I Chiaramonte Bordonaro, l’ascesa di una famiglia nella Sicilia post – feudale

I Chiaramonte Bordonaro, l’ascesa di una famiglia nella Sicilia post – feudale

“Perduto è il campo, e sia: perduto il tutto, dunque sarà? Quell’invincibil, fermo voler ci resta ancor, quel di vendetta fero desio, quell’immortal rancore e quel coraggio che non mai s’abbatte, che mai non si sommette”.

John Milton, Paradise Lost, 1667

Sommario: 1. Gabriele Bordonaro, amministratore giudiziario dei beni del principe di Cattolica – 2. Gabriele, homo novus a Palermo – 3. Consolidamento economico ed esperienze oltreoceano – 4. Le vicende dal Quarantotto all’Unità – 5. Morte del prozio Gabriele ed evoluzione della famiglia – 6. L’acquisto del castello di Falconara e la consacrazione di Gabriele jr. come collezionista

 

1. Gabriele Bordonaro, amministratore giudiziario dei beni del principe di Cattolica

Per comprendere a pieno la storia che portò la famiglia Bordonaro a divenire, nel giro di pochi decenni, una delle più influenti dinastie imprenditoriali post – feudali originatesi in Sicilia durante il XIX secolo, occorre partire dal grande accumulo di ricchezza che fu in grado di concentrare nelle sue mani Gabriele Chiaramonte Bordonaro (1772 – 1854) a cavallo tra la fine del settecento e gli inizi dell’ottocento.

Nel tentativo d’indagare sulla sua figura, appare fondamentale leggere una sintesi descrittiva delle vicende imprenditoriale e affaristiche sul primo, fondamentale, personaggio di questa famiglia siciliana che viene fornita    da Orazio Cancila, nel suo volume sulla Storia dell’industria in Sicilia:

«Il caso del dr. Gabriele Chiaramonte Bordonaro era piuttosto unico. Egli viveva a Canicattì, dove spesso svolgeva le funzioni di amministratore giudiziario che gli consentirono nel 1819 di impossessarsi, ottenendolo in enfiteusi per un canone annuo di 1.700 onze, dell’intero ex ‘stato’ feudale di Canicattì del principe della Cattolica Giuseppe Bonanno. Trasferitosi a Palermo negli anni Venti, otteneva il titolo di barone e si trasformava in grande commerciante, finanziere e armatore. A lui appartenevano i due brigantini Gabriele e Antonietta, donati successivamente al nipote Antonio e nel 1868 valutati 25.000 lire ciascuno, e sembra anche il Luigia Carolina: imbarcazioni continuamente in viaggio per i porti degli Stati Uniti, del Brasile, dell’Impero russo, con profitti notevoli per il suo armatore. Non è forse senza significato che nel 1848 il Chiaramonte Bordonaro, Vincenzo Florio e Pietro Riso, erede di Giovanni, ossia tre armatori, venissero considerati gli uomini più ricchi di Palermo.»[1]

Di seguito si è cercato di porre ordine tra i dati a disposizione, elencandoli secondo una successione cronologica.

Gabriele Chiaramonte Bordonaro nasce nel 1772, è figlio di Giuseppe Chiaramonte Bordonaro e Rosaria Caramazza, minore di tre fratelli, Alessandro Urbano e Gioacchino Antonio Riccardo, d’ora in avanti verrà citato solamente il primo nome di battesimo di entrambi.

L’unico dei tre fratelli ad avere figli sarà l’ultimo genito Gioacchino, il quale prenderà in sposa Antonina Lombardo il 2 febbraio 1780 [2]. La prima notizia sulle fortune economiche della famiglia Bordonaro proviene da un atto di vendita di diversi feudi di proprietà di Giuseppe Bonanno e Branciforte, principe di Cattolica[3]. I responsabili giudiziari della pratica erano Gabriele Chiaramonte Bordonaro e Carlo Bozomo; il ruolo che essi vennero chiamati a svolgere fu quello di assegnare ai creditori del principe l’amministrazione di singoli feudi. Fra questi, viene ricompresa la baronia di Gebbiarossa, luogo e nodo importantissimo per la famiglia licatese in quanto la stessa verrà ceduta a Alessandro Chiaramonte Bordonaro, in seguito investito del titolo il 10 luglio 1803[4].

Le motivazioni che permisero ai Bordonaro una così rapida ascesa nelle rigide maglie sociali dell’aristocrazia isolana, furono sicuramente le condizioni economiche in cui versavano i principi Bonanno; l’importante famiglia feudale siciliana viveva in una posizione critica già verso il 1770, quando un membro della famiglia, Giuseppe Bonanno e Filangeri «chiede di poter ipotecare per 25 anni tutti i suoi beni feudali ed allodiali a favore di chi gli avesse sborsato 40.000 onze». Il credito venne concesso dai gesuiti, ma il problema si ripresentò per il figlio, Francesco Bonanno e Borromeo, che ricorse ad un altro mutuo e diede il via alle prime vendite.

Fu Giuseppe Bonanno e Branciforte a inoltrare una supplica alla Corte offrendo un’ipoteca del 4% sui debiti accumulati, la quale venne prontamente respinta dai tribunali borbonici, in tal modo ad esempio lo Stato feudale dotato di castello di Montalbano Elicona passò ai gesuiti nel 1805 per 49.569 onze[5].

La lenta ma costante erosione del patrimonio dei Bonanno, si presentò agli occhi di Gabriele Bordonaro come un’occasione da non perdere al fine di impossessarsi di vasti feudi ad un prezzo più che conveniente. La possibilità di accendere crediti, imprestando le rendite derivanti dal proprio patrimonio feudale, rappresentava una prassi tradizionale  per la nobiltà siciliana, nella speranza di sopravvivere ai tempi difficili di inizio XIX secolo. Diviene chiaro come tali spregiudicate manovre generassero una dinamica di sopruso, di truffe e di resistenza a qualsiasi sviluppo economico[6]. Basta un semplice esercizio di memoria di alcuni classici della letteratura siciliana che hanno tratto ispirazione da questa lenta agonia dell’altissima nobiltà isolana da parte di una piccola borghesia, molto spesso proveniente dalle campagne,  astuta e in forte ascesa economico-sociale: personaggi come il Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga (1888) o il don Calogero Sedara del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958) appaiano come dei calzanti riferimenti per tratteggiare lo spirito che guidava le azioni del primo dei Bordonaro.

Del resto, il principe della Cattolica, in possesso di un patrimonio immenso, era alle prese con vari problemi di non poco conto: non ultimo, faceva parte della giunta militare che si era stretta attorno ai Borbone, in esilio a Palermo dal giorno di Natale del 1798, scortati dal vascello Vanguard dell’ammiraglio Nelson.

Il re Ferdinando, un sovrano con una mentalità fortemente reazionaria al pari dell’austera    moglie austriaca, Maria Carolina, ossessionata dal terrore di fare la fine della cugina Maria Antonietta, non giunsero certo in città in condizioni storiche né tantomeno psicologiche favorevoli. Ad accoglierli trovarono un’Isola che era stata appena scoperta dai grandi viaggiatori europei e che poteva comunque vantare una classe di intellettuali attenta ai problemi locali. Non solo, in tale frangente storico stava rapidamente prendendo corpo un fenomeno che avrebbe rivoluzionato le sorti della Sicilia, ovvero il capitalismo.

I principali fautori che diedero impulso a tale processo furono alcuni commercianti inglesi, come John Woodhouse e Benjamin Ingham, i quali avevano compreso che in Sicilia fosse possibile impiantare un tipo di produzione simile a quella già sperimentata in Portogallo con il Madeira, un vino dolce che piaceva agli anglosassoni e pertanto con grandi prospettive di esportazione. Nel 1808, grazie alla presenza degli inglesi che occupavano militarmente l’Isola, si registrò una situazione di grande crescita economica, che fu in grado di portare in breve tempo al collasso il già fragile equilibrio politico siciliano[7].

Nonostante l’atto venga registrato dal notaio nove anni dopo, è in questo momento che Gabriele Bordonaro acquista nel luglio del 1819 in perpetua enfiteusi la città di Canicattì e le terre circostanti[8].

Le proprietà, rilevate per un canone di 1.700 onze all’anno, appartenevano sempre al principe di Cattolica ed anche ai suoi numerosi creditori[9]. I Bonanno avevano acquisito lo Stato di Canicattì nella prima metà del Seicento, grazie a un’accorta politica matrimoniale con i Crescenzio, precedenti proprietari del feudo[10]. Se da un lato si trattava di un altro accordo per consentire al principe di sopravvivere, per il Bordonaro significava impostare la struttura di un’economia familiare proiettata ad un più ampio raggio, grazie ad una diversa concezione ed approccio per lo sfruttamento delle terre.

Il trasferimento di Gabriele Bordonaro a Palermo, è da far coincidere con il suo matrimonio con Rosalia Bozomo, figlia di quel Carlo che aveva gestito con lui nel 1801 la vendita dei beni del principe di Cattolica, e verosimilmente suo socio in affari coinvolto in tutte le operazioni[11].

All’inizio degli anni Venti, a Palermo scoppiano i moti[12] e non viene documentata alcuna partecipazione da parte di Gabriele, che furbescamente si tenne fuori dalla vicende.

Gli sposi presero abitazione in piazza Marina, probabilmente al civico 99, in un quartiere fortemente segnato dalle attività commerciali, a stretto contatto con le case dei Bozomo[13]. A gestire gli affari nelle campagne fra l’agrigentino e il nisseno restava comunque gran parte della famiglia Bordonaro, fra cui il nipote Antonio.

2. Gabriele, homo novus a Palermo

Il radicamento di Gabriele all’interno contesto imprenditoriale cittadino palermitano non tarda ad arrivare; nell’ottobre del 1824, il barone partecipa a una società per azioni che si prefissava di rilevare dal governo borbonico un lanificio, a Villa Nave, nei pressi di Boccadifalco, alle porte della città. Acquisito insieme ai suoi soci, il Bordonaro veste perfettamente i panni di una nuova classe sociale, dove lignaggi antichi e origini borghesi si mischiano, mascherati anche grazie ai recenti acquisti di titoli nobiliari.

«Le 40 azioni per un capitale di 20.000 onze erano però sottoscritte solo in parte (6.500) da alcuni membri dell’aristocrazia vecchia e nuova e da alcuni grossi commercianti: principe di Trabia Giuseppe Lanza, barone di Bonvicino Mauro Turrisi, conte di Priolo Salvatore Notarbartolo, barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro, barone Giovanni Riso, per due azioni ciascuno, e ancora Giovanni Villa Scala, Vincenzo Filangeri e Giovanni Battifora, per un’azione ciascuno. Non inganni la presenza di tanti aristocratici: se si escludono il principe di Trabia e il conte di Priolo, si tratta di una aristocrazia della prima generazione (Turrisi, Chiaramonte Bordonaro, Riso), che doveva il titolo nobiliare alla ricchezza accumulata con le attività finanziarie e commerciali, e quindi un’aristocrazia ancora in possesso di codici comportamentali borghesi, tanto che la ritroviamo presente in tutte le iniziative imprenditoriali del periodo»[14].

Tra gli altri azionisti figurano Giuseppe Lanza, principe di Trabia, cultore di archeologia e esponente di una famiglia che da sempre si annovera fra le prime dell’aristocrazia siciliana. Mauro Turrisi era divenuto barone di Buonvicino solamente dal 1803, una volta superate le resistenze del vescovo di Cefalù, che ingiungeva allo stesso di non «fare uso del titolo»[15].

Anche in queste famiglie i discendenti si andavano distinguendo per via di un diverso orientamento culturale e politico, rispetto a quanto fatto da padri e zii. Esempio è la figura del figlio di Giuseppe Lanza e Stefania Branciforte, ovvero Pietro Lanza (Palermo, 1807 – Parigi, 1855), principe di Trabia ma anche di Butera e Scordia, e noto soprattutto per l’ultimo titolo, autore di studi storici e personaggio di spicco nella rivoluzione del ’48[16]. Sempre per la sua attività nei moti antiborbonici si distinguerà il figlio di Mauro Turrisi, Nicolò Turrisi Colonna (Palermo, 1817 – 1889), futuro senatore della Sinistra storica, che sarà poi ritenuto da alcuni deputati niente meno che un capomafia, ma che ebbe anche il merito di opporsi invano alla demolizione del convento delle Stimmate, durante il cantiere per la costruzione del teatro Massimo[17].

Sempre nel ’24 va collocato l’inizio dell’attività dei Bordonaro in un campo fondamentale, per il rilancio dell’economia siciliana del periodo: l’attività armatoriale. Uno dei cinque brigantini costruiti nell’arsenale di Palermo in quell’anno fu infatti il Gabriele, dal peso di 210 tonnellate, un natante «destinato a numerosi viaggi per le Americhe»[18].

A riprova della rapida ascesa economica e sociale, nel 1828, il barone Bordonaro acquistò la ‘casina’ ai Colli da Francesco Ventimiglia, marchese di Geraci per 5.100 onze e otto anni dopo, sempre nella zona dei Colli, Gabriele comprò anche un «latifondo rustico girato di mura» dal marchese Vincenzo Ferreri, per 3.100 onze, il quale neanche dieci giorni dopo verrà ceduto in gabella, nel 1834, a un tal Biagio Donzelli per 296 onze[19]. È un’operazione economica che ricorda la pratica vista finora, di acquisto di feudi a basso prezzo, ma stavolta le finalità sono in parte diverse. Ma se fino ad ora sono state analizzate le operazioni economiche, molto spesso spregiudicate, del Bordonaro che lo portarono ad un suo consolidamento economico che lo pose tra i più facoltosi self made man isolani dell’epoca, bisogna registrare anche un’iniziativa destinata al fallimento ma che bene fotografa l’effervescenza del clima imprenditoriale palermitano negli anni Venti del XIX secolo, ovvero quella nel quale Gabriele giocò un ruolo attivissimo e cioè la fondazione di una società che si proponeva di acquisire il monopolio per la fabbricazione e la vendita dei tabacchi, insieme a Vincenzo Florio e Giovanni Riso[20].

Analizzando le altre figure della famiglia d’origini licatesi, spicca senza dubbio quella di Antonio Bordonaro; il quale naturalmente agiva di concerto e in società con lo zio Gabriele, lo stesso si trasferì a Palermo nel 1830 «per fondarvi una sua camera di commercio, che più tardi esporterà all’estero zolfo anche per conto di Ingham»[21]. Più precisamente, nella tesi della Pandolfo: «già dal ’38, lo [Antonio] troviamo stabilmente a Palermo»[22]. È presumibile che anche questa stabilizzazione venne dovuta ad una precisa strategia matrimoniale, in virtù di un rafforzamento dei vincoli con i Bozomo.

A riprova di ciò Antonio Bordonaro prese in sposa Antonietta Bozomo il 16 febbraio 1833 e a Licata, l’anno dopo, il 10 marzo 1834, nasce il primogenito ed erede delle immense fortune: Gabriele.

Antonietta, che al momento dello sposalizio ha solamente quindici anni, è una nipote della Rosalia sposata dallo zio Gabriele; riconfermando che non potrebbe essere più saldo il vincolo fra i due nuclei familiari[23]. La dote della moglie, di ben 400 onze, venne elargite dal padre a cui andarono a sommarsi ulteriori 400 onze che derivavano da un parente esponente della famiglia Martinez. Nel contratto matrimoniale, venne specificato naturalmente che l’amministrazione dei beni dotali spettava in toto al marito.  Per suggellare il contratto, lo zio Gabriele dotò il nipote Antonio di una rendita annuale di 112 onze, le quali sarebbero tornate in possesso del donante o dei suoi eredi se lo sposo fosse morto senza prole[24].

I nipoti, così come avvenuto in passato per gli zii, andarono ad abitare dalle parti di piazza Marina, come se quasi fosse un segnale di rafforzamento di due clan familiari ormai prossimi alla fusione[25]. Nell’ottica di gestione, per mezzo di tecniche precorritrici dei tempi, degli affari familiari il settore in cui Antonio si specializzò fu quello dello zolfo; per tale ragione trovano spiegazione le sue frequenti permanenze a Licata. Esempio lampante di questa sua specializzazione è l’operazione che conclude con il cugino Amedeo, barone di Gebbiarossa, dal quale acquisterà nel ‘34 delle partite di zolfo[26] e sempre a lui spetta verosimilmente l’incarico di trasportarle e rivenderle. Nel marzo del 1832 sono registrati diversi atti di acquisti di terre, che attestano ulteriormente l’accrescimento del patrimonio fondiario di Gabriele.

«Si tratta di 38 salme di terra nella contrada di Trebastoni, 5 salme nella contrada di Malerba, una salma a Naro – tutti possedimenti non lontano da Canicattì[27] – acquista poi, nel territorio di Cammarata, le terre della Rocca di Albano, per 2.115 onze, da Giuseppe Longo, parte dell’ex-feudo Scrudato[28]. Due anni dopo, i possedimenti nel circondario di Cammarata si accresceranno con l’acquisto di diverse terre, alcune destinate a uliveti, per 830 onze30

Alcune operazioni sono abbastanza significative, per comprendere lo scarto nell’approccio gestionale fra la vecchia e la nuova categoria di latifondisti e l’impatto che quest’ultimi ebbero con la loro rivoluzionaria mentalità imprenditoriale su un sistema nobiliare ormai a corto tanto di liquidità quanto di mezzi intellettuali. Ferdinando Gravina, principe di Palagonia titolo di goethiana memoria, vendette una grande quantità di ex-feudi al Bordonaro, per ricevere in cambio la vertiginosa somma di 20.000 onze, a patto però che gli stessi potessero essere ricomprati in seguito, cosa che puntualmente non accadrà[29].

Ulteriore importante episodio fu quello riguardante l’ex-feudo di Nadore, presso Caltanissetta, in una contrada denominata Buonpensiere. Nel ’32, Gabriele Bordonaro acquistò il terreno dal barone Giuseppe Giaconia e dieci anni dopo le cedette in enfiteusi allo stesso, nel contratto di vendita si specificava come la zolfatara che si trovava nell’ex-feudo fosse stata «scoperta e attivata nel tempo del possesso del detto signor barone Bordonaro»[30]. Lo stesso accade con Vincenzo Grifeo, duca di Floridia e principe di Partanna, che vende al Bordonaro, uno dopo l’altro, tutti i suoi ex-feudi: il Landro nel ’34[31], il Virgilio nel ’37[32], per riottenerli in enfiteusi nel ‘42[33]; lo stesso accade per una vasta porzione di terreni nei pressi di Carini, dall’omonimo principe[34].

Il 16 novembre 1834, Gabriele viene eletto membro della Camera Consultiva di Commercio, prendendo il posto di Stefano Campo, per il triennio successivo[35]. Figurava come uno dei diciassette operatori economici della città ai quali veniva consentito, dalla stessa Camera Consultiva di Commercio, il rilascio di cambiali al fine di pagare i dazi della dogana; tale prima classe di imprenditori comprendeva chi poteva rilasciare cambiali sino a ventimila onze e tra questi figuravano Benjamin Ingham, Giorgio Wood, Giuseppe Simone Camineci e Vincenzo Florio[36].

Tra le operazioni che vennero concluse in questo periodo sono da segnalare anche l’acquisizione di sei mulini a Leonforte, dal principe medesimo principe e nel ’36, una salma di terra presso Naro, per 800 onze, da un certo Pietro Palumbo[37].

Le attività di funzionario di Gabriele comportarono anche l’impiego di «amministratore dei dazi di vino, farina e orzo» nei comuni del circondario di Palermo[38], se storicamente le imprese siciliane sono state sempre legate all’instabilità della situazione come ad esempio ciò che accadde nell’estate del ’37, a Napoli, dove si assistette al violento divampare del colera, che fu causa del la paralisi dei trasporti e dei commerci[39]. Anche in tali frangenti i Bordonaro continuavano a tener saldo il timone e durante tale fase, Gabriele non smise probabilmente mai di esercitare la sua attività originaria, ovvero quella di abile amministratore dei beni delle grandi casate nobiliari. Sarà proprio lui che curerà l’eredità di un certo Raffaello Fazio che, dal 1838, amministrava l’ex-feudo di Ravanusa, espropriato dall’eredità del defunto Giovanbattista Spadafora[40].

A partire dal 1839, Gabriele prese parte alla società per azioni più importante per l’economia palermitana della prima metà dell’Ottocento: la costituzione della ‘Società dei Battelli a vapore’. Il proposito iniziale della compagnia era il semplice acquisto di una nave a vapore. L’idea imprenditoriale alla base era quella di sfruttare la condizione politica favorevole, in quanto il governo duosiciliano aveva recentemente liberalizzato il diritto di cabotaggio per battelli di proprietà privata, a differenza di quanto accadeva prima con il monopolio pubblico[41]. Bordonaro andò a ricoprire il ruolo di «cassiere» della società oltreché partecipante come terzo azionista, con 10 onze di azioni, contro le 24 di Ingham e le 13 di Florio; l’anno successivo, quando fu necessaria una ricapitalizzazione, al momento di acquistare il piroscafo a Glasgow, il barone compra un’altra delle trenta azioni messe in vendita[42].

Nei medesimi frangenti il nipote Antonio, risultava ancora impegnato nei suoi affari riguardanti lo zolfo e proprio grazie a questa sua attività riuscì ad incrementare i suoi guadagni segnando una netta crescita degli negli investimenti. Nel 1839, fu protagonista dell’acquisizione di ulteriori due zolfare ad una vendita di beni fallimentari e nel ’41, acquista 9.000 quintali di zolfo da una ditta concorrente[43].

Gli affari intorno lo zolfo non rappresentavano per Antonio l’unica via imprenditoriale da perseguire; tra i registri di vendite si trovano anche partite di sommaco e di frumento[44]. Per le sue relazioni commerciali, rispetto allo zio Gabriele che si confronta essenzialmente con il collasso terriero dell’economia nobiliare, Antonio rappresenta già una nuova generazione. A ragione di ciò, negli anni Quaranta entra in contatto commercialmente con un’azienda vinicola anglo- americana, che da tempo ha radici in Sicilia, la ‘Gardner-Rose & company’[45]. Non appare, dunque, casuale che proprio in tali anni in cui Antonio scalava personalmente la strada del successo economico, lo zio lo gratifichi regalando il primo brigantino di famiglia che portava il suo nome, il Gabriele[46].

Dal 1841, Gabriele è procuratore dei principi di Belmonte, ossia i coniugi Ferdinando Monroy e Marianna Ventimiglia. Dal primo acquistò tre terreni nei pressi di Mazara per 20.000 onze, che poi cedette in affitto; il rapporto con l’importante famiglia palermitana non si conclude qui, in quanto divenne anche agente giudiziario dei beni di Gaetano Ventimiglia, al momento della sua morte[47]. Sempre nel 1841, ma con registrazione nel 1850, Gabriele acquista, per «espropriazione forzosa in danno del duca di Villafiorita» il fondo della Patria, nelle vicinanze di Monreale, ad un prezzo di 7.421 onze[48].

Il 4 marzo 1842, Gabriele presentava una supplica alla Gran Corte dei Conti con cui richiedeva la facoltà di riscuotere il dazio sul commercio della carne nel comune di Canicattì, per due grani ogni rotolo. Nel luglio dello stesso anno, il Tribunale rifiutava la sua richiesta, poiché sosteneva che tale diritto fosse decaduto dopo le leggi del 1812[49].

Il 30 marzo 1842, il barone, acquisiva da una vendita fallimentare il cinquecentesco palazzo del barone Guggino sito in piazza Pretoria per 6.000 onze[50]. Questo palazzo era stato ristrutturato dall’architetto trapanese Giovan Biagio Amico nel corso del settecento in seguito al terremoto del ’28 e, al piano nobile, le volte erano state raffinatamente affrescate nel 1778 da Vito d’Anna. Nel corso del 1843, insieme a Benjamin Ingham e Edward Thomas, Gabriele venne nominato dal re Cassiere di corte nella Camera di Palermo, fondata in quell’anno insieme a quella di Messina. Fu nel gennaio 1845 che Gabriele acquisì metà della tonnara di Vergine Maria da Giovambattista Scullaro, un borghese che solamente pochi anni prima l’aveva acquistata dal duca di Sperlinga e concessa in gestione a Florio[51]. Insieme alla fabbrica per la lavorazione del tonno, il barone entrava anche in possesso anche di tutti gli strumenti considerati necessari per proseguire le attività di pesca. La «trasformazione residenziale della torre», Gioacchino Lanza Tomasi l’ha individuato al tempo dell’esilio di Ferdinando IV», quindi a inizio Ottocento[52]; a tonnara Bordonaro diventerà un luogo di predilezione anche per i pittori di paesaggio siciliani, come Ettore De Maria Bergler, che nel 1884 licenzierà una tela sul soggetto[53].

3. Consolidamento economico ed esperienze oltreoceano

A conferma di una centralità nel panorama della gestione delle attività economiche cittadine, la direzione della Borsa di Commercio, inaugurata il 29 maggio 1845, viene assunta da Gabriele in alternanza con Ingham, Florio, Michele Raffo e gli altri principali imprenditori protagonisti dello sviluppo economico della città[54]. A metà degli anni quaranta, le due imbarcazioni dei Bordonaro veleggiavano a gonfie vele nel Mediterraneo: l’Antonietta nel ’45 fece rotta su Napoli, il Gabriele l’anno dopo, venne stivato di merci nel porto di Messina[55]; entrambe trasportavano, in prevalenza, zucchero. La flotta subì un ulteriore potenziamento nell’ottobre del ’47, scelta voluta fortemente da Antonio, il quale si ritagliava sempre di più spazio nelle gerarchie degli affari di famiglia. L’imbarcazione Conte di Siracusa viene acquisita per il prezzo di 4.150 onze, ripartite per due terzi al principe reale Leopoldo di Borbone e per un terzo ad un certo Pietro Cusumano. La garanzia fornita dai venditori diviene chiara: le vele devono «essere servibili per intraprendere un viaggio per l’Inghilterra»[56]. Con ogni probabilità, tale battello venne ribattezzato dai Bordonaro Luigia Carolina e l’acquisto fu fatto con il precipuo scopo di tentare la navigazione transoceanica.

Infatti, il successo marittimo più clamoroso giunse nel ’48, quando la Luigia Carolina, l’Antonietta e il Gabriele, partiti da Trapani, salparono per l’oceano. Il 14 maggio, la «Carolina» passò alla storia: attraccava nel porto di New York e battendo bandiera tricolore. All’arrivo in America, venne salutata dall’entusiasmo dei giornali e dei tanti italiani lì residenti: dopo le ovazioni, fu il turno di celebrazioni che prevedono discorsi e scambi di vessilli[57]. La nave fece poi rotta verso Rio de Janeiro e qui terminò il suo viaggio, fra il dicembre del ’48 e il febbraio del ’49, con il suo carico di vino, zolfo e sale[58].

4. Le vicende dal Quarantotto all’Unità

In un articolo di Friedrich Engels, datato agosto ’48, in cui si afferma, senza troppi giri di parole, che a Palermo si è combattuta «la prima rivoluzione di quest’anno»[59]. Nonostante le grandi speranze che l’insurrezione destò in Europa, il primato è da intendere in primo luogo sul piano cronologico, oltreché su quello politico. Stavolta, e a partire dal 12 gennaio, la caduta del governo e delle truppe borboniche è completa e «nel giro di poche settimane, l’apparato amministrativo, giudiziario, militare e di polizia dello Stato venne travolto, e con esso scomparve ogni garanzia dell’ordine costituito»[60].

Al comando della rivoluzione si posero le più eminenti figure democratiche dell’epoca tra i quali Ruggero Settimo, Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo, Alessandro Paternostro che non tardarono a coinvolgere l’alta borghesia nelle nuove istituzioni venutesi a generare dall’inedito assetto politico. Già nel febbraio troviamo tracce della presenza dei Bordonaro nelle varie istituzioni promosse dal Governo rivoluzionario: un membro della famiglia, non è chiaro se si tratti di Gabriele o di Antonio, viene chiamato a prender parte ad una commissione con il compito di soccorrere i bisognosi, istituita dal Comitato generale. Dalle prime assemblee di marzo, divenne chiaro che la maggioranza del neonato Parlamento siciliano sarebbe spettata ai liberali e, forte dell’estromissione degli elementi più radicali dal governo rivoluzionario, la borghesia imprenditoriale andava a ritagliarsi un posto delineato nelle nuove logiche del potere.

Nell’agosto, è ormai chiaro che i Borbone si apprestano a riconquistare l’Isola. Nonostante ciò, un manifesto della giunta municipale assicurava ai cittadini che i senatori sarebbero rimasti ai loro posti, e fra i firmatari è anche il Bordonaro. In seguito allo scioglimento del governo rivoluzionario, la città viene sottoposta ad una amministrazione straordinaria tramite una commissione di cui lo stesso Bordonaro siede come membro. La municipalità affigge un altro bando che inneggia alla resistenza (29 marzo 1849). I Bordonaro, che sembrerebbero seguire durante tutto il corso degli eventi una posizione politica sulla falsa riga di quella dei Florio, non figurarono fra i delegati che si recarono a Catania per compiere l’atto di sottomissione al generale Filangeri, comandante delle truppe borboniche. Naturalmente, per questo suo comportamento altamente diplomatico, al ritorno dei Borboni, Bordonaro beneficia dell’amnistia (7 maggio ’49), al pari di gran parte della nobiltà che aveva partecipato alla rivoluzione[61].

Per via di tale repentino trasformismo che Pasquale Calvi, un avvocato repubblicano di idee socialiste, nel riportare il fatto, accusa Gabriele Bordonaro di essere fra i «più pecuniosi uomini della capitale» e lo taccia di ingordigia e di egoismo[62]. Le parole del pamphlettista furono ancora più aspre nel terzo volume delle sue Memorie, quando rievocò i fatti del ’49. La commissione municipale che sostituì il Parlamento abdicante così si compose: presidente: il marchese di Spaccaforno; il duca di Monteleone (esteri e commercio); Florio e Ferdinando Gaudiano (finanza); il barone Curti, il cavaliere Enrico Alliata e il conte Aceto (guerra e marina); e il Bordonaro (istruzione pubblica e lavori pubblici). È il momento in cui viene stabilito di inviare una deputazione al principe di Satriano, recante l’atto di sottomissione della municipalità di Palermo, per conto di tutti i comuni della Sicilia. In nota, così viene presentato Bordonaro:

«L’anima la più ignobile, turpe, e vile, che si trovi fra’ corrottissimi adoratori del vitello d’oro. La sua biografia, le sozzure, ond’è inquinata la sua vita, darebbero materia a un volume.»[63]

Proprio la netta contrapposizione di due componenti inconciliabili, il partito autonomista contro lo schieramento liberale, è stata considerata come una delle ragioni principali del fallimento della rivoluzione del ’48[64]. Il primo orientamento, che nasce dalla prestigiosa ‘scuola inglese’ di intellettuali e giuristi siciliani di inizio Ottocento, tra i quali ricordiamo Paolo Balsamo, Nicolò Palmieri e il conte Aceto, comprendente figure dello spessore di Emerico e Michele Amari o di Ruggero Settimo, ha certamente incontrato maggiore favore da parte della propaganda postunitaria e della storiografia novecentesca, in quanto è riconosciuto che il maggior contributo all’unificazione venne da questa parte[65].

Una decisione del Governo Provvisorio, che si rivelerà decisiva per le sorti della città, è l’apertura di una nuovo asse stradale, in direzione nord: il viale della Libertà, voluto da Pietro Lanza. Non si tratta solamente di una misura che semplifica l’accesso alle ville dei Colli; piuttosto, il fine è l’inclusione nella città di quell’area portuale che i nuovi imprenditori siciliani avevano puntellato di moli e cantieri[66].

5. Morte del prozio Gabriele ed evoluzione della famiglia

Il 5 febbraio 1854, il barone Gabriele muore e viene aperto il suo testamento, redatto tre anni prima. Alcune disposizioni permettono di scorgere il carattere dell’uomo, e quanto fosse cosciente della sua funzione di capostipite di una dinastia:

«Voglio che dalli detti miei eredi si faccia costruire un mausoleo di marmo col mezzo busto di me testatore e della mia cara consorte e che lo stesso fosse collocato nel muro vicino alla detta mia sepoltura gentilizia [nella chiesa Madre di Canicattì], dovendo in detto mausoleo farsi una iscrizione dalla quale si conosca che io sudetto testatore fui il fondatore di detta sepoltura gentilizia»[67].

Nella controfacciata della chiesa madre di Canicattì, si trova un mezzo busto che ritrae il barone e una lapide celebra il completamento del restauro del tetto della navata principale, da lui finanziato[68]. Nel testamento, le attenzioni principali si concentrano spesso verso il territorio di Canicattì, a suggellare il vincolo di Signore, seppur post feudale, a un territorio. Oltre alle rendite di cui viene dotata la moglie, Gabriele lega somme variabili a diversi nipoti e pronipoti, senza troppe differenze fra i vari cespiti familiari, arrivando anche a concedere piccoli feudi acquistati dall’aristocrazia. Per il resto, Antonio e il figlio Gabriele sono indiscutibilmente indicati come eredi universali, designati a impossessarsi dell’integrità del patrimonio e a continuare le sorti economiche dei Chiaramonte Bordonaro, in un modo quasi ricalcante l’antica usanza del maggiorascato:

«In tutti li rimanenti miei beni, tanto urbani, che rusticani, […] mobili, rendite, denaro, gioie, crediti, diritti, azioni, cause e dimane, tutto includendo e niente affatto escludento, ed in una parola in tutto il rimanente mio patrimonio, istituisco miei eredi, cioè nello usufrutto, il mio dilettissimo nepote Don Antonio Chiaramonte Bordonaro, figlio del detto mio fratello Don Gioachino, durante la di lui vita naturale, e nella proprietà, il di lui figlio primogenito e mio amatissimo pronepote Don Gabriele Chiaramonte Bordonaro e Bozomo, attualmente di età minore, di maniera che, morto che sarà il detto Antonio, il detto usufrutto si consoliderà con la detta proprietà»[69].

Nell’apprezzamento dei beni di Gabriele, nell’abitazione di piazza Marina, salta all’occhio la coerenza di un arredo borghese, provvisto di «quadri» di poco valore: fra i soggetti, si ricorda solo una «carta di navigazione del Mediterraneo», «incisioni», qualche santo per la devozione e alcune gioie di valore, acquistate dal duca di Caccamo[70]. Nella villa dei Colli, si ripete lo stesso schema, e i beni di maggior valore sono le giare che contengono l’olio, o il torchio per macinare le olive[71].

Chiaramente, un’impennata dei valori si registra al momento della descrizione degli immobili e delle rendite. Le prime ammontano alle sette già note: l’ex-feudo Patria, il palazzo Guggino ai Quattro Canti, la casina e le terre ai Colli, la tonnara di Vergine Maria, le terre di Scrudato a Cammarata, la Signoria di Canicattì e le terre di Trebastoni: solo quest’ultimo possedimento non confluisce nel patrimonio di Antonio, perché legate da Gabriele a un altro nipote, Luigi Chiaramonte Bordonaro. Poi ci sono i censi di proprietà, fra i quali spiccano il latifondo di 238 onze dovuto dal marchese Ferreri e le 384 onze annuali dovute dal conto Bonsignore per i mulini di Leonforte[72], e i crediti accumulati con la corte borbonica, le 2.336 onze nel Gran Libro di Napoli[73]. Infine, una valutazione complessiva dell’attività economica di Gabriele si ottiene leggendo la miriade di contratti, di gabella, di mutuo o di affitto di immobili, sottoscritti dal barone e inventariati al momento della sua morte da suo nipote e dal notaio.

6. L’acquisto del castello di Falconara e la consacrazione di Gabriele jr. come collezionista

Nel 1856, Antonio acquista l’ex-baronia di Falconara e l’ex-feudo di Radalì presso Butera e un magazzino a Licata, per un’operazione che costa 145.00 onze, ossia, con il nuovo calcolo in lire, 1.848.750[74]. Dal 1842, alla morte del fratello Georg, il titolo di principe di Radalì era passato a Ernst Wilding. La storia di Georg (1791 – Wiesbaden 1841) è di certo fra le più pittoresche, nella Sicilia di inizio Ottocento: questo soldato di ventura, figlio di un ufficiale di Hannover, era giunto in Sicilia al seguito delle truppe anglo-tedesche e qui aveva sposato nel 1816 Stefania Branciforte e Branciforte, principessa di Butera, e in quanto tale erede di un patrimonio immenso, arricchito anche dall’eredità del primo marito, Giuseppe Lanza, principe di Trabia. Uno dei sette feudi della principessa è legato al marito, che perciò assume il titolo di principe di Radalì. Alla morte, Georg Wilding cede il titolo e i possedimenti al fratello Ernst, che vende quindi ai Chiaramonte Bordonaro il castello[75].

Le terre di Falconara e di Radalì erano state concesse dal re di Spagna Alfonso il Magnanimo a Calcerando Santapau, con privilegio del 2 maggio 1416: è verosimile che la prima edificazione del castello risalga a tempi di non molto successivi. Quando Ambrogio Santapau Branciforte viene investito della baronia di Butera (1540), nel suo patrimonio confluisce anche la torre di Falconara, che indica probabilmente il castello in questione. Poco dopo, sarà lui a essere insignito del primo titolo di principe in Sicilia, e del rispettivo grado di primo pari del Regno (1563), che i principi di Butera manterranno sino all’Ottocento.

L’acquisto dell’ex-feudo di Falconara segnò un discrimine nella storia dei Bordonaro, in quanto da adesso fu attivo economicamente un nuovo membro della famiglia ovvero Gabriele jr., il collezionista. È lui infatti che contribuisce in maniera consistente all’acquisto del padre: per 1.154.332 lire, coprendo la spesa quasi totalmente. Il castello e le terre non avranno lo stesso utilizzo che ne faceva il prozio: non sono acquisti mirati a una crescita patrimoniale. È il turno infatti di una nuova sensibilità, che presto percepiranno i castelli, e le ville sulla costa come luoghi di residenza e, per arredare questa e altre dimore, si dedicherà a un altro tipo di attività economica: il collezionismo di oggetti d’arte.

 

 

 

 

 


[1]  O. Cancila, Storia dell’industria in Sicilia, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 125.
[2] Francesca Costanzino – Loredana Abbate, Quella villa nella piana dei Colli… Villa Chiaramonte Bordonaro, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Architettura, relatore prof. Rita Cedrini, a.a. 1999-2000, s. n. p. (Albero geneaologico)
[3] Archivio di Stato di Palermo, sede della Gancia, notaio Carmelo Giovanni Asnago, v. 21495, ff. 712-729, 12 aprile 1801. Sulla possibilità di alienare i feudi, a partire da un decreto del gennaio 1800, cfr. G. Tricoli, La Deputazione degli Stati e la crisi del baronaggio siciliano, Palermo, Fondazione culturale «Lauro Chiazzese» della Cassa di Risparmio V. 1 per le province siciliane, 1966, pp. 257-259; per il resto, il libro è farraginoso ma essenziale per capire la struttura economica della Sicilia fra Sei e Ottocento.
[4] Proprio perché Alessandro è privo di discendenti, anche la baronia di Gebbiarossa confluirà nell’eredità dei figli di Gioacchino. Ma a differenza di Gabriele, che come vedremo alla sua morte designa Antonio (padre del collezionista) come erede universale, Alessandro indica in un altro nipote, suo omonimo, l’erede del feudo di Gebbiarossa. Il 12 settembre 1899 è insignito del titolo un figlio di Alessandro junior: Giuseppe, di cui sono noti i nomi e i matrimoni delle sorelle: «Eleonora in Amato; Anna (Annetta) in Mastrogiovanni Tasca; Antonina (Antonietta) in Libertini; Filomena in Datti e Alessandra in Muti Bussi». La generazione successiva, dei figli di Giuseppe, è iscritta nel libro d’oro della nobiltà: sono Alessandro e Luigi. A. Mango di Casalgerardo, Chiaramonte e Chiaramonte Bordonaro, in V. Spreti e collaboratori, Enciclopedia storico-nobiliare italiana. Famiglie nobili e titolate viventi riconosciute dal R. Governo d’Italia compresi: città, comunità, mense vescovili, abazie, parrocchie ed enti nobili titolati riconosciuti, v. II, Milano, Enciclopedia storico- nobiliare italiana, 1929, p. 439. Il feudo di Gebbiarossa, non lontano da Canicattì, era stato scisso dalla contea di Caltanissetta nel 1533, quando un certo Pietro Fisauli lo aveva ottenuto da Antonio Moncada. Spesso riscattato dai ricchissimi principi di Paternò nel corso del Seicento (Per un calcolo del reddito dei Moncada alla fine del Cinquecento, dove si evidenzia il forte stacco rispetto agli altri feudatari, cfr. O. Cancila, Baroni e popolo nella Sicilia del grano, Palermo, Palumbo, 1983, p. 118, tabella 17.
[5] Sui Bonanno, cfr. anche F. San Martino De Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origini ai nostri giorni (1925), v. VI, Palermo, Scuola Tip. «Boccone del povero», 1929, pp. 47-50 e G. Lanza Tomasi, Castelli e monasteri siciliani, con fotografie di E. Sellerio, Palermo, Officine Lito-Tipografiche I. R. E. S., 1968, p. 141.
[6] Dal punto di vista legislativo, è importante S. Laudani, Fedecommessi, strategie patrimoniali e riforme: i beni feudali in Sicilia tra Sette ed Ottocento, in ‘Mélanges de l’Ecole française de Rome’, 124/2, 2012, pp. 593-605, che sottolinea quanto la «legislazione successoria siciliana» dopo il 1812 consentisse «ampio margine di manovra» alla classe dirigente che, tramite l’uso del fidecommesso, poteva «accrescere e rafforzare poteri personali» e familiari.
[7] Per la storia politica e economica, sono fondamentali R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Roma-Bari, Laterza, 1950 [1970, 1973, 1982, 2011]; F. Renda, La Sicilia nel 1812, Caltanissetta, Salvatore Sciascia, 1963 (per il ‘miracolo economico’ del 1808, cfr. p. 16); R. Trevelyan, La storia dei Whitaker, Palermo, Sellerio, 1988 e Idem, Principi sotto il vulcano, Milano, Rizzoli, 1977 [London, Macmillan, 1972], pp. 13-93; S. Candela, I Florio, Palermo, Sellerio, 1986 [2008]; O. Cancila, Storia dell’industria in Sicilia cit.; e Idem, I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale, Milano, Bompiani, 2008.
[8] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro (anni 1828 – 1868), Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore O. Cancila, a. a. 1990-1991, p. XXIII. Archivio di Stato di Palermo, notaio G. Accardi, rep. 838, 13 settembre 1828; in varie occasioni, l’acquisto è ricordato da Orazio Cancilia: La terra di Cerere cit., 123. La tesi di laurea della Pandolfo è preziosa per ricostruire la genesi delle fortune economiche dei Chiaramonte Bordonaro: come si vedrà nel corso del capitolo, sono numerosi i debiti che ho contratto nei confronti di questo lavoro storico.
[9] Sul quale si veda G. Schichilone, in Dizionario Biografico degli Italiani, ad vocem, v. XXII (1979).
[10] G. Lanza Tomasi, Castelli e monasteri siciliani cit. p. 141.
[11] Per l’intreccio di parentele, cfr. S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XXVI: «Il barone Gabriele negli anni ’20, sposando Rosalia, figlia di Carlo Bozomo, si imparenta con una delle famiglie di commercianti più facoltose di Palermo».
[12] Sul 1820, cfr. F. Renda, Risorgimento e classi popolari in Sicilia, 1820-21, Milano, Feltrinelli, 1968.
[13] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XXV.
[14] O. Cancila, Storia dell’industria cit., p. 75.
[15] F. San Martino De Spucches – M. Gregorio, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origini ai nostri giorni, 1925, pp. 131-132.
[16] Non va confuso con l’omonimo principe di Scalea, su cui cfr. capitoletto Goldschmidt a Palermo: cammei dalle Lebenserinnerungen. Per il principe di Scordia, cfr. G. Paladino, Scordia, Pietro Lanza e Branciforte, principe di Trabia, Butera e, ad vocem, in Enciclopedia Italiana, 1936.
[17] S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, [1993] 2004, p. 64; E. Sessa, Ernesto Basile. Dall’eclettismo classicista cit., p. 369, nota 1.
[18] O. Cancila, Storia dell’industria cit., p. 121.
[19] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. LV-LVI. Archivio di Stato di Palermo, notaio M. Tamaio, 6 e 15 settembre 1834. Il fondo sarà poi concesso nel ’45 in enfiteusi a Cesare Ferreri, per un canone di 234 onze, cfr. Archivio di Stato di Palermo, notaio M. Tamaio, 20 settembre 1845.
[20] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. IL; O. Cancila, Storia dell’industria in Sicilia cit., p. 409, nota 192. Di questa società parla anche F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, v. I, Palermo, Sellerio, 1984, p. 109.
[21] O. Cancila, Storia dell’industria cit., p. 401, nota 78.
[22] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XXV.
[23] I genitori di Antonietta sono Giovanni Bozomo e Rosalia Martinez, cfr. S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., pp. XXVI-XXVII.
[24] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XXVIII.
[25] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XXV.
[26] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XLI. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 19 febbraio 1834.
[27] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. LIV.
[28] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. LVIII, L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, rep. 541, 26 marzo 1832.
[29] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. LVIII-LXIX, L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, rep. 696, 26 giugno 1834.
[30] Ivi, p. LVIII, L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, rep. 339, 25 aprile 1842.
[31] Ivi, p. LXI, L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 14 aprile 1834.
[32] Ibidem. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 26 giugno 1837.
[33] Ivi, p. LVIII, L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, rep. 723, 24 agosto 1842.
[34] Ibidem. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, rep. 745, 28 agosto 1842.
[35] S. Candela, I Florio, Palermo [1976] 2008, p. 67. La composizione del consiglio, negli anni 1835-1837, è la seguente: presidente: il principe di Torrebruna, Intendente del governo borbonico; vicepresidente: il barone Giovan Battista Battifora; segretario perpetuo: il barone Giuseppe Giaconia; membri: Salvatore Auteri Fragalà, Stellario Cesareo, Antonino Rossi, Vincenzo Florio, Giuseppe Simone Cammineci, oltre al nostro.
[36] S. Candela, I Florio cit., p. 44; A. Basso, Note sulla borghesia palermitana nei primi decenni dell’Ottocento, in ‘Atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo’, a. a. 1998-99, pp. 21-22; O. Cancila, I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale, Milano 2008, p. 624, nota 99.
[37] O. Cancila, La terra di Cerere cit., p. 123 e S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. LIV. L’atto si conserva nell’Archivio Storico di Palermo, notaio M. Tamaio, rep. 542, 25 marzo 1832.
[38] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XLI. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 17 luglio 1836.
[39] R. Trevelyan, Principi sotto il vulcano, traduzione italiana di F. Saba Sardi, Milano, Rizzoli, 1977 [edizione originale: London, Macmillan, 1972], pp. 71-72.
[40] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., pp. XXXVI-XXXVII.
[41] R. Trevelyan, Principi sotto il vulcano cit., pp. 90-91, nota 16; O. Cancila, Storia dell’industria in Sicilia cit., pp. 125- 131 e 250-253, vedi anche note 382-383 a p. 420.
[42] S. Candela, I Florio cit., p. 74.
[43] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XLI. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 17 febbraio 1839 e scrittura privata, 1841.
[44] Ivi, p. XLVI. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 26 dicembre 1837, 24 novembre 1838, 4 luglio 1839, 12 luglio 1839, 1 maggio 1841.
[45] Ivi, p. XXXVIII. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 23 luglio 1837 e 24 luglio 1849.
[46] Ibidem. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 17 febbraio 1838.
[47] I terreni hanno i nomi di Marronia, Marronella e Spatolilla, cfr. ivi, pp. XXXVII-XXXVIII.
[48] Ivi, p. LXII, L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, rep. 72, 1 febbraio 1850. Cfr. anche l’inventario dei beni steso alla morte di Gabriele, al capitolo immobili, edito sempre nella tesi della Pandolfo, p. 37.
[49] Atti della Gran Corte dei Conti delegata, 1842. Secondo semestre, Palermo, Tipografia di Bernardo Virzì, 1842, p. 20- 27.
[50] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. LV. Archivio di Stato di Palermo, notaio M. Tamaio, rep. 454, 26 aprile 1854.
[51] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., pp. XLVI-XLVII.
[52] G. Lanza Tomasi, Le ville di Palermo cit., p. 61.
[53] Poliorama pittoresco. Dipinti e disegni dell’Ottocento siciliano, catalogo della mostra (Agrigento, Fabbriche Chiaramontane, 2007 – 2008) a cura di G. Barbera, Cinisello Balsamo, Silvana, 2007, n. 10, p. 84.
[54] S. Candela, I Florio cit., p. 85, nota 96.
[55] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XLIII. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, 17 settembre 1845 e 27 luglio 1846.
[56] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. XLIV-XLV. L’atto si conserva nell’Archivio Notarile Distrettuale di Palermo, notaio M. M. Tamaio, rep. 979, 9 ottobre 1847.
[57] H. R. Marraro, Il Risorgimento in Sicilia visto dagli Americani, in La Sicilia e l’unità d’Italia, atti del Congresso Internazionale di Studi Storici sul Risorgimento italiano (Palermo, 15 – 20 aprile 1960), Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 444-461, in part. pp. 445-446.
[58] G. Coniglio, Il commercio fra il Regno delle Due Sicilie, gli Stati Uniti e il Brasile nel 1848-49, in ‘Rassegna Storica del Risorgimento’, 1957, p. 338; L. A. Pagano, L’industria armatoriale siciliana dal 1816 al 1880, in ‘Archivio storico dell’unificazione italiana’, ser. I, v. XIII, fasc. 3, 1964, p. 40, nota 1.
[59] F. Engels, Neue Rheinische Zeitung, n. 87, 27 agosto 1848.
[60] R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia cit., p. 318.
[61] Tutte le notizie su Bordonaro nel ’48 sono ricavate da S. Candela, I Florio cit., pp. 91-93 e nota 21.
[62] “Il ministro della finanza, stremo come dicemmo, di tutt’i lumi della scienza, e di ogni abilità anche empirica, non che levarsi sino al concetto di un pieno ordinamento della nazionale azienda, incapace a specularsi di qualche ingegnoso trovato, o a far tesoro di quei che, in casi analoghi sono stati per altre nazioni adoperati, altro non seppe immaginarsi, che il sussidio di un presto. Tentavasi l’esecuzione invitando i più pecuniosi uomini della capitale, il barone Riso, un Vincenzo Florio, un barone Bordonaro ec.: ingordi, egoisti, diffidenti, lor non offrendosi un merito pari ai pericoli, onde temeano, negarono di venir a patti.”, P. Calvi, Memorie storiche e critiche della rivoluzione siciliana del 1848, Londra [in realtà Malta] 1851, v. I, p. 204. Cfr. S. Candela, I Florio cit., p. 25.
[63] P. Calvi, Memorie storiche cit., v. III, p. 305, nota 1g.
[64] T. Mirabella, L’idea autonomistica in Sicilia dal 1848 al 1860, in La Sicilia e l’unità d’Italia cit., pp. 545-561, in part. pp. 546-547.
[65] Per una storia delle idee politiche siciliane del primo Ottocento, si può fare riferimento a R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia op.cit.
[66] G. Pirrone, Palermo, Genova, Vitali e Ghianda, pp. 17-18.
[67] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. 2.
[68] La lapide recita: «A sua Eccellenza / il Sig. D. D. Gabriele Chiaramonte Bordonaro / barone di questa signoria di Canicattì / che per pia munificenza / la nave massima di questo tempio sacro al paracleto / con muri alzati e nuovo tetto di solido abeto / a sue spese restaura. Il provinciale e i padri del convento / lunga santità gratissimi augurano / e solenne messa il dì sacro a S. Gabriele / in perpetuo decretano / il 20 agosto 1849 / quando gioiosi l’opra finita e bella mirano».
[69] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., pp. 11-12.
[70] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., pp. 18-25.
[71] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., pp. 26-30.
[72] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. 39.
[73] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. 40.
[74] S. Pandolfo, La nuova aristocrazia. I Chiaramonte Bordonaro cit., p. LXIII-LXV, L’atto si conserva nell’Archivio Notarile    Distrettuale di Palermo, notaio G. Quattrocchi, rep. 311, 7 aprile 1858, ivi, rep. 173, 20 febbraio 1858; ivi, rep. 79, 28 giugno 1859; O. Cancila, La terra di Cerere (parte prima), Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 2001, p. 123, nota 162. L’atto è rogato dal notaio Giuseppe Quattrocchi, Archivio ndp, Palermo, rep. 593, inventario testamentario 14 novembre 1868.
[75] R. Trevelyan, Principi sotto il vulcano, traduzione italiana di F. Saba Sardi, Milano, Rizzoli, 1977 [edizione originale: London, Macmillan, 1972], pp. 419-420, nota 5.

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Agostino Zito

Dopo aver conseguito la laurea magistrale in giurisprudenza, marzo 2019, presso l'Università degli studi di Enna "Kore" ha condotto studi approfonditi sulla storia del diritto medioevale e moderna ed in particolar modo sul periodo costituzionale e rivoluzionario della Sicilia nell'ottocento, ulteriori temi di ricerca sono stati lo ius feudale siculo e il diritto nobiliare. Da gennaio 2020 è assistente presso l'Università degli studi di Messina in Storia del diritto, da Ottobre 2022 è dottore di ricerca con borsa presso il dipartimento di Scienze Politiche, cattedra di Storia delle Istituzioni sempre all'interno dell'ateneo peloritano. Dalla primavera del 2019 ricopre il ruolo di consulente legale presso la Società agricola Zito, storica azienda agricola di famiglia. Post laurea ha seguito un master in english for business a Cambridge (UK), giugno - luglio 2019; un master part - time sul diritto agroalimentare presso la business school del Sole 24 ore sede di Milano, ottobre - dicembre 2019; ed un E- Course in agribusiness erogato dalla University of Adelaide (Australia), marzo 2021. Da settembre 2021 è autore di contributi scientifici con la rivista Salvis Juribus.

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