I confini del lavoro subordinato dopo la rivoluzione dello “smart working”

I confini del lavoro subordinato dopo la rivoluzione dello “smart working”

Sommario: 1. Sulla nozione di lavoro subordinato in generale. Cenni storici ed evoluzioni giurisprudenziali – 2. Il lavoro subordinato e lo smart working: la necessità di tracciare nuovi confini

 

1. Sulla nozione di lavoro subordinato in generale. Cenni storici ed evoluzioni giurisprudenziali

La nozione giuridica di lavoro subordinato, come noto e seguendo la sempre attuale teoria di Rodolfo Sacco relativa ai cosiddetti “tre formanti” del diritto, è frutto di un’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale relativa all’interpretazione di una norma inserita nell’ordinamento positivo.[1]

Nello specifico, la norma definitoria  de qua è contenuta nell’art. 2094 cod. civ. , secondo cui:<< E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore>>; tale definizione, redatta nella formulazione originaria del Codice Civile (vigente dal 1942), in osservanza allo “spirito del tempo” identifica come modello di lavoratore subordinato socialmente prevalente l’operaio – si potrebbe dire “fordista – taylorista” – della (grande) impresa industriale.

Se è vero che la  prima tipizzazione del contratto di lavoro riguardò la categoria degli impiegati, attraverso l’emanazione di un Regio Decreto risalente al 1924, all’epoca della stesura della legislazione codicistica, deputata altresì a disciplinare la materia del lavoro (quantomeno a livello generale), è pacifico che la sopra richiamata definizione si attagliasse prevalentemente allo svolgimento di compiti ripetitivi e connotati da un forte vincolo di subordinazione; e questa definizione finì con l’individuare una fattispecie di lavoratore subordinato di carattere assolutamente generale, anche dal punto di vista soggettivo della natura del datore di lavoro (risultando infatti applicabile anche ai rapporti instaurati con datori di lavoro non imprenditori in virtù dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 2239 cod. civ.[2]).

Da quando esiste il diritto del lavoro stesso (inscindibilmente legato sin dalla sua fase genetica al diritto sindacale e alle cosiddette “working unions”, coeve alla rivoluzione industriale e alle sue distorsioni socio-economiche), infatti, nel tentativo di introdurre delle tutele funzionali a rendere maggiormente appetibile la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato per la ‘’parte debole’’ del rapporto, il Legislatore introduce una serie di norme teleologicamente indirizzate a riportare in equilibrio il sinallagma contrattuale[3], in considerazione del fatto che la posizione sociale, economica e giuridica del lavoratore è, per l’appunto, subordinata a quella dell’imprenditore.

Alla luce delle riflessioni sopra svolte appare evidente la necessità, per il Legislatore, di tracciare confini chiari al fine di regolare situazioni potenzialmente problematiche e frequentemente ricorrenti nella realtà concreta della quotidianità lavorativa anche nei tempi odierni.

A causa sia della natura generica (e almeno in parte antiquata) della formulazione dell’art. 2094 cod. civ., sia dei notevoli mutamenti sociali, politici, economici e financo tecnologici, detta norma, mai modificata, è stata variamente interpretata dagli altri “formanti del diritto” al fine di adattarne la portata alle modificate vicende della contemporaneità.

In principalità, si era tentato di fare ricorso al cosiddetto “metodo sussuntivo”, consistente, in estrema sintesi, nella riconduzione del caso concreto nella fattispecie astrattamente scolpita dalla predetta norma codicistica.

A partire dal dato letterale della norma, gli elementi qualificatori della fattispecie ‘’lavoro subordinato’’ che si evincono dalla lettura dell’art. 2094 cod. civ. consistono, analiticamente, nella retribuzione, nella collaborazione, nell’eterodirezione e nella dipendenza; preliminarmente, dunque, al fine di verificare la rispondenza tra tipo normativo e fattispecie concreta, occorrerà accertare se gli elementi in questione, variamente combinati fra loro o anche singolarmente considerati, possano essere usati in funzione distintiva, per separare l’area coperta dal lavoro subordinato (e dalla sua disciplina), da quella di lavoro autonomo (e dalla sua disciplina).

Procedendo per ordine, la retribuzione è un elemento che vale a caratterizzare il contratto di lavoro subordinato (e solo quello) come contratto sinallagmatico – a prestazioni corrispettive, non dissimile in questo senso (id est: la causa del contratto ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 1325 e 1343 cod. civ.) ai contratti di lavoro autonomo; tale elemento, semmai, è utile per differenziare il contratto di lavoro subordinato dalla controversa fattispecie del lavoro gratuito, essendo l’onerosità un requisito fondamentale del rapporto in questione.[4]

Quanto alla collaborazione, concetto che riporta ad un assetto normativo che respingeva l’idea dell’esistenza di un conflitto di interessi fra capitale e lavoro, prevede un’attitudine meramente descrittiva, di richiamo di un dato di normalità tecnico-organizzativa (ovvero che il lavoratore subordinato è destinato ad operare unitamente ad altri lavoratori, ed eventualmente allo stesso datore di lavoro, dunque in ‘collaborazione’ con altri soggetti).[5]

L’eterodirezione costituisce il criterio distintivo fondamentale in relazione al quale, secondo la giurisprudenza dominante, si dovrebbe compiere il giudizio di sussunzione.[6]

All’enfatizzazione del requisito appena citato, d’altra parte, corrisponde la sottovalutazione del criterio della dipendenza, per nulla utilizzato nei giudizi di qualificazione.

Stante la nebulosità di almeno alcune delle suddette nozioni, il formante giurisprudenziale, tra le metodologie adottate, ha attribuito un ruolo prevalente al cosiddetto “metodo tipologico”, il quale, applicando il principio di indisponibilità del tipo (che a sua volta costituisce applicazione del principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 Cost., in ragione del quale, se le premesse di partenza sono le medesime, anche le conseguenze dovranno esserlo), prevede che, a prescindere dalla qualificazione formale che le parti danno al rapporto (c.d. “nomen juris”), alla ricorrenza di determinati requisiti (“indici di subordinazione”), la sostanza del rapporto prevarrà sempre sull’ “etichetta” formale attribuitagli dalle parti, tipicamente nell’interesse del datore di lavoro, il quale, diversamente qualificando il rapporto, si sottrae a numerosi oneri economici, tra cui i (maggiori) versamenti contributivi, gli obblighi derivanti dall’art. 2087 cod. civ., il trattamento economico e normativo in caso di malattia, infortunio e maternità, il pagamento degli istituti di retribuzione differita e il Trattamento di Fine Rapporto.

Si può osservare che il metodo tipologico parrebbe utilizzabile con maggior fondamento negli ordinamenti privi di una nozione legale di lavoro subordinato, di talché la sua applicazione nel nostro ordinamento potrebbe sembrare paradossale: purtuttavia, tale cortocircuito è facilmente spiegato con la vetustà della norma definitoria, di cui si è dato conto supra.

Significativamente, l’orientamento giurisprudenziale riconducibile al metodo tipologico, e dunque all’accertamento dei cosiddetti “indici di subordinazione”, si fondava sulla ricorrenza di vari elementi, tra cui si possono annoverare, a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo: la sottoposizione al potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro (naturalmente entro i limiti di legge, tra cui quelli, estremamente rilevanti ai fini di quanto si dirà infra, contenuti nell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, cosiddetti “controlli a distanza”); la natura fissa della retribuzione; l’osservanza di un orario di lavoro fisso e la presenza di una postazione fissa all’interno dell’organizzazione aziendale.

I criteri (gli indici di subordinazione) delineati dalla giurisprudenza e poc’anzi riepilogati, tuttavia, appaiono in crisi nell’attuale stravolto panorama, soprattutto per effetto della improvvisa diffusione (originata, evidentemente, dall’inaspettata esplosione pandemica del 2020) del cosiddetto smart working, o, rinunciando agli anglicismi, “lavoro agile”.

2. Il lavoro subordinato e lo smart working: la necessità di tracciare nuovi confini

Il “lavoro agile”[7] si sostanzia una particolare modalità di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato introdotta al fine di incrementare la competitività e di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, mediante un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro, anche al fine di favorire, al contempo, la crescita della produttività aziendale.

Civilisticamente, può essere anche intesa come un’applicazione dell’art. 1182 cod. civ. in tema di luogo di ademepimento delle obbligazioni (in particolare delle obbligazioni che trovano la loro fonte nel contratto di lavoro), il quale, per accordo delle parti, viene trasferito dalla sede aziendale ad altro luogo.

Tale modalità, introdotta dalla l. n. 81 del 22 maggio 2017 (dunque in epoca antecedente, seppur di poco, allo scoppio della pandemia da Coronavirus), si svolge, di norma, senza vincoli di orario e luogo di lavoro (in deroga, dunque, a due “capisaldi” del metodo tipologico), e può essere organizzato per specifiche fasce di contattabilità, senza maggiori carichi di lavoro; ai lavoratori agili viene garantita la parità di trattamento economico e normativo rispetto ai loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinarie. E’, inoltre, prevista la loro tutela in caso di infortuni e malattie professionali, secondo le modalità illustrate dall’Inail nella circolare n. 48/2017.[8]

Per attuare tale tipologia di svolgimento, è necessario che le parti stipulino un c.d. ‘’accordo di smart working’’, vero e proprio contratto (modificativo di quello “standard” di lavoro, in ragione del combinato disposto tra l’art. 1321 cod. civ. e l’art. 2094 cit.) che ha lo scopo di disciplinare le modalità di esecuzione dell’attività, tra cui le forme di esercizio del potere di controllo e direttivo del datore di lavoro e, inoltre, possono essere previste le condotte che il dipendente in lavoro agile è tenuto ad evitare, perché tali da esporlo a sanzioni disciplinari. Queste, in base alla gravità del fatto, possono portare sino al licenziamento per giusta causa, senza il riconoscimento del periodo di preavviso.

Il lavoratore in smart working è soggetto al potere di controllo dell’azienda[9], In particolare, i controlli possono interessare gli strumenti utilizzati dal lavoratore, come pc, tablet, smartphone -oltre ad estendersi a posta elettronica e traffico internet, nel rispetto di quanto previsto dalla normativa vigente[10].

Per garantire la privacy durante lo smart working si fa riferimento ai contenuti delle informazioni fornite ex artt. 13 e 14 Regolamento UE 2016/679 del 27 aprile 2016[11] (c.d. GDPR) e alle norme di armonizzazione per il trattamento dei dati personali e categorie di dati personali dei dipendenti.

Lo svolgimento dell’attività lavorativa in smart-working si svolge, dunque, fuori dai locali aziendali, ma anche fuori dal controllo diretto e dalla vigilanza del datore di lavoro. Ciò comporta evidentemente un mutamento all’interno del rapporto di lavoro subordinato, non solo in relazione ai poteri direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro, ma anche in relazione agli obblighi di tutela della salute e della sicurezza.

Il potere direttivo, mentre nel rapporto di lavoro ordinario si configura come il potere di organizzare il lavoro del dipendente e di impartire ordini, nell’ambito dello smart-working esso si esaurisce nella fissazione degli obiettivi che il lavoratore deve raggiungere.

Il potere disciplinare, trattato all’art. 21 della predetta L. n. 81/2017 prevede che nell’accordo individuale siano specificate le modalità di gestione e controllo del datore di lavoro e quali condotte comportano l’applicazione di sanzioni disciplinari.

Per quanto riguarda invece il potere di controllo, escludendo chiaramente il controllo diretto, in quanto la prestazione lavorativa si svolge fuori dai locali aziendali, assume una particolare importanza la disciplina del controllo a distanza.[12]

Come si può facilmente arguire, la diversità in cui si atteggiano i poteri e le prerogative del datore di lavoro è suscettibile di modificare in modo sensibile il paradigma della subordinazione, atteso che molti dei relativi indici vengono letteralmente travolti dalla nuova tipologia legislativamente prevista (e largamente abusata nella pratica).

Un’altra conseguenza diretta dello smart-working nel mutamento del rapporto lavorativo consiste nlla diversa declinazione assunta dall’obbligo di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore previsto dall’art. 2087 c.c. Infatti, il datore di lavoro rimane responsabile della salute e della sicurezza del lavoratore anche se si trova in un ambiente lavorativo diverso dai locali aziendali. Chiaramente, i rischi a cui andrà incontro il lavoratore in smart-working saranno certamente diversi da quelli che si presentano ad un lavoratore che svolge l’attività in modalità ordinarie, quali ad esempio il rischio del c.d. ‘’Time Porosity’’, ovvero l’intensificazione dei ritmi e l’assenza di una netta separazione tra tempi di lavoro e tempi per la vita privata, nonché i rischi inerenti alla salute psico-emotiva[13] e all’isolamento sociale. [14]

Lo Smart Working è un istituto che è stato introdotto soprattutto per far fronte all’emergenza epidemiologica da Covid-19, rappresentata dal D.l. 19 maggio 2020 n. 34[15], che ha costretto i datori di lavoro a reinventarsi al fine di assicurare la continuità aziendale anche nel contesto in cui si era costretti alla quarantena forzata e, grazie alla sua grande funzionalità, è stato prorogato diverse volte nel corso di questi anni;

A proposito del termine finale, si riscontra una sorta di disparità “cronologica” nel regolamentare il settore pubblico rispetto a quello privato, in cui la proroga allo smart working semplificato è rimasta fino al 31 marzo 2024, mentre, la proposta di proroga per le PA è stata scartata, infatti, il diritto allo smart working per il settore pubblico è cessato il 31 Dicembre 2023.[16]

Dal 1° aprile 2024 si potranno continuare a svolgere la prestazione da remoto, ma alle stesse condizioni degli altri lavoratori dipendenti, nel rispetto cioè della normativa ordinaria, rappresentata dalla Legge 22 maggio 2017 numero 81 [17].

L’articolo 19, comma 1, della Legge numero 81/2017, dispone che l’accordo “relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova”. Il documento si preoccupa di fissare: le forme di esercizio del potere direttivo e di controllo del datore di lavoro; i tempi di riposo del lavoratore; gli strumenti utilizzati dal lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la sua disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro; le condotte sanzionabili a livello disciplinare; l’eventuale diritto all’apprendimento.

Il citato articolo 19 dispone al comma 2 che entrambe le parti possono recedere dall’accordo di smart working: dando un preavviso non inferiore a 30 giorni, in caso di accordo a tempo indeterminato; prima della scadenza, in caso di accordo a tempo determinato, soltanto in presenza di un giustificato motivo.

Tirando le fila del discorso sino ad ora sviluppato, si può affermare che lo smart working e la sua improvvisa (e inaspettata) diffusione ha scalfito una realtà giuridica consolidata da anni, comportando il travolgimento degli indici di subordinazione cui principalmente il formante giurisprudenziale aveva fatto ricorso per individuare la ricorrenza della fattispecie; verosimilmente, tale cambio di paradigma comporterà un’ulteriore estensione del perimetro della subordinazione, auspicando tuttavia che, di pari passo con la rapida evoluzione giurisprudenziale, anche il formante legislativo si adegui, regolamentando erga omnes una tematica che, per la sua rilevanza e diffusione, non può rimanere circoscritta a singole decisioni giurisprudenziali o a ponderose analisi dottrinali.

 

 

 

 

 

 

 


[1] Negli ordinamenti occidentali, tra i più rilevanti Spagna, Olanda, Portogallo e Italia, il diritto del lavoro presenta la caratteristica comune di risultare costruito attorno ad una nozione unitaria di lavoro subordinato, con forte enfatizzazione del nesso fra fattispecie ed effetti: l’individuazione della prima, serve per definire il campo d’applicazione delle regole di diritto del lavoro.
[2] Tale articolo cita testualmente :<< I rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di un’impresa sono regolati dalle disposizioni delle sezioni II, III e IV del capo I del titolo II, in quanto compatibili con la specialità del rapporto.>>.
[3] L’espressione ‘’sinallagma’’ evoca una dimensione afferente ad un ambito contrattualistico; tuttavia, la dottrina storicamente ha istituito la c.d. ‘teoria acontrattualistica’, fondata sulla convinzione che le posizioni di potere e di soggezione che si manifesta nel concreto svolgimento del rapporto, non sarebbero connotate da un’intrinseca conflittualità, bensì sarebbero finalizzate al perseguimento di un interesse comune, a differenza di quanto previsto dalla privilegiata (e ormai dominante) ‘’teoria contrattualistica’’ , secondo cui alla base del rapporto di lavoro si trova lo strumento del contratto.
[4] In relazione al contratto d’opera gli artt. 2222 e 2225 c.c. parlano, genericamente, di “corrispettivo”; mentre il termine “compenso” compare dell’art. 2233 con riguardo al contratto d’opera intellettuale.
[5] Si tratta di un requisito privo di valore discretivo, dal momento che esso è riscontrabile anche nell’ambito del lavoro autonomo (così M. Roccella, Manuale di Diritto del Lavoro, V Edizione, Torino, 2013, pp. 45 ss.
[6] Secondo una risalente, ma ancora attuale, pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 379/1999), “ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, assume rilievo prioritario l’indagine sulla sussistenza del requisito della subordinazione, inteso come vincolo di carattere personale che assoggetta il prestatore d’opera al potere direttivo del datore di lavoro…”.
[7] Il termine “smart working”  è attribuito a Jack Nilles, studioso americano che per primo elaborò il concetto, e il termine utilizzato era la circonlocuzione “working remotely”, per poi passare a “telecommuting”.
[8] La circolare INAIL n. 48 del 2 novembre 2017 tratta il quadro normativo della disciplina, l’obbligo assicurativo e classificazione tariffaria, la retribuzione imponibile, la tutela assicurativa, la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori e le istruzioni operative.
[9] L’azienda può, fatti salvi i limiti sui controlli a distanza su cui si dirà meglio infra, fare ricorso ad investigatori nel caso in cui, ha affermato la Cassazione, vi siano sospetti sulla condotta del dipendente.
Il controllo non dev’essere diretto a verificare l’adempimento della prestazione lavorativa ma a tutelare il patrimonio aziendale. Gli investigatori possono quindi intervenire, secondo i contemporanei orientamenti giurisprudenziali, er verificare il contenuto di illeciti già commessi dal dipendente e In ragione del mero sospetto o dell’ipotesi che gli illeciti siano in corso di esecuzione.
[10] Il riferimento nello specifico va nuovamente all’art. 4, l. 300/1970, come modificato dall’art. 23 del D.Lgs. 151/2015, emanato nel più ampio quadro di Decreti Legislativi noto come “Jobs Act”, il quale prevede la possibilità di controlli a distanza (difformemente dalla formulazione originaria del 1970) sui cosiddetti “strumenti di lavoro”, a patto che sia fornita idonea informativa ai sensi della legislazione nazionale ed europea.
[11] Il principio dell’accountability è il principio di responsabilizzazione, previsto dal Regolamento UE 2016/679 e, declinato alla fattispecie del lavoro agile, impone al datore di lavoro di porre in essere di comportamenti che dimostrino l’adozione di misure finalizzate ad assicurare l’applicazione del GDPR.
[12] In particolare, l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori dispone che i controlli a distanza possono essere effettuati solo in presenza di determinate condizioni, quali: a) esigenze organizzative produttive; b) sicurezza del lavoro; c) tutela del patrimonio aziendale; d) la sussistenza di un accordo con i sindacati. Restano però esclusi da tali vincoli, a norma dell’art. 4 co.2, gli strumenti che servono al lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
[13] La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 27913 del 4 dicembre 2020, ritiene ingiustificato il diniego del datore di lavoro all’uso della formula agile quando richiesto dal lavoratore e quando le esigenze lavorative lo permettono. Il riferimento normativo principale, ma non l’unico, è l’art. 2087 del Codice Civile, che stabilisce:
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
[14] Con riguardo alla responsabilità del datore di lavoro, in particolare la legge 81/2017 prevede da un lato l’obbligo di informare il lavoratore dei rischi specifici connessi allo smart-working, dall’altro prevede responsabilità del datore di lavoro per infortunio o malattia professionale connessi al malfunzionamento e al difetto di sicurezza degli strumenti tecnologici che abbia affidato al lavoratore per lavorare in smart-working.
[15] D.l. 19 maggio 2020, n. 34, c.d. CORONAVIRUS- DECRETO “RILANCIO”, contiene misure urgenti in materia di salute, sostegno all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19.
[16] La comunicazione telematica di “fine smart working” dovrà avvenire mediante l’applicativo disponibile, tramite autenticazione SPID e CIE, sul portale Servizi Lavoro Apre in una nuova scheda, oppure, in alternativa, mediante i servizi telematici API REST di invio delle comunicazioni.
[17] L’articolo 19, comma 1, della Legge numero 81/2017, dispone che l’accordo “relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova”. Il documento si preoccupa di fissare:
le forme di esercizio del potere direttivo e di controllo del datore di lavoro; i tempi di riposo del lavoratore; gli strumenti utilizzati dal lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la sua disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro; le condotte sanzionabili a livello disciplinare; l’eventuale diritto all’apprendimento.
Il citato articolo 19 dispone al comma 2 che entrambe le parti possono recedere dall’accordo di smart working:
dando un preavviso non inferiore a 30 giorni, in caso di accordo a tempo indeterminato; prima della scadenza, in caso di accordo a tempo determinato, soltanto in presenza di un giustificato motivo.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Luigi Antonio Beccaria è nato a Melzo nel 1990. Laureato in Scienze Politiche e Giurisprudenza, è avvocato e consulente del lavoro. La sua principale area di attività è quella giuslavoristica, che esercita presso lo Studio Elit S.a.s. di Melzo, ove esercita l'attività di consulente del lavoro (iscritto all'albo di Milano al n. 2659) e presso lo Studio Legale Camilletti a Milano, ove ha svolto la pratica forense. Collabora da anni con la cattedra di Diritto Privato e con la cattedra di Diritto del Lavoro rispettivamente nelle facoltà di Scienze Politiche e di Economia e Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

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