non residui in capo all’Amministrazione alcuno spettro di valutazione discrezionale nel disporre la revisione, tale da giustificare la possibilità di ricorrere al G.A.

4. Conclusioni

Il Diritto è un fenomeno umano e come tale è soggetto nella sua produzione, ma ancor più nella sua interpretazione ed applicazione, a risentire della mutevole evoluzione degli interessi che, di volta in volta, s’affermano nella comunità presso cui esso deve applicarsi.

Come sul letto di Procuste, la Legge si adagia sulle necessità ed i bisogni prevalenti della collettività che l’ha espressa, covando l’ineludibile destino di subire, a fasi alterne, nette recisioni di parti essenziali, ora l’una ora l’altra, a seconda della tendenza del momento e dell’insorgenza di nuove esigenze.

La disciplina degli istituti oggetto della presente trattazione, sotto questo profilo, esprime un esempio emblematico della valenza bivalente della norma giuridica, la quale per un verso tende a regolare e perseguire fattispecie ed interessi immediati ed in essa direttamente espressi, mentre, per altro, assume la funzione di perseguire e realizzare, solitamente intessendosi con altre norme in alveo applicativo analogo, obiettivi mediati più ampi e generalizzati.

Questi ultimi, in particolare, tendono a prevalere sui primi, di talché l’effettivo perseguimento degli stessi, impone di modellare, spesso previa reinterpretazione radicale, l’attuazione della regola, anche se ciò sovente significa deviare anche sensibilmente dal senso desumibile dal tenore letterale della stessa.

Diviene così più agevole comprendere ed accettare che, come per la disciplina della revisione e dell’adeguamento prezzi nei contratti pubblici, un medesimo istituto venga, anche a distanza di pochissimi anni, trattato e risolto in termini e con modalità diametralmente opposte; diviene finanche comprensibile il fenomeno per cui un medesimo testo normativo possa andar soggetto ad interpretazione ed applicazione evolutiva e dagli esiti non uniformi.

Lo si è visto, in particolare, trattando dell’istituto della revisione prezzi e della sua dinamica nell’arco degli ultimi decenni. Esso evidentemente rivolto, nell’immediato, a mantenere entro limiti di tollerabilità l’equilibrio sinallagmatico delle prestazioni contrattuali, è stato applicato negli anni con modalità e termini alterni a seconda che il fine ultimo prevalente fosse ravvisato in quello di assicurare la continuità del rapporto contrattuale e la conseguente conclusione con buon esito dello stesso, ovvero se l’obiettivo mediato prevalente fosse considerato invece quello di realizzare e perseguire il massimo grado di risparmio di risorse e taglio della spesa pubblica.

E’ così che, come già detto, sino al 2010 circa si è assistito ad un’interpretazione della norma che agevolava un’applicazione ampia e spesso fin troppo agevole dell’istituto in questione che, nel perseguire l’interesse manutentivo del rapporto, finiva, inevitabilmente, per sacrificare quello di certezza e prevedibilità della spesa.

Nel periodo successivo, invece, si è affermata – gradualmente ma inesorabilmente – una linea interpretativa che, pur in assenza di modifiche del tenere testuale della norma, ne promuoveva un’applicazione restrittiva volta a salvaguardare il prevalente interesse di certezza e prevedibilità della spesa pubblica, quand’anche ne fosse derivato il sacrificio dell’interesse manutentivo.

Quest’ultima tendenza – peraltro nella sua versione più integralista – ha trovato poi conforto ed anzi essa stessa si è sostanzialmente tradotta in legge, allorché ha di fatto trovato dimora esplicita nel d.lgs. 50/2016.

L’approccio rigoristico ha tuttavia disvelato la propria inadeguatezza in beve tempo all’insorgere di eventi che, connotati da straordinaria eccezionalità, hanno imposto di cercare rimedi immediati volti a salvaguardare proprio quelle necessità manutentive del rapporto le quali di fatto erano state sostanzialmente relegate, nel codice del 2016, all’ambito della collateralità ed eventualità.

Vi sono quindi tutte le ragioni per potersi chiedere quale sarebbe stata oggi, nell’ambito dei contratti pubblici, la disciplina della revisione e dell’adeguamento prezzi se non fossero intervenuti accadimenti dirompenti quali l’emergenza pandemica e l’evento bellico russo-ucraino, cui in effetti si deve gran parte del merito per la netta inversione di marcia che, in materia, si è avuto modo di registrare a partire dal 2020 e da ultimo nell’emanazione del D.Lgs. 36/2023.

Attualmente, grazie ai citati eventi, godiamo di una normativa che è tornata a focalizzare la propria attenzione sull’esigenza di preservare l’equilibrio contrattuale delle commesse pubbliche e a fornire agli operatori strumenti adeguati – benché perfettibili – per far fronte ad evenienze sperequative per quanto impronosticabili.

Quanto possa durare l’attuale assetto normativo?

Chi può dirlo; di certo sappiamo che esso non durerà per sempre e, presto o tardi, verrà nuovamente reinterpretato e poi rivisto, nel continuo e ciclico tentativo di inseguire bisogni e necessità.

Il percorso e le logiche testè evidenziate, ad ogni modo, non devono stupire, tutt’altro: il Diritto difatti è strumento dell’Uomo ed è naturale che esso si adatti, quand’anche con mutamenti netti e repentini, alle variabili esigenze del suo creatore; se così non fosse, l’Uomo ne sarebbe schiavo e tale evenienza, come alcune esperienze ci insegnano, condurrebbe a derive tutt’altro che auspicabili.

Non si faccia del Diritto una scienza, quindi, non lo si ponga su un altare racchiuso in un tabernacolo di immutabilità da osservare, analizzare e venerare; lo si viva, invece, lo si usi con col coraggio e l’attenzione che è giusto riservare a quanto di più fragile e nobile rappresenti il frutto dell’espressione creativa dell’Uomo e specchio fedele della società da cui promana, con la consapevolezza altresì di doverlo mutare ogni qual volta l’immagine riflessa non risponda più al volto della collettività che vi si ritrae.

 

 

 

 

 

[1] Codice Civile art. 1467 – Contratto con prestazioni corrispettive:
Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458 [168 trans.]. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto
[2] Codice Civile art. 1664 codice civile – Onerosità o difficoltà dell’esecuzione:
“Qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo. La revisione può esser accordata solo per quella differenza che eccede il decimo. Se nel corso dell’opera si manifestano difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell’appaltatore, questi ha diritto a un equo compenso”.
[3] Cfr. ex multis Cass. II, n. 6584/1986
[4] La stipulazione del contratto, che segue l’aggiudicazione (oggi non più distinta in provvisoria e definitiva), segnerebbe il “discrimine” «tra la fase di scelta del contraente, (…) retta da norme cc.dd. “di azione” che involgono un sindacato proprio della discrezionalità amministrativa devoluto al giudice amministrativo, e la fase dell’esecuzione del contratto conseguente a tale scelta, concettualmente non diversa dai contratti stipulati tra i soggetti privati e, pertanto, naturalmente ricadente nella giurisdizione del giudice ordinario». Cons. St., Sez. V, 30 luglio 2014, n. 4025
Coerentemente con tale impostazione, per giurisprudenza costituzionale costante, mentre la disciplina (primaria) della fase pubblicistica pertiene all’ambito materiale della concorrenza, la fase che ha inizio con la stipulazione del contratto e prosegue con l’attuazione del rapporto negoziale è invece disciplinata da norme che vanno ascritte alla materia dell’“ordinamento civile” ex art. 117, co. 2, lett. l), Cost.: ciò proprio in quanto, in tale fase, l’amministrazione si pone su un piano di tendenziale equiordinazione con il privato contraente, agendo “non nell’esercizio di poteri, bensì nell’esercizio della propria autonomia negoziale”. Corte cost. 23 novembre 2007, n. 401; Id., 28 febbraio 2011, n. 53
[5] A. Manzoni, I Promessi Sposi, Capitolo I: “La ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una e dell’altro”
[6] E’ ormai indiscussa la presenza di “momenti” pubblicistici anche nella fase esecutiva. Quest’ultima – un tempo considerata marginale rispetto all’evidenza pubblica, in ragione del suo (ritenuto) assorbimento, pressoché integrale, nel diritto privato dei contratti – ha assunto negli ultimi decenni crescente rilevanza anche nella disciplina positiva dei contratti pubblici, fino a trovare sistemazione in un corpo di disposizioni tendenzialmente organico, inserito nel Titolo V della Parte II del Codice di cui al d.lgs. n. 50/2016 (artt. 100 ss.) e oggi contenuto nella Parte VI del Libro II del nuovo Codice adottato con d.lgs. n. 36/2023, intitolata appunto “Dell’esecuzione” (artt. 113 ss.), nonché nel Titolo III della Parte II del Libro IV dello stesso d.lgs. n. 36/2023 con specifico riferimento alle concessioni (artt. 188 ss.). Tale disciplina contempla svariati atti espressione di potere amministrativo che possono o devono essere adottati nella fase esecutiva, dai quali emerge il carattere solo tendenziale della tradizionale ricostruzione “bifasica” (della vicenda) dei contratti pubblici.
A titolo solo esemplificativo, sono considerati espressione di poteri autoritativi (e non negoziali) – al di là dell’ambiguo nomen juris talvolta utilizzato dal legislatore – l’autorizzazione al subappalto (art. 105, co. 4, d.lgs. n. 50/2016, ora art. 119, commi 4 e 16 d.lgs. n. 36/2023), la sospensione dell’esecuzione disposta dal RUP (art. 107, co. 2, d.lgs. n. 50/2016, ora art. 121, co. 2, d.lgs. n. 36/2023), alcune ipotesi di risoluzione (art. 108, commi 1-2, d.lgs. n. 50/2016, ora art. 122 d.lgs. n. 36/2023), concretanti ipotesi speciali di autotutela, facoltativa o eccezionalmente doverosa, comprese quelle previste in tema di concessioni (art. 176, co. 1, d.lgs. n. 50/2016, ora art. 190 d.lgs. n. 36/2023 (cfr. “Le fasi della contrattualistica pubblica: profili di giurisdizione” di Pietro Stefano Maglione su Il Diritto Amministrativo Rivista Giuridica)
[7]  MANTELLINI, Lo Stato e il codice civile, Firenze, 1882, 680, il quale giunge alla conclusione secondo cui «non è dunque e non può essere del tutto contrattuale lo stesso rapporto giuridico dell’impresario, avendola da fare con l’amministrazione, non meno come autorità, che come contraente. Donde interceda pur l’istrumento, i contatti dello Stato si preparano e concludono sempre e poi sempre per atto d’autorità» […] «nei contratti dello Stato forma, intelligenza, esecuzione sono quelli che addiconsi ad esercizio d’autorità, o che cercano la definizione dei conseguenti rapporti dalla legge amministrativa più che dal codice civile», ne deriva, come conseguenza in capo all’interprete, la necessità di riconoscere che «la ermeneutica, la quale conviene ai contratti dello Stato, è l’ermeneutica degli atti unilaterali, o della legge, più che dei bilaterali o del contratto (…) essendo sempre la volontà d’uno solo che si ha da indagare, piuttosto che da conciliare la volontà di due; o in questa indagine meglio si confanno le regole di interpretazione dei bandi, o delle leggi, dettati da una volontà sola, che non le regole per gli istrumenti di compra e vendita, o di locazione e conduzione, preparati discussi e intesi da entrambe le parti contraenti. (…) Interpretazione di regolamento meglio che di contratto, d’atto unilaterale non di più volontà, e applicazione di criteri amministrativi piuttosto che da codice civile, ricorrono insomma nei contratti dello Stato» (citato da A. Giannelli in “Esecuzione e rinegoziazione degli appalti pubblici”)
[8] Lo schema dei contratti perfezionati dalla pubblica amministrazione è ascrivibile a quello che il codice civile disciplina; sicché, il contratto d’appalto pubblico ha la matrice negoziale nella fattispecie descritta negli artt. 1655 c.c.; se l’archetipo per le caratteristiche è il contratto civilistico, la natura è diversa: l’amministrazione nella contrattazione pubblica spende denaro pubblico ed è sempre tesa al perseguimento dell’interesse pubblico. Questi due elementi (denaro pubblico e interesse pubblico all’opera, al bene, al prodotto) rendono il contratto d’appalto “pubblico”, superante in qualità il contratto d’appalto che si perfeziona tra due privati, i quali hanno libertà di scelta dell’oggetto del contratto (nei limiti delle normative di settore: ad esempio, vincoli urbanistici, paesaggistici, etc.) e del quantum economico e patrimoniale da investire. Quindi, fra l’appalto pubblico e quello privato vi è rapporto di specialità, nel senso che il primo contiene tutti gli elementi del secondo, specializzandosi per le due caratteristiche suddette: l’immagine è quella di due cerchi concentrici, in cui la corona circolare è data dall’interesse pubblico e dalla spendita del denaro pubblico.( prof. Arturo Cancrini e prof. Vittorio Capuzza “Il contratto d’appalto: elementi essenziali e caratteristiche. La normativa comunitaria e nazionale. Le fasi di gara ad evidenza pubblica e dell’esecuzione del contratto”)
[9] Cfr. ex multis Cons. Stato n. 3768/2018, Cons. Stato n. 1980/2019, Cons. di Stato n. 7756/2022.
[10] In tal senso Cons. Stato n. 3653/2016, secondo cui è da ammettere “(….) l’esperibilità nei confronti dei contratti ausiliari di concessioni di lavori pubblici e di servizi dell’azione di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (…)”; Cass. Civ. n. 5267/2018 secondo cui  “La disposizione di cui all’art. 1664 c.c., senz’altro applicabile anche agli appalti pubblici, non ha carattere vincolante per le parti, le quali, pertanto, possono legittimamente derogarvi (…)”; Tar Campania, Napoli, Sez. V, 16/06/2022, n. 4095, in base alla quale  anche l’espressa esclusione negli atti di gara di ogni ipotesi di revisione del prezzo non vuol dire che “ l’impresa appaltatrice rimanga sprovvista di mezzi di tutela nel caso in cui si verifichi un aumento esorbitante dei costi del servizio in grado di azzerarne o comunque di comprometterne in modo rilevante la redditività; nel corso del rapporto, infatti, anche in presenza di una previsione escludente della legge di gara, qualora si verifichi un aumento imprevedibile del costo del servizio in grado di alterare il sinallagma contrattuale rendendo il contratto eccessivamente oneroso per l’appaltatore, questi può sempre esperire il rimedio civilistico di cui all’art. 1467 c.c., chiedendo la risoluzione del contratto di appalto per eccessiva onerosità sopravvenuta, alle condizioni previste dalla norma e, ovviamente, con azione proposta dinanzi al giudice competente.” 
[11] ANAC, parere funzione consultiva 13/09/2022 n. 37: “la possibilità, invocata nell’istanza di parere, di applicare l’art. 1664 c.c. ai fini della revisione dei prezzi negli appalti di servizi e forniture, sembra non trovare riscontro nelle previsioni dell’art. 106 del codice degli appalti pubblici, il quale, oltre a non contemplare tale ipotesi, sembra costituire altresì una norma speciale in tale materia, dettando una specifica disciplina in tema di variazioni dei contratti in corso di esecuzione (tanto che gli interventi normativi più recenti in tema di revisione dei prezzi, tra i quali l’art. 1-septies del d.l. 73/2021 e l’art. 29 d.l. 4/2022, introducono previsioni in deroga all’art. 106 del codice degli appalti pubblici)
[12] A tal fine, per procedimenti in corso si intendono: a) le procedure e i contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano stati pubblicati prima della data in cui il codice acquista efficacia; b) in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, le procedure e i contratti in relazione ai quali, alla data in cui il codice acquista efficacia, siano stati già inviati gli avvisi a presentare le offerte; c) per le opere di urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione, oggetto di convenzioni urbanistiche o atti assimilati comunque denominati, i procedimenti in cui le predette convenzioni o atti siano stati stipulati prima della data in cui il codice acquista efficacia; d) per le procedure di accordo bonario di cui agli articoli 210 e 211, di transazione e di arbitrato, le procedure relative a controversie aventi a oggetto contratti pubblici, per i quali i bandi o gli avvisi siano stati pubblicati prima della data in cui il codice acquista efficacia, ovvero, in caso di mancanza di pubblicazione di bandi o avvisi, gli avvisi a presentare le offerte siano stati inviati prima della suddetta data.
[13] La centralità del ruolo dell’ANAC si evince, in particolare, dall’art. 213, primo comma, il quale afferma che “La vigilanza e il controllo sui contratti pubblici e l’attività di regolazione degli stessi [contratti pubblici] sono attribuiti, nei limiti di quanto stabilito dal presente codice, all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) (…..)”
[14] Si segnala inoltre che nell’ordinamento sono presenti numerose norme in materia di contenimento della spesa per consumi intermedi, rivolte a enti ed organismi pubblici, che prevedono specifiche limitazioni per varie tipologie di spesa, come ad esempio in materia di spese di personale, spese per organi collegiali, per incarichi di studio e consulenza, per relazioni pubbliche e rappresentanza, per missioni, per attività di formazione, per autovetture, per gli acquisti di beni e servizi, ecc. Tali norme derivano da vari decreti-legge contenenti disposizioni di spending review, tra i quali si ricordano il D.L. n. 78/2010, il D.L. n. 95/2012, il D.L. n. 101/2013, il D.L. n. 66/2014, il D.L. n. 90/2014, nonché dalle leggi di stabilità e di bilancio.
[15] Con Comunicato del Presidente ANAC del 21 marzo 2021 è stato sottolineato infatti (tra l’altro) che «l’articolo 106 del Codice introduce una deroga al principio generale dell’evidenza pubblica, con conseguente divieto di applicazione della norma medesima al di fuori delle ipotesi specificamente e tassativamente indicate».
[16] Art. 106, c.1, Lett. a) del D.Lgs. 50/2026: “Le modifiche, nonché le varianti, dei contratti di appalto in corso di validità devono essere autorizzate dal RUP con le modalità previste dall’ordinamento della stazione appaltante cui il RUP dipende. I contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi. Tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche nonché le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti. Esse non apportano modifiche che avrebbero l’effetto di alterare la natura generale del contratto o dell’accordo quadro”.
[17] Consegue da quanto sopra che l’eventuale revisione dei prezzi per i contratti pubblici di servizi e forniture (anche alla luce dell’art. 29 della l. 25/2022), in assenza di specifiche previsioni derogatorie al d.lgs. 50/2016 (come per gli appalti di lavori), deve essere ricondotta nelle previsioni dell’art. 106 del Codice, il quale – come evidenziato- contempla, al comma 1, lett. a), la possibilità di procedere alla modifica dei prezzi, purché la stessa sia stata prevista nei documenti di gara “in clausole chiare, precise e inequivocabili” (in tal senso ex multis parere Anac 20/2022 cit.). In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale le eventuali istanze di revisione dei prezzi avanzate dall’appaltatore a seguito di asseriti aumenti dei costi di un servizio, vanno ricondotte esclusivamente nella previsione della lettera a) dell’art. 106, comma 1, del Codice (in tal senso Cons. Stato n.1488/2023 e n. 9426/2022, TAR Lombardia n. 238/2022, TRGA Bolzano n. 271/2022). Pertanto, come ulteriormente evidenziato dal giudice amministrativo «se un evento imprevedibile ed eccezionale causa un aumento straordinario dei prezzi durante la gara, l’operatore economico può legittimamente ritirarsi. Se invece decide di firmare il contratto, significa che accetta il rischio imprenditoriale. Se l’evento imprevedibile si manifesta dopo la stipula del contratto, l’operatore economico può rivolgersi al giudice civile per chiedere la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c., ovvero chiedere all’Amministrazione l’applicazione dell’art. 106, comma 1, lett. a), del D. Lgs. n. 50 del 2016, nel solo caso però … in cui la revisione sia prevista nei documenti di gara» (sent. TRGA n. 271/2022). (cfr. parere ANAC n. 17/2023)
[18] Riferendosi al disposto dell’art. 1467 c.c. gli Ermellini non esitano a dichiarare “in uno con l’utilizzabilità del rimedio, il virus globale accende i riflettori sulla sua manchevolezza, legata alla sua propensione demolitoria e non conservativa del contratto. Il rimedio è volto a rimuovere il vincolo, non a riequilibrare il sinallagma. Pertanto finisce per fare terra bruciata delle relazioni d’impresa come di quelle fra privati cittadini, in quanto conduce alla definitiva risoluzione del rapporto, non alla transitoria riduzione dei corrispettivi, che l’art. 1467 c.c. alla lettera non contempla.
Soltanto la parte favorita dallo sbilanciamento, può infatti evitare la risoluzione del negozio, offrendo di modificare equamente le condizioni di esso (art. 1467, comma 3, c.c.). A farle da specchio è la parte che patisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, ma che può solo agire in giudizio per sciogliere il vincolo e solo purché non abbia già eseguito la propria prestazione. La parte fragile non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni contrattuali, né può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle concordate.
Ora, nel contesto dei contratti commerciali, che sono ancillari all’esercizio dell’impresa e ne supportano la continuità, a fronte della sopravvenienza l’obiettivo precipuo del contraente sfavorito non è lo smantellamento del rapporto, ma la sua messa in sicurezza sul crinale di un riequilibrio reciprocamente appagante delle prestazioni.
L’emergenza non si tampona demolendo il contratto. Più che la liberazione del debitore-imprenditore dall’obbligazione, cruciali appaiono l’attenuazione o il ridimensionamento del contenuto di questa, ove il suo adempimento sia ostacolato o reso sfibrante dalle misure di contenimento su approvvigionamenti, circolazione di merci, organizzazione aziendale, vieppiù ove si consideri che dette misure sono turbinosamente adottate a vari livelli (nazionale, regionale, comunale) nell’ottica di contrastare il dilagare del contagio”.
[19]L’art. 1467 c.c. è sicuramente un’espressione di inadeguatezza degli strumenti preordinati alla soluzione della problematica delle sopravvenienze, dal momento che riconosce la possibilità di richiedere la revisione del contratto divenuto iniquo solo alla parte che, in teoria, avrebbe meno interesse al riequilibrio, in quanto da esso avvantaggiata.
Ciononostante, sempre la norma in parola è dimostrativa di come l’ordinamento privilegi la conservazione del contratto mediante revisione, rispetto alla caducazione del rapporto negoziale. Non è accidentale, infatti, che la richiesta di riconduzione ad equità del contratto abbia l’effetto di vanificare la domanda di risoluzione eventualmente proposta dalla parte onerata da sopravvenienze.
È da dire che la preferenza accordata alla revisione e, dunque, anche alla rinegoziazione quale rimedio ideale, in grado di realizzare un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, non si rinviene soltanto nell’art. 1467 c.c.: essa trova conferma generalmente nella disciplina speciale delle fattispecie contrattuali necessariamente o funzionalmente influenzate dal fattore tempo.
È il caso dell’art. 1664, comma primo, c.c., in materia di appalto, che, in caso di variazione del corrispettivo di oltre un decimo a causa di circostanze imprevedibili, ammette la revisione del prezzo originariamente pattuito; è anche il caso dell’art. 1623 c.c. che, in tema di affitto, riconosce la possibilità per le parti di rivedere il canone quando una disposizione di legge o un provvedimento dell’autorità abbia modificato notevolmente i termini del rapporto.
Il codice civile offre ulteriori e svariati esempi sul tema”
[20] Sul punto cfr. ex multis Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 21 del  29 novembre 2021secondo cui L’art. 1, comma 2-bis della legge n. 241/1990, come modificato dalla legge n. 120/2020, ha positivizzato il principio di correttezza e buona fede anche nel rapporto di diritto pubblico tra amministrazione e privati. Il procedimento amministrativo, quale luogo di contemperamento di interessi pubblici e privati, non deve pervenire ad una unilaterale statuizione potenzialmente lesiva dell’interesse legittimo del privato, bensì deve rappresentare un tavolo di confronto con il suo destinatario.
La ratio legis è sempre stata volta al rafforzamento della dialettica endoprocedimentale, con l’introduzione del corredo di diritti partecipativi riconosciuti in capo al soggetto inciso dal provvedimento, anche nell’ottica di deflazione del contenzioso. La buona fede, quindi, deve ispirare tanto la contrattazione privata quanto quella pubblica.
[21]negli appalti di opere pubbliche, il committente non solo è obbligato ad adempiere agli obblighi contrattualmente assunti, ma è tenuto a cooperare con l’impresa appaltatrice al fine di consentirle di procedere regolarmente nell’esecuzione dei lavori; pertanto, la mancata adozione dei necessari atti di cooperazione e gli inadempimenti agli obblighi contrattuali e legali, ove costituiscano rilevante ostacolo alla regolare esecuzione dei lavori, possono configurare di per sé un grave inadempimento, ai sensi degli artt. 1453 seg. c.c.” (Lodo Arbitrale 30.3.2004, in Arch. Giu. Opere Pubbliche 2004, 802).
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza arbitrale, di merito e di legittimità, risulta rispondente ai principi di correttezza e buona fede oggettiva l’obbligo posto a carico della stazione appaltante di cooperare all’adempimento dell’appaltatore, ponendo in essere tempestivamente e sollecitamente tutte quelle attività, distinte dal comportamento suo proprio ed anche in ipotesi riparatorie delle proprie imprevidenze, affinché il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio possa essere raggiunto nei tempi e nei modi previsti e concordati”. (LODO ARBITRALE R.L. n. 2 del 2019 depositato l’11 giugno 2019)
[22] Sul punto la Corte di Cassazione nella richiamata relazione tematica n. 56 del 8 luglio 2020 è perentoria nello statuire che “L’obbligo di rinegoziare impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l’invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell’economia del contratto; di sicuro non può esserle richiesto di acconsentire ad ogni pretesa della parte svantaggiata o di addivenire in ogni caso alla conclusione del contratto, che, è evidente, presuppone valutazioni personali di convenienza economica e giuridica che non possono essere sottratte né all’uno, né all’altro contraente.
Si avrà, per contro, inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata ad essa o si limita ad intavolare delle trattative di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell’accordo. L’inosservanza dell’obbligo in questione dimora nel rifiuto di intraprendere il confronto oppure nel condurre trattative maliziose (senza, cioè, alcuna seria intenzione di addivenire alla modifica del contratto)”
[23] Merita di essere ricordato che la limitazione della disciplina ai soli lavori costituì oggetto di fondate obiezioni. Anche l’ANAC con un suo comunicato del 22/2/2022 aveva chiesto (ma la sua sollecitazione non è stata accolta nella legge di conversione) “che la compensazione dei prezzi avvenga non soltanto per i lavori pubblici, ma anche per servizi e forniture [ciò in quanto] L’obiettivo dell’Autorità è quello di stabilire meccanismi che consentano di riguadagnare un equilibrio contrattuale, adeguando un aumento dei valori degli appalti per tenere conto dei costi reali. Se non lo si fa o le gare vanno deserte, o partecipa solo chi poi chiederà varianti con aumento dei prezzi, oppure la prestazione non viene adempiuta. In questo momento non dobbiamo guardare al risparmio immediato, ma riconoscere che bisogna avere clausole di adeguamento dei prezzi che tengano conto dei costi reali, indicizzando i valori inseriti nel bando di gara. Altrimenti rischiamo di vanificare lo sforzo del PNRR perché le gare di appalto andranno deserte, o favoriranno i “furbetti” che punteranno subito dopo l’aggiudicazione a varianti per l’aumento dei prezzi. Molto meglio stabilire dei meccanismi trasparenti e sicuri di indicizzazione, così da favorire un’autentica libera concorrenza e apertura al mercato plurale, e serietà in chi si aggiudica l’appalto. Risulta quindi imprescindibile l’individuazione normativa della percentuale di scostamento, oltre che delle modalità operative e dei limiti della compensazione”
[24] E’ agevole comprendere la ragione per cui tutti gli interventi normativi di perequazione susseguitisi in fase emergenziale si siano risolti nella previsione di istituti revisionali del corrispettivo. Intervenire sul fattore economico per conseguire il riequilibrio contrattuale, difatti, risulta ovviamente più agevole rispetto quanto sarebbe dover intervenire sull’assetto dei lavori o dei servizi. Il tentativo di prevedere norme che pongano parametri oggettivi e generalizzati in modifica delle modalità, condizioni, specifiche o entità delle prestazioni dovute dall’appaltatore potrebbe con ogni probabilità risolversi in un’impresa di Sisifo poiché la  specificità che connota ogni singola commessa, rende di fatto impossibile dettate criteri di revisione che possano valere ed essere applicabili a tutte le fattispecie interessate. Per tale motivo, quando si fa riferimento alla rinegoziazione perequativa del contratto, solitamente ci si riferisce alla variazione della prestazione economica della Committente e non invece alle prestazioni dell’appaltatore, benché in astratto non possa escludersi che l’equilibrio contrattuale possa essere raggiunto anche intervenendo a modificare le condizioni e l’entità di queste ultime.
[25] Legge delega 21 giugno 2022, n. 78, art. 1, lett. g.
[26] La III relazione illustrativa alla Camera, in riferimento all’art. 9, chiarisce che “La disposizione in esame introduce una significativa innovazione che trova ancoraggio nelle finalità sottese a vari principi e criteri della legge delega (il riferimento è, in particolare, all’art. 1, comma 2, lettere a), g), m) ll)) ed attraverso la quale si è inteso codificare una disciplina generale da applicare per la gestione delle sopravvenienze straordinarie e imprevedibili considerate dalla disposizione, tali da determinare una sostanziale alternazione nell’equilibrio contrattuale, con effetti resi di recente drammaticamente evidenti dalla congiuntura economica e sociale segnata dalla pandemia e dal conflitto in Ucraina […] A venire in rilievo, infatti, sono contratti pubblici connotati dalla conformazione in ragione delle finalità di pubblico interesse perseguite che restano immanenti al contratto e al rapporto che ne scaturisce, con conseguente esclusione della possibilità di accedere a una integrale trasposizione delle regole civilistiche e necessità di favorire il raggiungimento di un giusto punto di equilibrio idoneo a preservare tali interessi assicurando al tempo stesso adeguata ed effettiva tutela agli operatori economici, nella consapevolezza anche della convergenza di tale tutela con altri interessi generali di primario rilievo (stabilità economica, sociale, occupazionale, ecc.) suscettibili di essere pregiudicati in situazioni di hardship. L’articolo, dunque, mira a disciplinare le sopravvenienze che possono verificarsi nel corso dell’esecuzione del contratto, alterandone lequilibrio originario o facendo venir meno, in parte o temporaneamente, interesse del creditore alla prestazione. Viene, in tal modo, introdotto un rimedio manutentivo del contratto, maggiormente conforme all’interesse dei contraenti e dell’amministrazione in particolare in considerazione dell’inadeguatezza della tutela meramente demolitoria apprestata dall’art. 1467 c.c.”
[27] Legge n. 78/2022, art. 1, c.2, lett g): “previsione dell’obbligo per le stazioni appaltanti di inserire nei bandi di gara, negli avvisi e inviti, in relazione  alle  diverse tipologie di contratti pubblici, un regime obbligatorio di  revisione dei  prezzi  al  verificarsi  di  particolari  condizioni  di  natura oggettiva  e  non   prevedibili   al   momento   della   formulazione dell’offerta, compresa la variazione del costo derivante dal  rinnovo dei contratti  collettivi  nazionali  di  lavoro  sottoscritti  dalle associazioni dei datori e dei prestatori di  lavoro  comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale,  applicabili  in  relazione all’oggetto dell’appalto e delle prestazioni  da  eseguire  anche  in maniera prevalente, stabilendo che gli eventuali oneri derivanti  dal suddetto meccanismo di revisione dei  prezzi  siano  a  valere  sulle risorse disponibili  del  quadro  economico  degli  interventi  e  su eventuali altre risorse disponibili per  la  stazione  appaltante  da utilizzare nel rispetto delle procedure contabili di spesa”
Legge n. 78/2022, art. 1, c.2, lett u): “ridefinizione  della  disciplina  delle  varianti  in   corso d’opera, nei limiti previsti dall’ordinamento europeo,  in  relazione alla  possibilità  di  modifica  dei  contratti  durante   la   fase dell’esecuzione”
[28] Nei contratti a prestazioni corrispettive la parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, c.c., purché non abbia già eseguito la propria prestazione, ma non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite. (Cassazione civile, Sez. I, ordinanza n. 2047 del 26 gennaio 2018)
[29] La disposizione di cui all’art. 1664 c.c. (relativa alla revisione del prezzo del contratto di appalto), senz’altro applicabile anche agli appalti pubblici, non ha carattere vincolante per le parti, le quali, pertanto, possono legittimamente derogarvi, con la conseguenza che, in caso di contrasto tra esse circa la reale portata delle clausole contrattuali sul punto della applicabilità o meno della norma “de qua”, è demandato al giudice di merito, al fine di accertare la reale volontà dei contraenti (se abbiano, cioè, voluto o meno escludere la revisione del prezzo del contratto di appalto), il compito di ricostruirne il comune intento negoziale avvalendosi dei comuni criteri di ermeneutica contrattuale, a partire da quello collegato all’elemento letterale delle clausole negoziali, considerando, all’uopo, che l’intento di derogare alla norma contenuta nell0 art. 1664 c.c. non richiede l’uso di particolari espressioni formali, potendo per converso risultare, oltre che da una clausola espressa, anche dall’intero assetto negoziale nel suo complesso. (Cassazione civile, Sez. I, ordinanza n. 5267 del 6 marzo 2018)
[30] la disposizione reca riferimento ad eventi che integrano determinati requisiti: – deve trattarsi di eventi straordinari e imprevedibili; – i rischi concretizzati da tali eventi non devono essere stati volontariamente assunti dalla parte pregiudicata dagli stessi; – tali eventi devono determinare una alterazione rilevante dell’originario equilibrio del contratto e non devono essere riconducibili alla normale alea, alla ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato.
[31] Il nuovo codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. del 31 marzo 2023 n. 36, che pure all’art. 9 introduce innovativamente il principio di conservazione dell’equilibrio negoziale e il dovere ex fide bona di rinegoziazione del contratto, fissa al comma due il relativo limite costituito dalla mancata alterazione della sostanza economica del contratto, nonché, ai commi 5 e 6 dell’art. 120, la necessità che le modifiche al contratto non siano “sostanziali” ovvero non incidano, come nel caso della variante proposta dall’A.T.I. -OMISSIS-, sulla struttura dell’operazione economica sottesa al contratto di affidamento del servizio di smaltimento dei rifiuti. (Consiglio di Stato, sez. IV, 19.06.2023 n. 5989)
[32] All’articolato 2.9., le citate linee guida testualmente recitano: “vi sono una serie di rischi che, di regola, rimangono allocati in capo all’amministrazione concedente, definiti come causa di forza maggiore, che devono essere puntualmente individuati nel contratto. Si tratta di rischi legati ad eventi che hanno carattere eccezionale, che non possono essere addebitati a comportamenti del concessionario e impongono una sospensione dei lavori o dell’erogazione dei servizi per un lungo lasso di tempo. A titolo esemplificativo, possono considerarsi come eventi di forza maggiore: a) scioperi o manifestazioni di protesta, fatta eccezione per quelli che riguardano l’affidatario di lavori o servizi oggetto del contratto di PPP; b) guerre o atti di ostilità, comprese azioni terroristiche, sabotaggi, atti vandalici e sommosse, insurrezioni e altre agitazioni civili; c) esplosioni, radiazioni e contaminazioni chimiche; d) fenomeni naturali avversi di particolare gravità ed eccezionalità, comprese esondazioni, fulmini, terremoti, siccità, accumuli di neve o ghiaccio, riconosciuti come disastri o catastrofi dall’Autorità competente; e) epidemie e contagi; f) indisponibilità eccezionale di alimentazione elettrica, gas o acqua per cause non imputabili all’amministrazione, all’operatore economico o a terzi affidatari di lavori o servizi oggetto del contratto; g) impossibilità eccezionale, imprevista e imprevedibile, per fatto del terzo, di accedere a materie prime e/o servizi necessari alla realizzazione dell’intervento. In ogni caso, il rischio legato ai cicli economici e sopportato dai produttori nel loro settore di attività non può essere considerato causa di forza di maggiore”.
[33] Art. 165, D.Lgs. 50/2016, “Rischio ed equilibrio economico-finanziario nelle concessioni”
[34] Consiglio di Stato n. 4793/2024 del 28.05.2024 ed in senso conforme ex multis Consiglio di Stato Sez. III,1309/2016 e Consiglio di Stato, Sez. III, 6237/2018
[35] La legge delega, all’art. 1, c. 2, lett.g), richiedeva espressamente che la variazione del costo derivante dal rinnovo dei contratti collettivi nazionali fosse riconosciuta come sopravvenienza di natura oggettiva e non prevedibile al momento della formulazione dell’offerta, tale da giustificare il ricorso alla rinegoziazione. E’ tuttavia significativo che tale prescrizione non sia stata riprodotta nella stesura definitiva del codice. A meno di non voler ascrivere la mancata previsione ad una mera dimenticanza, non può che attribuirsi a tale circostanza una valenza significativa in merito alla volontà del Legislatore di non allargare troppo le maglie della disciplina in parola.
[36] Tar Campania, Napoli, Sez. I. 13/06/2024, n. 3735
[37] Si consideri, a titolo esemplificativo, l’evento bellico russo-ucraino: esso, di per sé, è certamente riconducibile al novero delle cause di forza maggiore imprevedibili e straordinarie, la quale assume potenzialmente una portata dirompente sui rapporti negoziali in essere per le ricadute in termini di incremento del costo delle materie prime o delle forniture energetica; ma si può ritenere che l’evento in questione risulti altrettanto incisivo su altre voci di costo quale, ad esempio, quella riferita alla manodopera? E’ evidente che un medesimo accadimento agisca in maniera differente  in base alla tipologia di commessa, ovvero, anche nell’ambito della medesima commessa, sulle differenti voci di costo che la connotano.
[38] In quest’ottica deve ritenersi scorretta la prassi, spesso adottata dalle amministrazioni, di limitarsi ad accogliere le richieste di modifica proposte dall’appaltatore, le quali, pur scaturendo da eventi legittimanti, nella misura appaiono determinate dal riferimento a indici statistici o da analisi macroeconomiche i quali mal si conciliano con la commessa specifica e spesso finiscono con l’assicurare all’appaltatore stesso il conseguimento di un ingiusto vantaggio.
[39] Rinegoziare vuol dire impegnarsi a porre in essere tutti quegli atti che, in relazione alle circostanze, possono concretamente consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell’adeguamento del contratto, alla luce delle modificazioni intervenute.
Verosimilmente sarà il contraente svantaggiato a domandare alla controparte l’adeguamento del contratto, indicando altresì le modifiche da apportare alle condizioni precedentemente pattuite. L’altro contraente dovrà condurre la rinegoziazione in modo costruttivo. I criteri dai quali desumere il comportamento delle parti, nel corso delle trattative destinate alla rinegoziazione del contratto, sono anche in quest’occasione offerti dalla clausola generale di buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), che non è regola sul contenuto ma giustappunto sulla condotta. I parametri di concretizzazione della clausola generale sono inevitabilmente flessibili e si traggono dalle circostanze, dagli usi e dalla natura dell’affare. Quest’ultima, segnatamente, è connessa al risultato che le parti si sono prefissate mediante la stipula del contratto, desumibile dalle singole obbligazioni ivi dedotte ma anche dal contesto di mercato in cui il contratto opera.
L’obbligo di rinegoziare impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l’invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell’economia del contratto; di sicuro non può esserle richiesto di acconsentire ad ogni pretesa della parte svantaggiata o di addivenire in ogni caso alla conclusione del contratto, che, è evidente, presuppone valutazioni personali di convenienza economica e giuridica che non possono essere sottratte né all’uno, né all’altro contraente.
Si avrà, per contro, inadempimento se la parte tenuta alla rinegoziazione si oppone in maniera assoluta e ingiustificata ad essa o si limita ad intavolare delle trattative di mera facciata, ma senza alcuna effettiva intenzione di rivedere i termini dell’accordo. L’inosservanza dell’obbligo in questione dimora nel rifiuto di intraprendere il confronto oppure nel condurre trattative maliziose (senza, cioè, alcuna seria intenzione di addivenire alla modifica del contratto).
Per giurisprudenza costante i canoni della solidarietà contrattuale, fondati sulla buona fede, prescrivono di salvaguardare l’interesse altrui ma non fino al punto di subire un apprezzabile sacrificio, personale o economico” (Cass. Civ. relazione tematica n. 56 del 8 luglio 2020)
[40] Non a caso l’art. 120, c.8., prescrive chiaramente che l’istanza di rinegoziazione non giustifica, di per sé, la sospensione dell’esecuzione del contratto.
[41] Fra gli altri Guidomaria De Cesare “Diritto alla rinegoziazione dell’appalto pubblico e riparto di giurisdizione: una passeggiata sul crinale tra diritto sostanziale e processuale”
[42] Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti favoriscono l’inserimento nel contratto di clausole di rinegoziazione, dandone pubblicità nel bando o nell’avviso di indizione della gara, specie quando il contratto risulta particolarmente esposto per la sua durata, per il contesto economico di riferimento o per altre circostanze, al rischio delle interferenze da sopravvenienze. (D.Lgs. 36/2023, art. 9, c.4)
[43] La relazione di accompagnamento al codice, in riferimento all’art. 9, c.1, D.Lgs. 36/2023, recita testualmente “la disposizione reca riferimento ad eventi che integrano determinati requisiti: – deve trattarsi di eventi straordinari e imprevedibili; – i rischi concretizzati da tali eventi non devono essere stati volontariamente assunti dalla parte pregiudicata dagli stessi; – tali eventi devono determinare una alterazione rilevante dell’originario equilibrio del contratto e non devono essere riconducibili alla normale alea, alla ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato.”
[44] L’art. 9, c.1, del nuovo codice, difatti, dispone che “Gli oneri per la rinegoziazione sono riconosciuti all’esecutore a valere sulle somme a disposizione indicate nel quadro economico dell’intervento, alle voci imprevisti e accantonamenti e, se necessario, anche utilizzando le economie da ribasso d’asta”. Deve ritenersi, pertanto, che la rinegoziazione non possa spingersi sino al punto di imporre alla Committente di dover attingere a risorse ulteriori e non contemplate nel quadro economico della commessa. La conclusione è confermata dalla relazione di accompagnamento al Codice, la quale sul punto, chiarisce che “Il secondo e ultimo capoverso del comma 1 considera la copertura finanziaria degli oneri discendenti
Dall’obbligo di rinegoziazione: la norma chiarisce che la rinegoziazione non altera il finanziamento complessivo dell’opera, perché è ammessa nei limiti dello stanziamento di bilancio originario. L’articolo in esame è, dunque, in linea con la clausola di invarianza finanziaria contenuta nella legge delega, in quanto il reperimento delle risorse avviene nell’ambito del quadro economico e, dunque, nei limiti degli stanziamenti previsti dalla legislazione vigente”.
[45] Il condizionale anche in questo caso è d’obbligo, atteso che dottrina e giurisprudenza ancora dibattono in merito alla applicabilità anche alle fattispecie in parola della riserva di giurisdizione ex art. 133, comma 1, lettera e) n. 2, c.p.a.
[46] Nel caso in cui il contratto “rechi un’apposita clausola che preveda il puntuale obbligo dell’Amministrazione di dar luogo alla revisione dei prezzi: in tale ipotesi, la richiesta sottoposta all’esame del giudice, risolvendosi in una mera pretesa di adempimento contrattuale, non può che intendersi come volta all’accertamento dell’esistenza di un diritto soggettivo, come tale rimesso alla cognizione del giudice ordinario” (Corte di cassazione n. 9965/2017)
la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in conformità alla previsione di cui all’articolo 133, comma 1, lettera e), n. 2), cod. proc. amm. sussiste nell’ipotesi in cui il contenuto della clausola implichi la permanenza di una posizione di potere in capo all’Amministrazione committente, attribuendo a quest’ultima uno spettro di valutazione discrezionale nel disporre la revisione; mentre, nella contraria ipotesi in cui la clausola individui puntualmente e compiutamente un obbligo della parte pubblica del contratto, deve riconoscersi la corrispondenza di tale obbligo ad un diritto soggettivo dell’appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa di adempimento contrattuale, come tale ricadente nell’ambito della giurisdizione ordinaria (cfr. Cons. Stato, III, 2022, n. 5651/2022, che richiama Cass. civ., SS.UU., ord. n. 35952/2021)” (Consiglio di Stato, sez. III, n. 7291/2023)
[47]Nell’uso dottrinale e giurisprudenziale, la rinegoziazione corrisponde all’attività delle parti che riconsiderano il regolamento contrattuale per modificarne il contenuto attraverso lo svolgimento di nuove trattative, mentre revisione e adeguamento sono considerati strumenti che denotano l’operazione in cui occorre conciliare la vincolatività di un atto con l’adattamento delle sue conseguenze alle situazioni della realtà mutate nel corso dell’esecuzione” (Enciclopedia on line Treccani – voce “Rinegoziazione”)
[48] Si pensi che già nel decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 6 dicembre 1947, n. 1501, intitolato “Nuove disposizioni per la revisione dei prezzi contrattuali degli appalti di opere pubbliche” l’istituto in questione risultava espressamente disciplinato e che poi la disciplina è stata ripresa e rivista con Legge 19 febbraio 1970, n. 76 rubricata “Norme per la revisione dei prezzi degli appalti di opere pubbliche”.
[49] Art. 6, c.4, L. 537/1993 “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili della acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui al comma 6.
[50] Art. 44, 4 comma della L. n. 724/94: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili della acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui al comma 6”
[51] ex multis Consiglio di Stato sez.V 9/6/2008 n. 2786, Tribunale Amministrativo Regionale Sardegna sez.I 28/7/2008 n. 1571
[52] ex multis Consiglio di Stato sez.V 7/9/2004 n. 5844; Consiglio di Stato sez.V 6/9/2007 n. 4679
[53] ex multis Consiglio di Stato sez.V 6/9/2007 n. 4679
[54] ex multis Consiglio di Stato sez.V 8/5/2002 n. 2461; Consiglio di Stato, Sezione V, 19 febbraio 2003, n. 916, secondo cui “l’art. 6 L. 537/1993 va interpretato come precetto immediatamente attributivo alle imprese appaltatrici del diritto alla revisione dei prezzi senza alcuna limitazione, quindi, anche per aumenti di costi inferiori al 10% … omissis…. Non può dubitarsi che l’art. 6 L. 537/1993 costituisca norma speciale rispetto all’art. 1664 c.c.: mentre, infatti, quest’ultima disposizione risulta diretta a regolare, in via generale, l’istituto della revisione dei prezzi nei contratti d’appalto, senza ulteriore definizione dei caratteri dei rapporti ai quali si applica, la prima si occupa di disciplinare compiutamente la medesima materia con puntuale riferimento ai contratti ad esecuzione continuativa o periodica delle Pubbliche Amministrazioni”
[55] ex multis  Consiglio di Stato sez.VI 19/6/2009 n. 4065
[56] ex multis Tribunale Amministrativo Regionale Puglia Bari sez.I 13/10/2004 n. 4446
[57] Art. 115, D.Lgs. 163/2006: «Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizsulla base dei dati di cui all’articolo 7, comma 4, lettera c) e comma 5.»
[58] art. 72 della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014; Corte di Giustizia 19 giugno 2008, C454/06, 17 settembre 2016, C-549/14, 19 aprile 2018, causa C-152/17
[59] ex multis Consiglio di Stato Sez. V, 17 febbraio 2010 n. 935
[60] ex multis Cons. Stato, Sez. III, 25/03/2019, n. 1980
[61] ex multis Consiglio di Stato, Sez. III, Sentenza n. 4362 del 19-07-2011; conforme Sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6275; id., 24 gennaio 2013 n. 465
[62] cfr. in tal senso T.A.R. Napoli, Sez. I, n. 2306/2014; T.A.R. Milano, Sez. I, n. 435/2021
[63] Art. 106, c.1, lett. a) D.Lgs. 50/2016: «Le modifiche, nonché le varianti, dei contratti di appalto in corso di validità devono essere autorizzate dal RUP con le modalità previste dall’ordinamento della stazione appaltante cui il RUP dipende. I contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento nei casi seguenti: a) se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi. Tali clausole fissano la portata e la natura di eventuali modifiche nonché le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti. Esse non apportano modifiche che avrebbero l’effetto di alterare la natura generale del contratto o dell’accordo quadro»
[64] Non a caso l’art. 106 del D.Lgs. 50/2016 costituisce in gran parte riproduzione dell’art. 72 della direttiva n. 2014/24/UE del 26 febbraio 2014.
[65]La logica del d.lgs. n. 50 del 2016, vigente al tempo dell’adozione dell’atto qui impugnato, era quella di evitare che la clausola revisionale potesse alterare in modo sostanziale il contratto riflettendosi negativamente sulla effettività delle condizioni concorrenziali della gara esperita, sicché la regola generale era il divieto di clausola revisionale salvi i casi derogatori tassativamente previsti, nei quali fosse possibile una revisione “senza una nuova procedura di affidamento”, a condizione che tale revisione non apportasse “modifiche che avrebbero l’effetto di alterare la natura generale del contratto o dell’accordo quadro”. La norma del 2016, infatti, si raccorda al diritto dell’Unione europea che, a tutela della concorrenza, limita i meccanismi di revisione dei prezzi degli appalti pubblici per evitarne i potenziali effetti elusivi del meccanismo della gara pubblica (art. 72 della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014; Corte di Giustizia 19 giugno 2008, C454/06, 17 settembre 2016, C-549/14, 19 aprile 2018, causa C-152/17). Trattandosi di norma derogatoria del principio della gara, non ne è consentita un’interpretazione analogica ed estensiva (come è del resto esplicitato dalla disposizione contenuta nel comma 6 dell’art. 106”. (Consiglio di Stato, sez. III, 13.07.2023 n. 6847)
[66] D.lgs. 36/2023, art. 60. (Revisione prezzi): “Nei documenti di gara iniziali delle procedure di affidamento è obbligatorio l’inserimento delle clausole di revisione prezzi. Queste clausole non apportano modifiche che alterino la natura generale del contratto o dell’accordo quadro; si attivano al verificarsi di particolari condizioni di natura oggettiva, che determinano una variazione del costo dell’opera, della fornitura o del servizio, in aumento o in diminuzione, superiore al 5 per cento dell’importo complessivo e operano nella misura dell’80 per cento della variazione stessa, in relazione alle prestazioni da eseguire. Ai fini della determinazione della variazione dei costi e dei prezzi di cui al comma 1, si utilizzano i seguenti indici sintetici elaborati dall’ISTAT: a) con riguardo ai contratti di lavori, gli indici sintetici di costo di costruzione; b) con riguardo ai contratti di servizi e forniture, gli indici dei prezzi al consumo, dei prezzi alla produzione dell’industria e dei servizi e gli indici delle retribuzioni contrattuali orarie.…”
[67] Sul punto è interessante notare che la stessa legge delega 21 giugno 2022, n. 78, all’art. 1, c. 2, lett. g), prevedeva che l’istituto revisionale dovesse essere attivabile “al verificarsi di particolari condizioni di natura oggettiva e non prevedibili al momento della formulazione dell’offerta”. Coerentemente al disposto della delega, peraltro, anche la relazione di accompagnamento alla proposta redatta dalla Commissione incaricata confermava di aver fedelmente “previsto, sempre al comma 2, che all’origine delle variazioni dei prezzi che renderanno in concreto attivabile il meccanismo della revisione siano ‘particolari condizioni di natura oggettiva, non prevedibili al momento della formulazione dell’offerta’. Particolarmente delicato e complesso è stato, dunque, conciliare l’opzione di indicizzazione con la caratteristica dell’imprevedibilità delle variazioni: per garantire la coerenza del nuovo sistema si è così concentrata l’attenzione sia sul profilo temporale della valutazione dell’imprevedibilità (‘imprevedibili al momento della formulazione dell’offerta’) sia sul dato quantitativo di essa (variazioni imprevedibili nel quantum)”. Nella versione definitiva approvata dal Governo, tuttavia, ogni riferimento alla imprevedibilità delle condizioni legittimanti è del tutto scomparso. Ciò indica chiaramente che il Legislatore abbia voluto consapevolmente rimuovere detto requisito e conferma che esso non è assolutamente essenziale ai fini della applicazione dell’istituto revisionale.
[68] La tesi da ultimo espressa tende a rafforzarsi in ragione del fatto che la bozza di correttivo al Codice, approvata dal Consiglio dei ministri n. 101 del 21.10.2024, all’art. 3, c.4, dell’allegato II.2 bis chiarisce che “L’applicazione delle clausole di revisione non costituisce modifica del contratto in corso di esecuzione ai sensi dell’articolo 120 del Codice”.
[69] Sul punto appare dirimente il riferimento alla bozza di correttivo da ultimo approvata dal Consiglio dei Ministri n. 101 del 21.10.2024, ove è espressamente chiarito che debba farsi riferimento alla “soglia del 5 per cento dell’importo del contratto quale risultante dal provvedimento di aggiudicazione”
[70] La legge delega 21 giugno 2022, n. 78, all’art. 1, c. 2, lett. g), sul punto, richiedeva espressamente che il nuovo codice introducesse la previsione dell’obbligo per le stazioni appaltanti di inserire nei bandi di gara, negli avvisi e inviti al fine di attuare “un regime obbligatorio di revisione dei prezzi”. In linea con quanto richiesto dal Parlamento, la Commissione incaricata dal Governo ha elaborato una disciplina che “Tra i possibili meccanismi di funzionamento della revisione (sostanzialmente riassumibili sotto le due categorie dei sistemi di compensazione e di quelli di indicizzazione) si è scelto, al comma 2, un modello di indicizzazione, per alcuni profili ispirato a quello esistente nell’ordinamento francese, allo scopo di facilitare e rendere più rapida e ‘sicura’ l’applicazione della revisione”.
[71] Articolo 3 Attivazione delle clausole di revisione prezzi: “1. Le stazioni appaltanti monitorano l’andamento degli indici di cui all’articolo 60 del Codice con la frequenza indicata nei documenti di gara iniziali, comunque non superiore a quella di aggiornamento degli indici revisionali applicati all’appalto, al fine di valutare se sussistono le condizioni per l’attivazione delle clausole di revisione prezzi. 2. Le clausole di revisione dei prezzi introdotte ai sensi dell’articolo 60 sono attivate automaticamente dalla stazione appaltante, anche in assenza di istanza di parte, quando la variazione dell’indice sintetico, calcolato in coerenza con la Sezione II per gli appalti di lavori, ovvero la variazione dell’indice o del sistema ponderato di indici, calcolato in coerenza con la Sezione III per gli appalti di servizi e forniture, supera, in aumento o diminuzione, la soglia del 5 per cento dell’importo del contratto quale risultante dal provvedimento di aggiudicazione. 3. Le clausole di revisione dei prezzi si applicano nella misura dell’80 per cento del valore eccedente la variazione del 5 per cento, applicata alle prestazioni da eseguire dopo l’attivazione della clausola di revisione. 4. L’applicazione delle clausole di revisione non costituisce modifica del contratto in corso di esecuzione ai sensi dell’articolo 120 del Codice”
[72] In tal senso, un’embrionale presa di coscienza può essere ravvisata nelle sempre più frequenti pronunce secondo cui “Nelle controversie relative alla clausola di revisione del prezzo negli appalti di opere e servizi pubblici, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in conformità alla previsione di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 133, comma 1, lett. e), n. 2), sussiste nell’ipotesi in cui il contenuto della clausola implichi la permanenza di una posizione di potere in capo alla P.A. committente, attribuendo a quest’ultima uno spettro di valutazione discrezionale nel disporre la revisione, mentre, nella contraria ipotesi in cui la clausola individui puntualmente e compiutamente un obbligo della parte pubblica del contratto, deve riconoscersi la corrispondenza di tale obbligo ad un diritto soggettivo dell’appaltatore, il quale fa valere una mera pretesa di adempimento contrattuale, come tale ricadente nell’ambito della giurisdizione ordinaria.” (TAR LAZIO di Roma – sez. II S – SENTENZA 17 febbraio 2023 N. 2827). Conformi TAR Campania Napoli sez. II 21 maggio 2024 n. 3281,  Cass. civ. sez. un., ord. n. n. 35952 del 2021; Cons. Stato, sez. III, n. 7291 del 2023.
[73] Cassazione Civile, Sezioni Unite, ordinanza n. 35952 del 2021, conforme TAR Napoli sez. II 21 maggio 2024 n. 3281,
[74] “l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo, da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’Amministrazione, non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti; – in tal senso si è ripetutamente pronunciata la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sezione V, 22 dicembre 2014, n. 6275 e 24 gennaio 2013, n. 465), rilevando che la posizione dell’appaltatore è di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante (Cassazione, Sezioni Unite, 31 ottobre 2008, n. 26298), che deve effettuare un bilanciamento tra l’interesse dell’appaltatore alla revisione e l’interesse pubblico connesso al risparmio di spesa, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato; – l’istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, modello che sottende l’esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale dell’Amministrazione nei confronti del privato contraente, potendo quest’ultimo collocarsi su un piano di equiordinazione con l’Amministrazione solo con riguardo a questioni involgenti l’entità della pretesa; – la qualificazione in termini autoritativi del potere di verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, comporta che il privato contraente potrà avvalersi solo dei rimedi e delle forme tipiche di tutela dell’interesse legittimo. Ne deriva che sarà sempre necessaria l’attivazione – su istanza di parte – di un procedimento amministrativo nel quale l’Amministrazione dovrà svolgere l’attività istruttoria volta all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, compito che dovrà sfociare nell’adozione del provvedimento che riconosce il diritto al compenso revisionale e ne stabilisce anche l’importo. In caso di inerzia da parte della stazione appaltante, a fronte della specifica richiesta dell’appaltatore, quest’ultimo potrà impugnare il silenzio inadempimento prestato dall’Amministrazione, ma non potrà demandare in via diretta al giudice l’accertamento del diritto, non potendo questi sostituirsi all’Amministrazione rispetto ad un obbligo di provvedere gravante su di essa (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 24 gennaio 2013 n. 465)” (cfr. T.A.R. Puglia Lecce, Sez. III, Sent., 23/02/2024, n. 273) (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 9 gennaio 2017 n. 25)
[75]Ultimo cruciale profilo per l’effettività del sistema è quello del finanziamento dei maggiori oneri derivanti dalla revisione che dovrà avvenire nel rispetto delle procedure contabili di spesa. Rappresentando un espresso punto di esecuzione della delega, la questione del finanziamento, anche se di carattere tecnico, è stata inserita nell’articolo dedicato alla revisione prezzi, al comma 4, piuttosto che nell’allegato”.

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