Global antitrust, la possibilità di un diritto internazionale della concorrenza
Sommario: 1. L’antitrust e la globalizzazione – 2. Sulla possibilità di un diritto internazionale della concorrenza
1. L’antitrust e la globalizzazione
Il legame tra la disciplina a tutela della concorrenza e il processo definito di “globalizzazione” economica è un fenomeno che nell’ultimo ventennio ha suscitato un particolare interesse tra gli operatori economici e giuridici.
Una serie di fattori, quali la riduzione delle barriere tariffarie, e non tariffarie, al libero scambio, il miglioramento dei mezzi di trasporto, lo sviluppo delle nuove tecnologie digitali e il commercio elettronico, hanno indotto le imprese ad operare investimenti in Paesi stranieri per incrementare la propria capacità produttiva e conseguentemente i loro profitti.
Dal punto di vista della legislazione antitrust il confronto con la globalizzazione dei mercati ha creato non pochi problemi applicativi, essendo, in via generale, le diverse normative nazionali vincolate al principio di territorialità ed alle politiche economiche adottate dai propri governi.
Se, pertanto, il mercato geografico riferibile ad una determinata operazione assume estensione internazionale, ne consegue che le varie legislazioni domestiche, e le singole autorità di controllo demandate alla loro applicazione, possono trovarsi contemporaneamente ad esaminare la medesima operazione, con il risultato di possibili decisioni conflittuali sotto il profilo sostanziale e procedurale.
Provvedimenti divergenti, basati su differenti analisi giuridico-economiche, potrebbero essere adottati dai singoli organismi di controllo, con la conseguente assunzione da parte delle imprese interessate, non solo di ingenti oneri finanziari e burocratici legati ai molteplici aspetti procedurali richiesti, ma, altresì, del rischio, decisamente più rilevante, di vedersi negare il nulla osta, e quindi dover rinunciare, ad un operazione che sebbene possa comportare effettivi vantaggi concorrenziali nei mercati internazionali, non soddisfi, tuttavia, i requisiti minimi previsti da una singola giurisdizione.
Un’autorità antitrust, nel concedere l’autorizzazione ad una certa transazione, potrebbe richiedere alle parti degli impegni (c.d. rimedi) incompatibili con quelli previsti dall’ordinamento di un altro Paese, ovvero richiedere addirittura all’impresa di porre in essere misure correttive al di fuori della propria giurisdizione. [1]
Da un punto di vista generale sarà pertanto necessario rideterminare i modelli economici sui quali la politica antitrust deve fondarsi dinnanzi alle sfide poste dalla globalizzazione dei mercati.
Il raggiungimento di un international economic welfare [2] dovrebbe sopperire al limite intrinseco delle varie discipline economiche elaborate all’interno dei confini nazionali.
Le teorie classiche o neoclassiche, quali ad esempio la scuola economica di Chicago, finalizzata sostanzialmente alla salvaguardia degli interessi dei consumatori a fronte di violazioni anticoncorrenziali, e che ha ispirato la politica antitrust americana degli ultimi decenni, oppure quella più peculiare dell’Unione Europa, intesa a salvaguardare maggiormente il raggiungimento e l’integrità del mercato comune, si sono sviluppate all’interno di ordinamenti già economicamente avanzati, senza, tuttavia, particolare attenzione, perlomeno nella fase iniziale, ai nuovi scenari ed alle problematiche afferenti i mercati internazionali, ove convivono sistemi di diversa natura, non necessariamente di matrice capitalistica, oppure dove si è ancora nella fase di sviluppo economico.
Principi come, ad esempio, l’equità sociale o la tutela dei diritti inviolabili, potranno quindi accompagnarsi a quelli dell’efficienza e dell’innovazione, tipici dell’analisi antitrust perlomeno negli USA e nell’UE, di fronte al proliferare in tutto il mondo di normative antimonopolistiche ed alla complessità di nuovi fenomeni, quali i mercati digitali. [3]
Se l’accertamento antitrust necessita quindi dell’analisi economica, già piuttosto sollecitata a rivedere i propri principi di fronte ai repentini mutamenti del panorama internazionale, l’operatore giuridico necessità comunque della certezza del diritto.
Si impone pertanto la ricerca di modelli uniformi che eliminino, o perlomeno limitino, le incongruenze applicative derivanti dal contemporaneo accertamento di una medesima fattispecie da parte di molteplici agenzie di controllo, allo scopo di stabilire precisi criteri di convergenza dal punto di vista sostanziale e procedurale.
Negli Stati Uniti la giurisprudenza aveva inizialmente abbracciato la c.d. “teoria degli effetti” per risolvere la questione dell’incriminazione di condotte poste in essere in altri Paesi, ma con effetti sostanziali sul mercato interno.
Alcuni di questi criteri giurisprudenziali sono stati in seguito recepiti in atti legislativi ed altresì adottati da altri ordinamenti, tra i quali l’Unione Europea. [4]
Di fronte alla modesta efficacia, se non addirittura incongruenza, di tali misure e con la prospettiva di favorire l’accertamento delle operazioni internazionali, sono venuti in seguito alla luce alcuni strumenti di cooperazione tra i diversi ordinamenti: nel 1991 e 1998 sono stati conclusi due accordi bilaterali tra la Comunità Europea e gli USA per l’applicazione delle rispettive legislazioni antitrust; successivamente, nel 1999, la stessa Comunità Europea ha sottoscritto un simile strumento di cooperazione con il governo canadese e nel 2003 con quello giapponese.
Questi accordi si basano sul principio della c.d. “comity” (cortesia) internazionale, ove ogni ordinamento nell’applicare la propria legislazione antitrust si impegna ad astenersi dal pregiudicare gli interessi dell’altro (c.d. traditional or negative comity) o, addirittura, ad attivarsi direttamente per tutelare gli interessi della controparte straniera (c.d. postitive comity).
Recentemente si è addivenuti alla sottoscrizione anche degli accordi c.d. di seconda generazione ove, in alcuni casi circoscritti, le rispettive agenzie coinvolte possono scambiarsi informazioni confidenziali senza il consenso delle imprese interessate. [5]
Sebbene vi sia ancora molta incertezza sul ruolo assunto dal principio della comity in sede di applicazione giurisdizionale, ovvero su come i giudici siano chiamati a soppesare tale principio nell’analisi di una condotta anticoncorrenziale, molte operazioni trattate sulla base di questi accordi bilaterali hanno dimostrato l’importanza della cooperazione tra le diverse agenzie di controllo, in particolare nella lotta ai cartelli internazionali. [6]
Ciononostante, in alcun modo, dopo alcuni embrionali tentativi di teorizzare un diritto uniforme, nessun negoziato multilaterale che riguardi gli accordi basati sul detto principio, e comunque sull’applicazione in generale della legge antitrust in ambito internazionale, è mai stato intrapreso.
Gli obbiettivi di politica economica perseguiti dai governi e la stessa ratio su cui si fondano le varie discipline nazionali dipendono da vari fattori, non da ultima una congenita ritrosia a concedere spazi di sovranità su una materia piuttosto delicata per gli interessi nazionali come la tutela antitrust.
Le barriere all’entrata dei mercati, il livello più o meno esteso di liberalizzazione dei diversi comparti industriali, il grado di tutela accordata all’interesse dei consumatori, ovvero a quello delle imprese concorrenti, costituiscono evidenti ostacoli ad un processo di armonizzazione.
Può accadere che per garantire efficienza ed innovazione siano necessarie alcune restrizioni alla concorrenza (si veda ad esempio in tema di diritti di proprietà intellettuale) [7], così come a seconda dei diversi sistemi, di common law o civil law, diversa rilevanza può accordarsi alla c.d. rule of reason nell’accertamento di una violazione antitrust, tipica dei sistemi angloamericani, ma piuttosto preclusa in quello comunitario.
Si considerino, altresì, recenti fenomeni istituzionali e di politica internazionale che possono decisamente influire sull’elaborazione di una politica antitrust uniforme, quali, ad esempio, la fuoriuscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, lo sconvolgimento nei mercati provocata dalla pandemia da COVID-19, che ha risuscitato istinti protezionistici, nonché la recente “guerra “dei dazi tra gli Usa e la Cina contro l’importazione di alcuni prodotti nei rispettivi mercati interni a causa di frizioni politiche.
Negli ultimi anni si è assistito alla nascita di alcuni organismi internazionali destinati allo studio delle problematiche relative al rapporto tra la globalizzazione e l’applicazione del diritto antitrust.
La creazione dell’International Competition Network (ICN), nel 2001, costituisce una prova tangibile della volontà delle autorità di vari Paesi di affrontare coralmente le tematiche più sensibili del processo di internazionalizzazione del diritto antitrust, soprattutto per quanto riguarda il settore del controllo delle operazioni di concentrazione, la lotta ai cartelli internazionali e le relative procedure di accertamento. [8]
Tale network, tuttavia, rimane residuato ad un laboratorio scientifico, un mero scambio di esperienze tra le varie autorità di controllo, utile per affinare e coordinare la prassi applicativa, anche tramite specifici gruppi di lavoro, ma, certamente, non la sede per negoziare un diritto uniforme su base multilaterale.
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), così come la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), hanno altresì accentuato la loro attenzione per la materia, organizzando numerosi global fora sui ridetti fenomeni nonché sulla correlazione tra la politica antitrust ed il commercio internazionale, rilasciando periodiche relazioni, raccomandazioni e linee guida; strumenti, tuttavia, catalogati come soft law, privi di forza vincolante o precettiva.
Anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), che aveva posto in agenda nel c.d. Doha Round del 2001 la possibile negoziazione di regole multilaterali della disciplina antitrust, ha successivamente abbandonato l’iniziativa.
2. Sulla possibilità di un diritto internazionale della concorrenza
Alcuni indicatori dimostrano come, alla luce dei recenti sviluppi economici internazionali, non si sia affatto sopita l’idea di una formulazione della politica internazionale antitrust in chiave multilaterale, sebbene, in concreto, si è ben lontani dall’elaborazione di un vero e proprio assetto uniforme di regole recepite dai singoli ordinamenti con gli strumenti tipici del diritto pubblico internazionale, quali, ad esempio, i trattati o gli accordi vincolanti.
Se si fa un passo indietro di circa venti anni e si analizzano i risultati dei lavori del Comitato Consultivo per la Politica Internazionale della Concorrenza, nato nel 1997, per volontà del Dipartimento di Giustizia statunitense (DOJ), si ricavano comunque alcuni interessanti spunti di riflessione.
La relazione finale del 2000 del Comitato Consultivo (meglio nota come ICPAC Report), [9] che riassumeva il triennio di lavori dal 1997 al 1999, ha costituito il primo approfondito studio sulle problematiche inerenti al processo di internazionalizzazione del diritto antitrust e, grazie alla partecipazione di numerosi esperti, accademici, economisti ed operatori del settore, ha offerto un contributo essenziale ed un’ampia analisi di tutti gli aspetti critici della materia.
In una serie di raccomandazioni finali, e con una visione prospettica, si delineava la missione futura della proposta Global Competition Initiative che poi sarebbe stata d’ispirazione per la nascita dell’International Competition Network, l’organismo, come accennato, che più di altri può definirsi il laboratorio scientifico delle problematiche internazionali della politica di concorrenza.
Peraltro, le modifiche successivamente apportate anche al sistema comunitario, quali l’emanazione del Regolamento n. 1/2003, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli art.li 81 e 82 del Trattato CEE (ora art.li 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea – TFUE) e del Regolamento n. 139/2004, sul controllo delle concentrazioni, modificando l’assetto precedente relativo alle notifiche per le esenzioni delle intese restrittive ed i criteri di valutazione delle concentrazioni [10], hanno presumibilmente risentito anche delle conclusioni dell’ICPAC Report, oltre che del lungo dibattito maturato in seno al Progetto di Modernizzazione del diritto antitrust europeo, tra le cui motivazioni di fondo è emersa senza dubbio una maggiore sensibilità degli operatori europei verso il crescente fenomeno delle operazioni transfrontaliere.
Pari ratio può ravvisarsi in merito alla Direttiva n. 2014/104 sulla possibilità di richiedere il risarcimento dei danni per le violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza in ambito comunitario che, seppur con le evidenti differenze applicative dovute ai due diversi regimi, porta ad un avvicinamento del c.d private enforcement europeo a quello statunitense.
Interessante notare come nel lanciare la Global Competition Initiative il Comitato Consultivo, evidenziava l’importanza di alcune sfide imminenti in tema di esame delle concentrazioni globali e del commercio elettronico, e, pur schierandosi contro: “the development at this time of competition rules subject to dispute settlement procedures at the WTO”, ciononostante si riservava di approfondire future iniziative per: “multilateralize and deepen positive comity”.
Di recente sempre il Dipartimento di Giustizia, quale membro dell’ICN, si è fatto promotore di un progetto inteso a definire un quadro multilaterale di regole – Multilateral Framework on Procedures in Competition Law Investigation and Enforcement (MFP) – in particolare per quanto riguarda alcuni principi fondamentali dell’analisi antitrust, come quelli di non discriminazione, trasparenza, confidenzialità, rispetto delle tempistiche e procedure di notifica, conflitto di interessi, diritti di difesa ed accesso alla tutela giudiziale. [11]
Trattasi, quindi, di un primo passo verso l’armonizzazione di alcune regole procedurali, frutto dell’esperienza maturata con altri organismi di controllo nell’accertamento di operazioni transfrontaliere, quali i cartelli internazionali, ove la cooperazione si è dimostrata essenziale per l’efficace repressione delle condotte collusive.
Ciononostante, non è ancora del tutto definito come tali regole del MFP dovranno applicarsi; su base spontanea, o tramite un accordo di ratifica dei vari ordinamenti.
In merito a ciò l’assistente generale del DOJ ha precisato che: “competition chapters are a small part of free trade agreements, and the agenda of every trade negotiation encompasses issues that extend far beyond the core concerns of antitrust laws. A multilateral arrangement between competition authorities on procedural fairness is far more likely to generate both broad and deep commitments”. [12]
Sempre negli USA le autorità di controllo sono state recentemente oggetto di critica per aver assunto un atteggiamento un pò troppo permissivo di fronte alle condotte delle maggiori aziende tecnologiche, le c.d. big four tech corporations (Amazon, Facebook, Google e Apple) che hanno di fatto concentrato nelle proprie mani alcuni settori sensibili (ad esempio quelli della raccolta dei dati privati degli utenti), ovvero acquisito start up innovative, potenziali future concorrenti, tale indurre la Federal Trade Commission a costituire una task force per verificarne l’impatto sui relativi mercati di riferimento. [13]
Si è addirittura generato un movimento che richiama le idee del giudice della Corte Suprema Luois Brandeis all’inizio del ‘900 (per la precisione in carica nel periodo dal 1919 al 1936) ovvero the New Brandeis School Manifesto [14], ove viene messa in discussione la scuola economica di Chicago, in quanto focalizzata esclusivamente sulla teoria del consumer welfare, argomentando come un’eccessiva concentrazione economica possa comportare il rischio anche di una concentrazione politica e quindi di una minaccia allo stesso sistema democratico.
Da ciò anche le regole dell’enforcement dovrebbero subire una radicale revisione con il rafforzamento di rimedi strutturali e l’eliminazione di eventuali barriere alle azioni giudiziali.
Tale Manifesto riecheggia la situazione creatasi agli inizi del secolo scorso ove, dopo un travagliato percorso giudiziale, si arrivò allo smembramento della multinazionale Standard Oil a seguito dell’eccessivo potere da questa acquisito nel mercato petrolifero.
La politica antitrust vive pertanto di una intrinseca tensione ciclica: da un lato i legislatori e regolatori cercano di riadattarne la disciplina in una visione evolutiva, di pari passo all’evoluzione ed espansione dei mercati; ciononostante, tale processo risente di elementi retrospettivi che ne impediscono uno sviluppo lineare.
Ciò è quanto occorso anche alla politica internazionale della concorrenza: il tentativo di predisporre una disciplina uniforme non è infatti un fenomeno caratteristico degli ultimi anni: già nel 1948 il c.d. “Havana Charter”, emanato in seno all’International Trade Organisation (ITO), aveva concepito regole internazionali con cui gli Stati aderenti all’Organizzazione dovevano prevenire: “business practices affecting international trade which restrain competition, limit access to markets, or foster monopolistic control, whenever such practices have harmful effects on the expansion of production and trade”. [15]
Si era altresì paventata l’idea di una codificazione internazionale, come risulta dall’ambizioso International antitrust Code che alcuni studiosi avevano presentato come possibile accordo multilaterale in seno al GATT. {16]
Tale codificazione, così come L’Havana Charter, stabiliva in sostanza l’obbligo per le parti contraenti di recepire nelle proprie legislazioni domestiche alcune disposizioni uniformi concernenti gli accordi orizzontali, le restrizioni verticali, le operazioni di concentrazione e l’abuso di posizione dominante; si prevedeva altresì l’istituzione di un’autorità di controllo internazionale che, con l’ausilio di precise regole procedurali, fosse chiamata a vigilare sul rispetto delle regole prefissate.
Anche la Comunità Europea, tramite un gruppo di esperti, si è resa parte diligente predisponendo un’apposita relazione [17] sulle problematiche inerenti al processo di internazionalizzazione del diritto antitrust, proponendo un modello di accordo “quadro” multilaterale basato principalmente sull’aspetto della cooperazione tra gli ordinamenti provvisti di normativa antimonopolistica, nonché sull’assistenza tecnica da fornire a quelli in procinto di adottarne una.
L’esperienza della codificazione è stata altresì seguita dalla Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) [18], nondimeno va ribadito il contributo reso dall’OECD con le numerose raccomandazioni emanate sulla materia.
Il WTO, nonostante il fallimento della Conferenza di Doha, è certamente la più importante organizzazione intergovernativa di regolamentazione della politica commerciale tra gli Stati Membri dove, pertanto, anche la politica antitrust può trovare una collocazione non secondaria: entrambi i fenomeni tendono infatti a perseguire, seppur con strumenti diversi, il medesimo scopo di liberalizzare e garantire l’accesso ai mercati e, per l’effetto, a mantenere un equilibrio concorrenziale; in sintesi il raggiungimento dell’auspicato international economic welfare. [19]
L’Organizzazione è, inoltre, dotata di un organismo di risoluzione delle controversie commerciali, le cui disposizioni, seppur con appropriati correttivi, potrebbero adattarsi alle regole eventualmente prefissate dalle parti in materia di concorrenza.
Regole che, in effetti, non sono state ignorate dai negoziatori dei precedenti accordi, visto che in alcuni di essi vengono esplicitamente menzionate fattispecie direttamente riconducibili al settore della tutela della libertà di concorrenza. [20]
Si può quindi affermare che l’esperienza maturata nell’ultimo ventennio con l’applicazione degli accordi bilaterali basati sul principio della comity internazionale, le indicazioni ancora attuali rese dall’ICAPC Report, la recente iniziativa del DOJ sul progetto di un accordo quadro, ed, infine, il contributo dei vari organismi internazionali, depongono tutti a favore di un’auspicabile futura negoziazione multilaterale che, perlomeno, garantisca un minumum di regole tassative per alcuni aspetti procedurali e sostanziali, con riferimento alle violazioni più gravi, quali i c.d hard-core cartels ed alcune ipotesi di posizioni dominanti abusive sui mercati.
Non è nuovo il fenomeno per cui la mancanza di adeguati strumenti di tutela della concorrenza comporti il ricorso in via sussidiaria a misure di difesa commerciale, quali l’applicazione di dazi antidumping come rimedio ai prezzi predatori applicati dalle imprese esportatrici [21]; così come non è raro il fenomeno inverso ove sono i rappresentanti degli stessi governi a partecipare, in veste di amicus curiae, a difesa delle proprie imprese coinvolte nelle azioni giudiziali incardinate nei tribunali domestici per la violazione della normativa antitrust.
Non è parimenti un caso che di fronte ad un cartello all’esportazione possa venire censurata contemporaneamente la violazione di un accordo commerciale e della disciplina antitrust: la prima in relazione alle condotte tenute da un governo che impone una restrizione commerciale e la seconda, invece, per i comportamenti posti in essere dalle singole imprese coinvolte nell’intesa collusiva. [22]
Ciò conferma che solo un organo super partes, quale il WTO, avrebbe la competenza a dirimere l’inscindibile connessione tra le restrizioni al commercio internazionale e la disciplina antitrust; ciò grazie, altresì, agli strumenti di risoluzione delle controversie di cui dispone, senza con ciò sostituirsi all’azione giurisdizionale posta in essere dai singoli ordinamenti.
Nulla osta, ad esempio, che si possa censurare, oltre ai generali principi di trasparenza e non discriminazione, il mancato intervento da parte di un ordinamento, in difetto di plausibile giustificazione, di fronte ad una richiesta formulata da un altro Paese sulla base di un ipotetico accordo multilaterale concernente i meccanismi di rinvio di positive comity, ovvero la violazione delle regole relative allo scambio e divulgazione di informazioni confidenziali, nella fase dell’accertamento di una violazione, nei limiti degli accordi sottoscritti.
Persino in riferimento all’assunzione di eventuali impegni, ovvero dei rimedi strutturali, richiesti contemporaneamente dai diversi organi di controllo, che risultassero del tutto divergenti e di fatto inapplicabili, i meccanismi di mediazione e conciliazione in seno al WTO potrebbero svolgere un ruolo risolutivo.
L’art 19.1 delle regole di procedura prevede infatti l’obbligo per gli Stati interessati di conformarsi alle raccomandazioni del relativo Panel (composto dai rappresentanti degli Stati interessati) sotto la supervisione del Dispute Settlement Body e la questione potrà essere portata avanti l’organo arbitrale sull’idoneità dei rimedi adottati.
Attualmente il governo statunitense ha deciso, tuttavia, di bloccare la nomina dei propri giudici nell’organo d’appello dell’Organizzazione, impedendo di fatto allo stesso di operare, nonostante l’annuncio di altri 17 Stati Membri (tra i quali la EU, la Cina e il Brasile) di voler costituire un organismo parallelo per la risoluzione delle controversie.
Ciò è quanto, ad esempio, accaduto nel caso della società statunitense Qualcomm Inc. ove l’autorità antitrust del Sud Korea (the Korean Fair Trade Commission), in relazione ad un esame di abuso di posizione dominante, ha obbligato la società a rinegoziare i propri accordi di vendita e licenza di cheap modem anche con aziende straniere per riequilibrare il mercato coreano.
O “Global Consumer Welfare” come auspicato dai più autorevoli commentatori (cfr. Eleanor M. Fox, Daniel Crane: Global issues in antitrust and competition law – West 2017).
Attualmente sono circa 140 i Paesi dotati di una normativa antimonopolistica. Per quanto riguarda gli USA e la UE, ad eccezione di alcuni leading cases (tra i quali GE/Honeywell nel 2001, relativamente alla diversa valutazione degli effetti conglomerali di una fusione orizzontale o, più recentemente, Google’s Search Practices, ove, nel 2013, le autorità statunitensi decisero di non procedere su alcune condotte, poi censurate dalla Commissione europea come abuso di posizione dominante sul mercato dell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca), da entrambe le parti dell’Atlantico si è riscontrata un’estesa convergenza nell’analisi economica delle operazioni transfrontaliere. In alcuni casi le due autorità, pur adottando le medesime conclusioni sugli effetti di un operazione hanno, tuttavia, emanato provvedimenti diversi sotto il profilo sanzionatorio (caso Microsoft del 2001) a riprova del mantenimento di interessi anche di politica economica nell’accertamento delle violazioni antitrust.
Sull’applicazione giurisprudenziale dello Sherman Act in chiave extraterritoriale si rinvia al mio intervento su questa rivista: Brevi note sull’applicazione extraterritoriale della legge antitrust nella giurisprudenza statunitense; https://www.salvisjuribus.it/la-giurisprudenza-statunitense-sullapplicazione extraterritoriale-della-legge-antitrust/
Accordo di cooperazione tra la EU e la Svizzera siglato nel 2013.
Negli USA è infatti sorto un acceso dibattito sulla rilevanza del principio della comity internazionale in sede di accertamento giudiziale di una violazione antitrust, atteso che la questione impone comunque una valutazione, anche di opportunità politica, sugli interessi dell’ordinamento straniero, che non rientrerebbe nella funzione dei giudici. la Corte Suprema in più circostanze è intervenuta sulla questione e da ultimo con la sentenza del 2018 (n. 16-1220 – Animal Science Products. Inc. vs. Hebei Welcome Pharmaceutical co. ltd) relativamente ad un cartello per l’esportazione di vitamina C di produttori cinesi, decidendo di non censurare la decisone del giudice a quo che aveva ritenuto inconsistenti le deduzioni difensive del governo cinese intervenuto nel procedimento. Il caso è stato altresì oggetto di una disputa commerciale tra gli USA e la Cina nel WTO.
Cfr. ad esempio i casi della Corte di Giustizia Volvo, C-238/87 e Magill, C-242-91.
Circa 130 giurisdizioni fanno parte del network; per un approfondimento sui gruppi di lavoro dell’ICN v. https://www.internationalcompetitionnetwork.org/
https://www.justice.gov/atr/final-report
Introducendo in sostanza il criterio della diminuzione sostanziale della concorrenza (a differenza del precedente basato sulla creazione o rafforzamento di una posizione dominante) maggiormente in linea con la prassi statunitense.
https://www.justice.gov/opa/pr/new-multilateral-framework-proceduresapproved-international-competition-network
https://www.justice.gov/opa/speech/assistant-attorney-general-makan-delrahim-delivers-remarks-global-antitrust-enforcement
https://www.ftc.gov/news-events/press-releases/2020/02/ftc-examine-pastacquisitions-large-technology-companies
Lina khan, The New Brandeis Movement: America’s Antimonopoly Debate, in Journal of European Competition Law & Practice, Volume 9, Issue 3, March 2018, Pages 131–132,
Havana Charter for an International Trade Organization, U.N. Doc. E/conf. 2/78 (1948),
Detto anche “Munich Code” in quanto predisposto da un gruppo di studiosi riunitisi a Monaco nel 1993 e pubblicato in (1994), 49, Aussenwirtschaft 310.
European Commission Competition Policy in the new Trade order; strengthening international cooperation and rules, report of the Group of Experts (Brussels July 1995), consultabile sul sito istituzionale della Commissione.
The Model Law in Competition, consultabile sul sito istituzionale dell’Organizzazione: www.unctad.org.
Il WTO è stato creato sotto gli auspici del GATT (1947) a seguito del quale furono condotti otto negoziati commerciali, l’ultimo dei quali (c.d. Urugay Round del 1994) portò alla nascita dell’Organizzazione; attualmente vi aderiscono 164 Paesi di diverse aree economiche.
L’art. 8.1 del TBT così come l’art. VIII del GATS prevedono l’obbligo da parte dei governi di garantire che i fornitori di servizi in regime di monopolio non contravvengano ai principi sanciti dagli accordi (come quello del trattamento nazionale); oppure l’art. 40 dei TRIPS che autorizza gli Stati Membri ad emanare legislazioni che impediscano condizioni restrittive accessorie agli accordi di licenza. Disposizioni relative alla concorrenza si rinvengono anche nell’art. 11.1 dei Safeguards Agreeements e nell’art. 3.5 dell’Antidumping Agreement in cui si stabilisce che, nella determinazione del danno, l’autorità amministrativa dovrà tener conto delle pratiche restrittive e della concorrenza tra i produttori stranieri e domestici; v. Eleanor M. Fox: The WTO’s First Antitrust Case – Mexican Telecom; a sleeping victory for Trade and Competition, in 9J. Int’l Econ. L. 271 (2006).
Sebbene il concetto di prezzo predatorio sia tecnicamente diverso sotto il profilo dell’analisi “commerciale” rispetto a quella “concorrenziale”.
Ciò è quanto accaduto nel caso sopra citato alla nota 6.
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