I nuovi sviluppi dell’accordo di Schengen

I nuovi sviluppi dell’accordo di Schengen

Lo spazio Schengen rappresenta una zona interna all’Unione Europea nella quale non sono presenti i controlli alle frontiere ed è garantita la libera circolazione delle persone. Nel corso degli anni 80’, vivace fu il dibattito sulla libera circolazione delle persone, ma non vi era unanimità di vedute e prospettive. In effetti, alcuni Stati membri dell’Unione chiedevano una piena e libera circolazione solo esclusivamente per i cittadini europei, con la conseguenza di mantenere i controlli alle frontiere per i cittadini di Paesi terzi; altri Stati auspicavano invece una totale parità di trattamento tra cittadini residente nei Paesi membri dell’Unione e quelli dei Paesi terzi.

Vista l’impossibilità di giungere ad un accordo che coinvolgesse tutte le parti in causa, solo Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi, firmavano, il 14 giugno 1985, un primo accordo con l’intento di creare fra di essi un territorio senza frontiere, il cosiddetto «spazio Schengen», nel quale venivano abolite le frontiere interne, sostituite con un’unica frontiera esterna, entro la quale si applicavano norme e procedure comuni in materia di visti, soggiorni brevi, richieste d’asilo e controlli alle frontiere.

Ulteriori e successivi accordi hanno permesso l’adesione al sistema degli altri Stati dell’UE, tra cui l’Italia che aderiva nel 1990. Attualmente fanno parte dello spazio Schengen gli stati dell’UE, eccezione fatta per Regno Unito e Irlanda e tre paesi che non fanno parte dell’UE (Islanda, Norvegia, Svizzera).

L’accordo ha trovato attuazione solo a partire dal 1995 e solo con il Trattato di Amsterdam del 1997 le sue implicazioni sono state integrate nel diritto UE.

I punti principali dell’accordo evidenziano non solo la volontà di abolire i controlli sulle persone alle frontiere, nel pieno rispetto di una delle quattro libertà fondamentali sancite prima nel Trattato dell’Unione Europea (TUE) e successivamente riconfermate nel Trattato sul funzionamento dell’ Unione Europea (TFUE), ma prevedono anche la necessità di armonizzazione delle condizioni di ingresso e delle concessioni dei visti per i soggiorni brevi, nonché il rafforzamento della cooperazione di polizia e giudiziaria tra i paesi dell’ acquis.

Il diritto d’asilo presuppone pertanto una procedura complessa che risponde alla presenza di specifici requisiti; il regolamento di Dublino del 2003 prevede infatti che la domanda d’asilo venga esaminata nello Stato (UE) dove il richiedente ha fatto ingresso e la stessa non potrà essere presentata in più di uno stato membro. Allo stesso tempo gli elementi per una decisione favorevole, in tal senso, partono anzitutto dal timore fondato di una possibile persecuzione per motivi di carattere etnico, religioso, a causa dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, a causa della nazionalità oppure per le opinioni politiche.

Eppure, nonostante lo spazio Schengen possa essere considerato uno degli avanzamenti più concreti dell’Unione Europea, si parla sempre più spesso di deriva fallimentare per l’accordo.

Il 6 gennaio 2016 si è tenuto a Bruxelles un vertice straordinario tra il Commissario UE all’immigrazione, il Ministro svedese all’immigrazione, la Ministra danese all’immigrazione e all’integrazione e il Segretario di Stato per gli Affari Interni del governo tedesco: al centro del dibattito, le misure adottate da Svezia e Danimarca volte a ripristinare i controlli alle frontiere interne, sospendendo, in questo modo, le regole di Schengen. I Paesi Scandinavi hanno giustificato la loro decisione di usufruire della clausola del trattato di Schengen, che consente la sospensione temporanea della libera circolazione per casi eccezionali, sulla base di esigenze di gestione di un flusso molto intenso di migranti richiedenti asilo.

Pur sottolineando il carattere temporaneo ed eccezionale della sospensione, ad oggi, i Paesi che hanno reintrodotto i controlli alle frontiere interne sono Norvegia, Svezia, Danimarca, Austria, Germania e Francia. La sospensione dell’accordo determina ovviamente un sensibile aumento delle frontiere da controllare ed enormi difficoltà “in uscita” ed “in entrata”, per quanto riguarda la circolazione da Stato a Stato, con la conseguente creazione di probabili “discriminazione al contrario” per i cittadini interni, onerati pertanto da un trattamento più gravoso.

Ma la “crisi Schengen” potrebbe avere anche pesanti ripercussioni sul piano economico, se si pensa che la libera circolazione delle persone rappresenta il pilastro portante del mercato unico europeo e corollario necessario per un’altra libertà fondamentale, quella di libera circolazione delle merci.

Non meno emblematico e ricco di conseguenze potrebbe rilevarsi la recente richiesta di uscita dall’Unione della Gran Bretagna, a seguito del referendum del 23 Giugno 2016, per mezzo dell’attivazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona, che permette il recesso volontario degli Stati membri. Certo, la Gran Bretagna non è mai stata una delle firmatarie dell’accordo Schengen, ma, dopo l’uscita dall’Unione, il rischio che risulti fortemente compromessa la libera circolazione di persone e di merci è alto. Bisognerà attendere certamente almeno l’inizio delle negoziazioni tra Consiglio Europeo e Gran Bretagna, e tutto dipenderà dal tipo di accordo raggiunto, specie in materia di immigrazioni e libera circolazione.

A prima vista, la scelta di lasciare l’Unione europea e la necessità di rinegoziare i rapporti tra Londra e Bruxelles parrebbe un forte vantaggio per il Regno Unito, che potrebbe porre dei limiti ai flussi in ingresso. I cittadini UE, infatti, dopo l’avvio della procedura di cui all’articolo 50, potrebbero non aver più automaticamente il diritto di rimanere in maniera permanente nel Regno Unito, essere soggetti a visto, con la possibilità di vedersi limitato l’accesso al welfare. Diversamente, a quelli già presenti in Regno Unito verranno garantiti tutti i diritti fin quando l’UE li garantirà ai cittadini britannici. Tuttavia bisogna considerare che, affinché Londra e Bruxelles raggiungano un accordo, occorrerà il consenso di una maggioranza rafforzata del 75% degli Stati membri, ovvero 21 dei 27 governi che farebbero parte dell’Unione europea una volta uscito il Regno Unito.


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