I labili confini applicativi della circostanza aggravante contemplata dall’art 416 bis.1 c.p. (ex art. 7 L. n. 203/1991)

I labili confini applicativi della circostanza aggravante contemplata dall’art 416 bis.1 c.p. (ex art. 7 L. n. 203/1991)

Sommario: 1. Generalità: profili ontologici e ratio politico – criminale – 2. L’ipotesi della “agevolazione mafiosa” – 3. L’aver agito avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p.

 

1. Generalità: profili ontologici e ratio politico – criminale

In via preliminare, è d’uopo evidenziare come la genesi del meccanismo circostanziale in parola debba farsi risalire al D.L. n. 152 del 13 maggio 1991, convertito in legge n. 203/1991, e segnatamente, all’art. 7 del citato provvedimento legislativo – il cui contenuto è ora pedissequamente riproposto dall’attualmente vigente art. 416 bis. 1 c.p.- il quale letteralmente disponeva che “per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà”.

Mediante la previsione di un così rigido trattamento sanzionatorio, la norma in questione, si prefigge, a ben vedere, il precipuo scopo di punire più severamente tutte quelle fattispecie di natura delittuosa contigue al tessuto criminale mafioso, poiché espressive di un disvalore giuridico contrassegnato da una più pregnante capacità d’intimidazione dei destinatari dell’offesa penalmente rilevante.

Ciò premesso, appare ora necessario soffermarsi sul complesso tessuto componenziale della disposizione normativa in oggetto.

L’art. 416 bis 1 c.p., prevede, infatti, specificatamente, due ipotesi di aggravamento strutturalmente autonome: l’aver agito al fine di agevolare l’associazione mafiosa; l’aver agito avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p..

2. L’ipotesi della “agevolazione mafiosa”

La prima delle ipotesi contemplate dalla norma, si riferisce ai casi in cui la condotta posta in essere da parte del soggetto agente risulti funzionalmente vocata ad “agevolare” il contesto mafioso di riferimento.

Al riguardo, sul contenuto semantico in concreto da attribuirsi alla predetta espressione verbale, sono sorti, sia in dottrina sia in giurisprudenza, vistosi dubbi di natura interpretativa.

Più in dettaglio, il principale nodo gordiano, appare certamente costituito dalla esigenza epistemologica attinente alle modalità di accertamento della finalità agevolatrice, tenuto conto, altresì, dei profili di incertezza circa l’elemento soggettivo all’uopo necessario a reggere detta finalità.

Sicché, onde evitare una indiscriminata prassi applicativa della norma, si è più volte prospettata la necessità di, non soltanto accertare i risvolti causali della condotta, ma anche di ancorare l’elemento soggettivo richiesto ai fini dell’applicabilità dell’aggravante ad una “copertura volitiva” di tipo qualificato.

Rispetto a siffatta condivisibile esigenza, tuttavia, in seno alla giurisprudenza non è dato riscontrare un crinale ermeneutico sufficientemente univoco.

Al riguardo, a fronte del più rigido e risalente indirizzo interpretativo, propendente più verso la esclusiva finalità politico-sociale di neutralizzare il fenomeno della criminalità organizzata, a scapito di ogni forma di determinatezza giuridica, è possibile, viceversa, apprezzare la presenza di un più recente e garantista orientamento di legittimità, con il quale, si è prospettata la necessità di accertare, al di là del profilo attinente la semplice consapevolezza dell’ausilio prestato al sodalizio, l’esistenza di un qualificato elemento intenzionale, rispettivamente costituito dal fine specifico di “favorire” l’attività criminale posta in essere dall’entità collettiva.

A tale proposito, giova segnalare la recentissima pronuncia n. 8545/2020 delle Sezioni Unite della Suprema Corte.

Più in dettaglio, in detta pronuncia, il Supremo Consesso, ha finalmente circoscritto la natura della circostanza aggravante de qua, optando, a scapito dell’indirizzo più risalente, per la tesi di matrice “soggettiva”.

Detta soluzione, sostiene il massimo Organo nomofilattico, s’imporrebbe quale doverosa alla luce del dato testuale offerto dalla norma, il quale, per inciso, esige che “l’agente deliberi l’attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa

Oltre che in ragione del riferimento semantico, la qualificazione in termini meramente “oggettivi” della circostanza, andrebbe destituita di fondamento, in quanto, altrimenti correlata ad una individuazione postuma della finalità delittuosa, ravvisabile tutte le volte in cui la condotta, al di là dell’elemento volitivo, abbia di fatto prodotto, o quanto meno abbia la potenzialità di produrre, un obiettivo vantaggio per la compagine delittuosa. Diversamente opinando, si andrebbe inevitabilmente in contro al rischio di ancorare il fondamento assiologico dell’elemento circostanziale de quo sulla scorta dell’esclusivo attributo utilitaristico della condotta, pur in assenza di una specifica volizione e rappresentazione di detta conseguenza da parte dell’imputato.

3. L’aver agito avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p.

La seconda ipotesi contemplata nella diade componenziale dell’art. 416 bis- 1 c.p., prevede un aggravio di pena rispetto a quei fatti di reato compiuti “avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis”.

Ciò premesso, quella contemplata nella prefata disposizione normativa è una circostanza aggravante “oggettiva” ad effetto speciale la cui ratio, come più volte sancito dalla giurisprudenza del Supremo Consesso di legittimità, va rinvenuta nella necessità di reprimere il “metodo delinquenziale mafioso”, ed è connessa, non tanto alla struttura o alla natura delitto cui l’aggravante accede, quanto piuttosto “alle modalità della condotta in grado di evocare la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso” (cfr. Cass. Pen. Sez. V, n. 22554/2018).

La tipicità dell’aggravante in disamina, dunque, in ragione dell’essere intimamente connessa alla locuzione verbale “avvalersi del metodo mafioso”, prescinde dall’esistenza di una qualificata condotta partecipativa di natura associativa, e va ancora, non già alla natura della condotta intimidatoria ex se, bensì alle intrinseche caratteristiche del “metodo” in concreto utilizzato da parte del soggetto agente.

Ne discende che, la violenza attraverso la quale la condotta delittuosa viene in rilievo deve attingere, quale mezzo strumentale, alla forza intimidatrice promanante dal vincolo associativo.

Detta impostazione interpretativa, peraltro, è stata più volte avallata in seno alla giurisprudenza di legittimità, la quale, ribadendo la natura necessariamente strumentale del metodo mafioso, ha in più occasioni statuito che “ai fini della configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203[…] non è sufficiente il mero collegamento con contesti di criminalità organizzata o la “caratura mafiosa” degli autori del fatto, occorrendo, invece, l’effettivo utilizzo del metodo mafioso, e cioè, l’impiego della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo” (cfr. ex multis: Cass. Pen. Sez. III, n. 47588/2015; Cass. Pen. Sez. V, n. 42818/2014; Cass. Pen. Sez. II, n. 28861/2013).

Dovendo, dunque, l’offensività del fatto tipico di reato apprezzarsi alla luce di criteri oggettivamente considerati, in termini di “effettività” del metodo utilizzato, la valutazione euristica che l’interprete è chiamato ad assolvere ai fini  dell’applicazione dell’aggravio sanzionatorio, non può prescindere da un accertamento edificato su base casistica, sì da scongiurare l’eventualità per cui, in presenza di singoli indizi di mafiosità, declinabili sulla scorta della mera caratura criminale di un soggetto, vengano sacrificati i postulati di determinatezza giuridica e di offensività  che permeano l’intero ordinamento penale.

La funzione semantica da attribuirsi alla locuzione verbale “avvalersi”, dunque, va opportunamente ancorata all’esistenza di un quid pluris giuridico, riconducibile alla necessità di esteriorizzazione, da parte del soggetto agente, di uno schema comportamentale finalisticamente orientato a suscitare nei confronti della vittima la sensazione di dovere fronteggiare la particolare forza intimidatoria tipicamente riscontrabile in seno ai contesti delittuosi di stampo associativo.

Detto in altri termini, è il “metodo” a fondare la cifra costitutiva del meccanismo circostanziale, e non già la semplice “caratura mafiosa” degli autori del fatto di reato.

Da ultimo, resta da verificare il “quando” una condotta, sul versante della quotidiana pratica giuridica, possa contrassegnarsi alla stregua della “oggettiva idoneità a suscitare una qualificata coartazione psicologica”.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità, non ha mancato di individuare taluni indici rivelatori del metodo mafioso, a loro volta suddivisibili in due macro categorie: da un lato si annoverano gli indici d’inferenza quelli il contenuto espressivo della minaccia; dall’altro, quelli riferibili alla peculiarità del contesto in cui si esplicano le manifestazioni intimidatorie.

La prassi giurisprudenziale, inoltre, tende a valorizzare, quali indici precursori di sussistenza del metodo di natura mafiosa, le qualità soggettive del reo, con specifico riguardo agli atteggiamenti o le gestualità da questi adoperati durante la realizzazione del fatto criminoso; nonché, rispetto alla posizione dell’offeso, l’eventuale conoscenza che questi abbia della contiguità dell’autore del fatto rispetto alle locali consorterie mafiose.

Infine, in ossequio alla manifesta – tanto più discutibile – ratio estensiva del meccanismo circostanziale de quo, non è mancata in seno alla giurisprudenza di legittimità il riferimento operativo ad una generale clausola di chiusura, capace di attrarre entro il perimetro applicativo della norma “qualunque ulteriore elemento atto a conferire al comportamento l’idoneità ad avocare, con efficienza causale, l’esistenza di un sodalizio ed incutere un timore aggiuntivo di una ritorsione mafiosa”. (cfr. da ultimo Cass. Pen. Sez. VI, n. 28112/2020).


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Gabriele Ferro

Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.

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