Gli usi civici: diritti che non hanno più ragione di esistere

Gli usi civici: diritti che non hanno più ragione di esistere

Sommario: Premessa – 1. Origine storica degli usi civici – 2. La svolta operata da Napoleone Bonaparte – 3. La situazione attuale – 4. La situazione normativa – 5. La commerciabilità dei fondi gravati da diritti di uso civico – 6. La legittimazione – 7. L’affrancazione – 8. Conclusioni

 

Premessa

Sarà capitato ad alcuni, specie in alcune zone d’Italia, di voler vendere un terreno e di trovarsi nell’impossibilità di farlo per la presenza, su di esso, dei famigerati usi civici. Ma cosa sono? Come mai si trovano su un terreno all’insaputa di tutti? Da dove hanno origine?

Nel presente contributo cercheremo di dare una risposta a questi interrogativi e di capire insieme che cosa in realtà siano gli usi civici.

1. Origine storica degli usi civici

Per capire cosa sono gli usi civici e da dove derivano dobbiamo fare un lungo salto indietro nel tempo e risalire addirittura alla caduta dell’Impero Romano.

Con la caduta dell’Impero Romano infatti, come ricordiamo dai nostri studi di storia, venne meno quella che per secoli era stata l’autorità centrale e si cadde in una situazione di totale anarchia, dove non esisteva nessuna legge se non quella del più forte. In questo particolare periodo storico la nostra penisola fu vittima di tutta una serie di invasioni da parte di svariate popolazioni, ed è proprio in questo contesto di instabilità e di sopraffazione che nascono i diritti di uso civico.

I vari conquistatori che di volta in volta si riversarono in Italia, si impadronivano con la forza di distese di terreno, edificavano su di esse i loro castelli e si proclamavano signori di quel territorio.

Capiamo bene però che il signore di turno, una volta impadronitosi di un territorio, doveva ricavare ricchezza da esso, incrementando i propri profitti e consolidando la propria posizione di potere. Per fare ciò venne escogitato un sistema che fu poi sostanzialmente quello posto alla base del Feudalesimo: i proprietari dei fondi concedevano, di volta in volta, a coloro che vivevano sugli stessi il diritto di coltivarlo, di pascolarvi il bestiame, di far legna (c.d. ius incidendi e capulandi), di raccogliere erba (herbaticum), di seminare (ius serendi) ecc.[1] obbligandoli però a pagare al signore un canone che, nella stragrande maggioranza dei casi, assorbiva quasi tutta l’utilità che il fondo poteva dare, lasciando ai poveri contadini appena il necessario per vivere. In questo modo dunque veniva operata una scissione: da una parte vi era la proprietà del fondo, saldamente nelle mani del signore-concedente, dall’altra vi era il dominio utile, concesso ai contadini.

Questi diritti erano perpetui e venivano concessi a tutti coloro i quali vivevano nel territorio di un signore. La loro nascita continuò durante tutto il periodo feudale, facendoli diventare numerosissimi ed immobilizzando la società.

2. La svolta operata da Napoleone Bonaparte

Questa situazione di stasi e di immobilismo si protrasse per secoli, e venne sbloccata solo grazie all’intervento di Napoleone Bonaparte. Egli infatti, con la sua codificazione, fece piazza pulita di tutti i diritti feudali che erano sorti nei secoli precedenti ed introdusse il principio del numerus clausus dei diritti reali, stabilendo che essi erano solo ed esclusivamente la proprietà, l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, le servitù prediali e l’enfiteusi.

Napoleone, pertanto, attraverso la tipizzazione dei diritti reali, operò una vera e propria rivoluzione, poiché eliminò tutta quella miriade di diritti feudali che erano andatisi moltiplicandosi nei secoli precedenti.

Fra di essi un’importanza fondamentale riveste l’enfiteusi, e ciò non tanto per quello che è il contenuto in sé del diritto, quanto piuttosto per il meccanismo previsto per la liberazione di un fondo da esso, meccanismo che costituisce il punto di riferimento per la soppressione di quei diritti medievali che, ahinoi, sono giunti fino ai nostri giorni[2] e che è costituito dall’affrancazione e dalla devoluzione.  Attraverso questo meccanismo il proprietario del fondo può in ogni tempo recuperare il dominio pieno ed effettivo del bene chiedendone la devoluzione all’utilizzatore, mentre quest’ultimo può, viceversa, consolidare la propria posizione e diventare pieno proprietario del bene chiedendone l’affrancazione. In entrambi i casi la parte che chiede la devoluzione o l’affrancazione è tenuta a risarcire l’altra pagandole un prezzo in denaro ma, per espressa previsione legislativa, l’affrancazione (richiesta dal titolare del dominio utile) prevale sulla devoluzione. Ciò vuol dire che se il proprietario del fondo ne chiede la devoluzione, il concessionario può bloccare la sua pretesa avanzando una richiesta di affrancazione.

Questo meccanismo permette di riunire all’interno della stessa persona entrambi i diritti: la proprietà ed il dominio utile, con la conseguente estinzione, pertanto, della scissione esistente precedentemente.

3. La situazione attuale

Dalla ricostruzione effettuata risulta dunque piuttosto chiaro come gli usi civici siano dei diritti collettivi, di natura pubblicistica, spettanti alla comunità stanziata su un certo ambito territoriale.

Caratteristica di questi diritti è quella di essere inalienabili ed imprescrittibili poiché, in base alla loro origine, sono posti in capo ad una collettività.

Il problema che i medesimi presentano però è notevole: esistono da tempo immemore (molto spesso, infatti, gravano su di un fondo da tempi così remoti che nemmeno i proprietari del fondo ne hanno conoscenza), hanno i contenuti più disparati e, soprattutto, non ne esiste alcuna pubblicità. Questo ha fatto sì che, nel corso dei secoli, perdendosi memoria della loro esistenza, i fondi gravati dai diritti di uso civico siano stati acquistati ed utilizzati da parte di persone completamente ignare dell’esistenza di diritti di questo tipo a favore della comunità. Ciò ha dato luogo a quella figura che è stata definita come occupante abusivo, rappresentato da colui che, senza neanche sapere dell’esistenza di questi diritti gravanti sul fondo, ha “occupato” il fondo medesimo, impedendo alla collettività di far uso dei diritti di uso civico.

Il problema pratico che pongono i diritti di uso civico è veramente di grande importanza. Essendo essi diritti che comportano l’indisponibilità del bene su cui gravano, il rischio che portano con sé è quello di paralizzare l’economia di un territorio, non potendosi commercializzare il bene.

4. La situazione normativa

La normativa di riferimento in materia di usi civici è contenuta all’interno della legge n. 1766 del 1927 che, nel tentativo di porre ordine in una materia caratterizzata da incertezza ed instabilità, puntava ad identificare gli usi civici ancora esistenti a livello nazionale e ad estinguerli attraverso delle procedure a carattere liquidatorio, assegnando i terreni gravati dai diritti di uso civico a comuni o ad associazioni[3].

La legge citata, nell’intento segnalato, ha affidato la loro liquidazione a commissari regionali. Questi, investiti di funzioni giurisdizionali ed amministrative, sono nominati dal Consiglio Superiore della Magistratura fra magistrati di grado non inferiore a consigliere di Corte d’appello e contro le loro decisioni è ammesso reclamo alla Corte d’appello di Roma.

Con il successivo D.P.R. 15 gennaio 1972 n. 11 si è nuovamente intervenuti sulla materia degli usi civici: alcuni poteri in materia di liquidazione degli stessi, come ad esempio il controllo sulle occupazioni abusive, sono stati trasferiti alle regioni a statuto ordinario ma, come spesso accade nel nostro Paese, la disciplina è stata ulteriormente complicata, poiché questa segmentazione di competenze non ha fatto altro che aumentare la confusione fra gli organismi addetti alla liquidazione in una materia già lastricata di incertezze e dubbi.

5. La commerciabilità dei fondi gravati da diritti di uso civico

Gli usi civici, alla luce di quanto detto, sono diritti di godimento su fondi riconosciuti a coloro che abitano in un certo territorio. Essi non sono soggetti né a prescrizione né ad usucapione da parte del privato e, poiché finalizzati a soddisfare esigenze e bisogni collettivi, permettono di assimilare il fondo sul quale gravano ad un bene demaniale, giacché rendono lo stesso di uso pubblico. Questo fa sì che un fondo gravato da uso civico non possa essere liberamente commercializzato, perlomeno fino a quando questo diritto collettivo esistente sul bene non venga estinto.

A questo punto la domanda sorge spontanea: come liberare un fondo dagli usi civici gravanti su di esso così da estinguere (finalmente!) questi diritti?

Nel rispondere a questa domanda occorre fare una precisazione, distinguendo l’istituto della legittimazione da quello dell’affrancazione.

6. La legittimazione

L’istituto della legittimazione, disciplinato negli artt. 9 e 10 della legge 1766/1927, fa riferimento al c.d. occupante abusivo, vale a dire colui che, in completa e totale buona fede, ha preso possesso di terre civiche, occupandole abusivamente. Per ricorrere a questa procedura è necessaria la presenza di tre presupposti: -il possesso almeno decennale del terreno; -la non interruzione, attraverso l’occupazione, dei demani civici; -l’apporto, da parte dell’occupante, di sostanziali e permanenti migliorìe.

In caso di legittimazione il privato, come osservato dalla giurisprudenza[4], vanta non un diritto soggettivo, ma un mero interesse legittimo, poiché il provvedimento amministrativo di legittimazione ha natura concessoria e presenta, quindi, profili di ampia discrezionalità.

Attraverso la procedura in parola, l’occupante va a legittimare la propria occupazione abusiva di terre del demanio civico e, conseguentemente, ne acquista la titolarità. Il destinatario di un provvedimento di legittimazione diventa perciò titolare di un diritto soggettivo perfetto, di natura reale, sul terreno e, pertanto, può trascrivere l’acquisto a suo favore.

Attraverso la legittimazione però il privato non estingue i diritti di uso civico gravanti sul fondo (in quanto per fare ciò è necessario ricorrere alla distinta procedura dell’affrancazione[5]), ma estingue la proprietà collettiva gravante su esso ed acquista una proprietà individuale.

Il procedimento è di competenza della Giunta Regionale e si formalizza attraverso un provvedimento del Presidente della Giunta. Per la stipula dell’atto notarile di legittimazione viene delegato il rappresentante del Comune.

7. L’affrancazione

L’affrancazione è invece la procedura, a titolo oneroso, per mezzo della quale il proprietario del fondo estingue il diritto di uso civico gravante sul fondo stesso e, appunto, si affranca dall’obbligo di permettere l’esercizio del diritto stesso alla comunità.

La procedura, come accennato in apertura, è modellata sul meccanismo liquidatorio dell’enfiteusi, con la necessaria presenza di una delibera consiliare del Comune ove è collocato il fondo e di un decreto del Presidente della Giunta Regionale, analogamente a quanto accade per la legittimazione.

Attraverso l’affrancazione il diritto di proprietà, originariamente compresso dalla presenza di un diritto di uso civico, si riespande, permettendo al proprietario di esercitare in maniera piena e completa il proprio diritto. La procedura prevede il pagamento di una somma corrispondente al numero delle pregresse annualità più una somma pari al valore attualizzato del canone di uso civico, secondo tariffe regolate di volta in volta dai vari Comuni.

8. Conclusioni

Dalla ricostruzione effettuata emerge come gli usi civici altro non siano che ciò che residua degli antichi diritti medievali e feudali. Con essi si opera una scissione fra titolarità del bene e dominio utile, poiché la prima spettava al signore che governava un territorio, il secondo, invece, era concesso dal signore ai contadini che erano stanziati sui territori posti sotto il suo controllo.

Questi diritti, poiché riconosciuti alla collettività, non sono stati soppressi dalla codificazione napoleonica per ragioni prettamente e squisitamente politiche, in quanto Napoleone non ha voluto privare i cittadini di diritti a loro favorevoli. Dunque è proprio questa titolarità pubblica che ne ha permesso la sopravvivenza fino ai nostri giorni, vedendosi  in ciò una forma di tutela per i cittadini.

Trattandosi tuttavia di diritti di origine antichissima, che non trovano cittadinanza nel nostro ordinamento (improntato al principio di tipicità dei diritti reali), risulta estremamente difficile rintracciarli, poiché non è prevista per essi nessuna forma di pubblicità.


[1] I diritti di uso civico più ricorrenti nella prassi sono quello di pascolo, di legnatico, di erbatico, quello boschivo (di raccolta frutti dei boschi), di seminativo, di caccia, di pesca.
[2] Si pensi ad esempio al diritto di livello o “precario”, che non è definito normativamente ma che, come sottolineato dalla giurisprudenza in varie occasioni ( cfr. Cass. 1366/1961; Cass. 1682/1963; Cass. 64/1997), ha caratteri quasi del tutto corrispondenti a quelli dell’enfiteusi.
[3] Attraverso questo intervento ricognitivo si doveva procedere all’accertamento dell’esistenza e dell’estensione degli usi civici ancora esistenti ed il cui esercizio non fosse cessato prima del 1800, in quanto, come abbiamo segnalato, la codificazione di Napoleone aveva provveduto ad abrogare i diritti feudali ed aveva introdotto il principio del numero chiuso dei diritti reali.
[4] Cass. 6589/1983; Cass. n. 6940/1993.
[5] L’uso civico infatti è cosa diversa dalla proprietà collettiva: esso è un diritto reale gravante su un bene altrui o anche su un bene proprio che fa sì che su uno stesso bene gravino il diritto di proprietà collettiva e il diritto di uso civico, imprescrittibile, a favore della stessa collettività. Pertanto, con la procedura di legittimazione, si estingue solo la proprietà collettiva e non anche l’uso civico.

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