I princìpi alla base del sistema finanziario islamico: haram e halal

I princìpi alla base del sistema finanziario islamico: haram e halal

Sommario: 1. Riba – 1.1. Riba al nasi’ah e riba al-fadl – 1.2. Le fonti del divieto di riba: riba nel Corano, nella Sunna e nella giurisprudenza – 1.3. Il fondamento giustificativo del divieto di riba – 1.4. Dal riba teorico al dibattito sulla pratica dell’interesse nelle banche islamiche – 1.5. Le soluzioni alla questione del riba – 2. Gharar – 2.1. Definizione di gharar – 2.2. Le fonti del divieto di gharar – 3. Maisir – 3.1. Definizione di maisir – 3.2. Giustificazione del divieto di maisir nelle fonti

 

1. Riba

1.1. Riba al nasi’ah e riba al-fadl

Il sistema finanziario islamico trova il suo fondamento nella Parola del Libro (al-Kitàb): il Corano[1], il quale individua ciò che è obbligatorio (fard), e distingue  ciò che è proibito, attività che vengono denominate haram, da ciò che è consentito, definito halal, distinguendo, infine, ciò che è consigliato ( mansūh) da ciò che è sconsigliato (makrūh).

Il divieto di riba, che può essere tradotto con la perifrasi “divieto di incremento”, rappresenta uno tra i principali divieti posti dal Corano, ed è su di esso che trova il fondamento il sistema bancario islamico.[2]

È doveroso porre in luce che il concetto di riba non rappresenta un concetto unitario, poiché possono essere individuate diverse sfaccettature e tipologie di esso: il riba al-qarud, relativo all’usura nei prestiti di denaro (menzionato anche riba al nasi’ah), ed il c.d. ribā’ al-buyu, che si riferisce all’usura nel commercio.

Il ribā’ al-buyu si articola a sua volta nel ribā’ al-fadl, il quale prevede  lo scambio simultaneo di beni dello stesso genere in qualità o quantità diseguali, e nel ribā’ al-nisa, definibile come scambio non simultaneo di beni dello stesso genere in qualità o quantità eguali[3].

È opportuno precisare che vi sono alcuni autori , come IBN QAYYIM AL JAWZIYYA,  i quali ritengono che le transazioni usurarie debbano esser articolati nelle tre categorie del ribā’ al Jahiliyyah, ribā’ al nasi’ah e ribā’ al-fadl,[4] in questo modo è possibile evidenziare, in riferimento alla prima, la necessità di dare risalto all’origine storica del divieto di cui si sta discorrendo. Tuttavia si deve  precisare che l’origine storica del  ribā’ al Jahiliyyah e dei ribā’ al nasi’ah e ribā’ al-fadl è differente, poiché il primo tova il suo fondamento nel Corano, mentre i secondi trovano il loro fondamento negli Ahadith del Profeta[5].

Nonostante siano state individuate diverse tipologie di  ribā , nella Shari’ah il termine riba richiama essenzialmente il concetto di ribā’ al nasi’ah  e il concetto di  ribā’ al-fadl. Per  ribā’ al nasi’ah[6] si intende la dilazione concessa al debitore per la restituzione del prestito in cambio della corresponsione di un incremento rispetto all’ammontare originario della somma prestata[7]. Il divieto di interesse a cui si fa riferimento è relativo al prestito.

Pertanto è possibile affermare che la proibizione del ribā’ al nasi’ah implica, che non sia lecito fissare in maniera anticipata una controprestazione, in qualità di corrispettivo per la dilazione concessa, che ecceda il capitale conferito.

Tuttavia, non vi è possibilità di sostenere che il ribā’ si riferisca all’usura e non all’interesse, in quanto il divieto colpisce ogni accordo attraverso il quale si garantisce un incremento di quanto pattuito. In sintesi, è possibile affermare che qualsiasi incremento richiesto, rispetto a quanto originariamente era stato concesso viene considerato illecito[8].

Per quanto concerne, invece, il c.d. ribā’ al-fadl, si devono richiamare gli Ahàdìth di Maometto[9] nei quali si richiede che lo scambio avvenga con beni dello stesso genere: oro con oro, argento con argento, grano con grano, orzo con orzo, datteri con datteri e sale con sale. Dagli Ahàdìth  si evince che gli scambi devono avvenire in maniera equa e corretta, ossia per quantità corrispondenti[10]. Gli scambi dei “beni usurari”[11] devono avvenire simultaneamente (yadan bi-yad) e per quantità uguali (mithl bi-mithl).

Gli Ahàdìth specificano le regole da applicarsi nei casi di vendita dei beni menzionati, stabilendo che qualora si tratti di scambi tra beni non appartenenti allo stesso genere, questi (definiti ribawi, o relativi al ribā’) possano essere scambiati l’uno verso l’altro, purché lo scambio avvenga “di mano in mano”, mentre per quanto concerne lo scambio di beni appartenenti al medesimo genere (ad esempio, oro con oro) è permesso unicamente per eguali quantità.

In sintesi, le regole generali che i giuristi hanno ricavato in relazione al divieto di ribā’ nelle vendite sono sintetizzabili nel seguente modo: a) se il controvalore è espresso in oro, argento, grano, orzo, datteri o sale, o altri beni che possono con ragionevole grado di probabilità implicare un ribā’ secondo analogia (qiyàs), i due beni debbono essere scambiati sul momento in eguale quantità, per cui qualunque squilibrio o rinvio concernente la consegna di uno di essi equivarrebbe ad una violazione del divieto di ribā’; b) se i due beni scambiati differiscono nel genere, essi debbono essere scambiati contestualmente, ma l’eguaglianza quantitativa non è una caratteristica essenziale, mentre se uno di essi è moneta, sia l’eguaglianza che la contestualità possono essere disattese.[12]

I quesiti sul ribā’ concernono, essenzialmente, il riferimento in via esclusiva ai sei beni sopra citati e la giustificazione della necessaria equità nello scambio.

In relazione al primo quesito, si è affermato che ab origine oro, argento, grano, orzo, datteri e sale fossero utilizzati come moneta e che attualmente, la menzione di questi indichi l’estensione del ribā’ al-fadl ad ogni scambio di un qualsivoglia bene con denaro o con altri beni utilizzati come strumento monetario.

In relazione al secondo quesito, la questione risulta più complessa: è necessario individuare l’esatto significato dell’espressione ribā’ al-fadl . Elementi imprescindibili per le transazioni sono la giustizia e la correttezza. Il primo elemento viene garantito dalla possibilità di accertare l’eguale valore dei beni scambiati, anche se in realtà nel momento in cui il bene è oggetto di permuta, l’equivalenza può risultare approssimativa e lo scambio potrebbe essere ingiusto. Da questo punto di vista, il denaro assurge al ruolo di perequatore negli scambi, in quanto idoneo a fornire un’esatta unità di misura del valore[13]. La proibizione del ribā’ al-fadl concerne, pertanto, ogni conseguimento di un valore maggiore rispetto alla propria prestazione in uno scambio, ponendosi così come precetto di chiusura per qualunque forma di sfruttamento attraverso transazioni inique.[14] In tal modo, si precisa chiaramente il divieto di perseguire guadagni derivanti dall’ingiustizia nei confronti di altri soggetti ovvero dal loro sfruttamento[15].

Il divieto di analoghe pratiche illecite è completato dall’esortazione, che si fa’ risalire al Califfo UMAR IBN AL-KATTHAB, ad astenersi non solo dal ribā ma anche dal ribah ( che letteralmente significa “dubbio” o “sospetto” ). A tal proposito, è necessario fare riferimento all’osservazione fatta dal giurista MUHAMMAD ABU ZAHRA, il quale pone in evidenza il fatto che il Califfo UMAR avesse ben presente come il divieto di cui si discorre, fosse riferibile con certezza al Jahili ribā, che risulta essere l’equivalente dell’odierno prestito ad interesse.

In sostanza, l’apprezzamento del ribā’ al-fadl ad opera dei giuristi musulmani non è univoco, in quanto, mentre taluni lo ritengono categoricamente proibito in relazione agli insegnamenti islamici, altri lo considerano lecito, pur se inopportuno, poiché, sotto il profilo pratico, esso in taluni casi appare non dissimile dal ribā’ al nasi’ah, senz’altro illecito (ciò che legittima il suggerimento di astenersi dalle relative pratiche).

È doveroso porre in rilievo l’articolata posizione dottrinale con la quale si giustifica la non automatica illiceità del ribā’ al-fadl.

A tal proposito, si può fare riferimento al pensiero di Abu al-Saud, il quale, in considerazione agli scambi tra quantità differenti di beni, fornisce l’esempio concreto dello scambio di una libbra di datteri di buona qualità con una libbra di datteri di qualità inferiore. In tale ipotesi, si sottolinea che nessuna persona di buon senso addiverrebbe ad un simile accordo, per cui sarebbe senz’altro ragionevole, nel caso di scambio tra datteri di buona e inferiore qualità, che la quantità dei secondi ecceda quella dei primi. Tuttavia, ciò che è sottolineato con particolare vigore dalla scuola Hanafita, si pone in contrasto con questa soluzione l’episodio riferito negli Ahàdìth, nel quale Bilal (il primo dei Muezzin, ex schiavo di origine abissina poi affrancato), a seguito di una precisa domanda del Profeta circa la provenienza di una quantità acquistata di datteri djanîb, di qualità assai elevata, rispose di aver scambiato due misure di datteri di qualità inferiore con una misura di datteri di migliore qualità[16].

L’unico modo per sottrarsi all’operatività del divieto di ribā’  sarebbe allora, nell’ottica dei c.d. moralisti, l’effettuare due distinte operazioni, ossia la vendita di datteri di mediocre qualità seguita dall’acquisto di datteri di qualità migliore (in tal senso si esprime il Profeta, nell’episodio citato: “Vendi piuttosto il primo tipo di datteri e utilizza ciò che hai ricavato per acquistare i secondi”) . Pertanto, l’ipotesi in cui taluno consegua più di quanto abbia dato, può risultare perfettamente lecito e ammissibile qualora si siano prestati beni che, seppur di minor quantità, siano qualitativamente superiori rispetto a quelli ricevuti[17].

Può affermarsi che sono comunemente considerati di natura usuraria: a) qualsiasi eccedenza quantitativa o differenza qualitativa rispetto a quanto concordato all’atto della conclusione del contratto; b) i servizi aggiuntivi prestati dal debitore in assenza di apposita pattuizione; c) qualunque ritardo nell’adempimento o modifica delle relative modalità (ivi compreso il luogo in cui debba essere eseguita la prestazione).

1.2. Le fonti del divieto di riba: riba nel Corano, nella Sunna e nella giurisprudenza

Il divieto di ribā viene sancito in primo luogo nel Corano, nel quale rileviamo quattro sure, che menzionano soventemente il divieto di ribā  in occasioni differenti: la sura XXX Ar Roum ( I Romani) versetto 39, le sure IV An-Nisâ’  ( Le Donne) versetti 160 – 162, la sura III Al – Imran ( La famiglia di Imran) versetti 130 – 132, ed infine la sura II Al – Baqarah ( La giovenca) versetti 275 – 280.[18]

Nel Corano si deve evidenziare la differenza fra i versetti che furono rivelati a Maometto a la Mecca e i versetti che sono stati rivelati a Medina. Dai primi si evince una semplice sollecitazione a non aumentare i propri beni a discapito degli altri, mentre nei secondi il divieto di ribā è esplicito.

Dall’analisi delle sure si evidenzia che inizialmente il Corano non fa’ espressamente riferimento al ribā, inteso come divieto.

Precisamente nella sura XXX, versetto 39, il Corano si riferisce alla condanna dell’ interesse solo in maniera allusoria ed indiretta: “ Ciò che concedete in usura, affinché aumenti a detrimento dei beni altrui, non li aumenta affatto presso Allah. Quello che invece date in elemosina bramando il volto di Allah, ecco quel che raddoppierà.

Dall’analisi del versetto si evidenzia che il Corano non fa’ ancora riferimento al divieto dell’interesse, il quale verrà introdotto inequivocabilmente nella sura II, versetto 275.[19]

Nel libro VI, dedicato alle Donne, il Corano richiama il divieto di usura facendolo, anche in questo caso in maniera indiretta, poiché si evoca l’esempio dei Giudei ai quali viene posto il divieto di praticare l’usura. Il versetto 160 afferma che  “è  per l’iniquità dei Giudei, che sono state rese loro illecite cose eccellenti che erano lecite, perché i giudei fanno molto per allontanare le genti dalla via di Allah”.

Nel versetto 161 viene prevista una pena per coloro che praticano l’usura: il Corano asserisce  che è stato preparato un castigo atroce per coloro che praticano l’usura e che sono miscredenti[20].

Nel versetto 162, la condanna dell’usura è un monito e ricorda ciò che è accaduto ad altre persone a cui Dio si era rivolto. In esso si declama: “Ma quelli di loro che sono radicati nella scienza, e i credenti, credono in quello che è stato fatto scendere su di te e in quello che è stato fatto scendere prima di te, eseguono l’orazione, pagano la decima e credono in Allah e nell’Ultimo Giorno: daremo loro mercede immensa.” È d’obbligo porre in rilievo che, il versetto 162 è un po’ più incisivo dei precedenti versetti, ma in esso il divieto dell’usura non è ancora esplicito.

Necessita eseguire un’analisi delle sura III, versetti 130 – 132, dai quali si desume una sempre più manifesta espressione del divieto di ribā. Il versetto 130 appare molto significativo, in quanto si fa’ un riferimento esplicito al divieto di ribā : “ voi che credete non cibatevi dell’usura che aumenta di doppio in doppio, e temete Allah affinchè possiate prosperare”.

I successivi versetti [21] esortano a temere il fuoco, ad obbedire ad Allah e al Messaggero[22]:  “ e temete il fuoco che è stato preparato per i miscredenti” “e obbedite ad Allah e al Messaggero, affinché possiate ricevere misericordia.” In questi versi si annuncia che la punizione non è causa di confusione, ma la misericordia è possibile per coloro che si redimono e percorrono di nuovo la strada di Dio.[23]

Abbiamo già anticipato che la proibizione del ribā viene proclamata in maniera inequivocabile nella sura II ( Al Baquara: la giovenca), e nello specifico nel versetto 275, il quale asserisce: “Coloro invece che si nutrono di usura resusciteranno come chi sia stato toccato da Satana. E questo perché dicono: “Il commercio è come la usura!”. Ma Allah ha permesso il commercio e ha proibito l’usura. Chi desiste dopo che gli è giunto il monito del suo Signore, tenga per sé quello che ha e il suo caso dipende da Allah. Quanto a chi persiste, ecco i compagni del Fuoco. Vi rimarranno in perpetuo.”[24] Dall’analisi di questo verso si evince che il divieto di usura è strettamente correlato con il commercio, in quanto si fa’ espressamente riferimento all’usura praticata negli scambi commerciali.

Al versetto 275 si collega il versetto 276 il quale recita: “Allah vanifica l’usura e fa’ duplicare l’elemosina. Allah non ama nessun ingrato peccatore”.

Nei versetti successivi[25] si ribadisce il divieto e si esorta ad avere timore di Allah e di rinunciare a profitti dell’usura se si è credenti, inoltre si asserisce che Allah e il suo Messaggero dichiareranno guerra a coloro che non rispetteranno tale divieto. Inoltre, si esorta a temere il giorno in cui si sarà ricondotti verso Allah, in quanto è in questa sede che ogni anima avrà ciò che si è guadagnato nella vita terrena.[26]

In conclusione possiamo affermare che nella sura II, versetti 275 – 281, il divieto è esplicito. Il divieto dell’usura è un divieto fondamentale per i musulmani, e il suo rispetto rappresenta la via per poter raggiungere Allah e per poter rafforzare la propria fede.

Dall’analisi delle sure coraniche si può giungere alle seguenti conclusioni: nel periodo preislamico l’usura consisteva nel raddoppiare l’ammontare del debito; a causa di questo processo il Corano rifiuta di considerare il ribā una normale pratica commerciale; il Corano incoraggia i fedeli alla cooperazione e approva gli utili derivanti dal commercio senza l’intento di frodare o sopraffare gli altri.

Queste conclusioni sono corroborate da dati storici: nel Muwatta di Malik, Zayd b. Aslam descrive il seguente contratto dei “tempi dell’ignoranza” .

Nella jahiliyya[27] il riba si metteva in atto nel seguente modo: se un uomo aveva un debito nei confronti di un altro, alla scadenza questi diceva: “Vuoi pagare o vuoi aumentare?” Se pagava, il creditore riceveva indietro la somma prestata, altrimenti aumentava il debito, in virtù del fatto che aveva concesso una dilazione.

Il divieto di ribā trova il suo fondamento non solo nel Corano, ma anche nella Sunna.

Prima di analizzare la visione del divieto di ribā nella Sunna, ritengo sia debito dare una definizione di essa. La Sunna è una fonte del diritto, nota anche come asl, termine che designa il modo abituale di comportarsi, la consuetudine e anche la norma di condotta. Nello specifico indica il modo in cui Muhammad si comportava nelle diverse circostanze, indica la sua consuetudine, le sue norme di condotta consistenti in un detto ( qawl ) o in un fatto ( fi۱l ), o in un silenzio (sekùt ) inteso come tacito assenso.[28]

Da un lato, vi è il Corano che usa il termine ribā nel contesto del debito. Esso non fa’ alcun riferimento all’origine del debito, che può essere il prestito oppure il pagamento dilazionato delle vendite.

Dall’altro lato, la Sunna usa il termine ribā in relazione a certi tipi di vendita praticati durante il periodo pre-islamico.

Al Profeta Maometto vengono attribuiti pochissimi hadit che si riferiscono al  ribā  pre-islamico. Nei suoi sermoni durante il pellegrinaggio verso la Mecca, egli avrebbe detto: “ Tutti i contratti nei confronti dei quali è stata praticata l’usura, sono nulli e da evitare. La prima ribā che annullo, è quella di Abbas b. Abd al-Muttalib.

Nel trattato in cui il Profeta si riferisce ai Cristiani della città di Najran, in Arabia, egli annulla gli interessi maturati peri loro debiti, i quali avevano avuto origine durante il periodo pre-islamico.

È doveroso evidenziare che, nessuno di questi hadit esplica la natura del ribā , non si esplica l’origine del ribā pre-islamico.

Un punto rilevante è che nessuno dei hadit autentici, attribuiti al Profeta in relazione al ribā  sembra citare i termini “credito” o “debito”. L’assenza di qualsiasi riferimento ai crediti o debiti negli hadit che concernono il ribā , hanno portato una minoranza di giuristi a sostenere che ciò che è effettivamente vietato ribā , è da rilevare in alcune forme di vendita, cui si fa riferimento nella letteratura hadit stessi. I suddetti giuristi sostengono che i crediti o i debiti dovrebbero essere esclusi dalla definizione di ribā , poiché, a loro avviso, i versetti coranici relativi a codesto divieto, vengono spiegati dal  Profeta.

Questo punto di vista, tuttavia, è stato respinto dalla maggioranza dei giuristi. L’opinione prevalente tra gli esegeti coranici e studiosi di hadit è che, mentre il ribā , così come vietato il Corano, è un onere imposto al debitore contro il differimento di un debito già esistente, il divieto nella Sunna è legato a determinate forme di vendita .[29]

Nella letteratura, ci sono molte versioni circa le sei materie prime individuate dagli hadit. La versione più nota è la seguente: “Scambiate oro per oro, argento per argento, grano per grano, orzo per orzo, datteri per datteri, sale per sale, misura per misura e di mano in mano. Se i beni sono di genere differente, allora scambiateli senza alcun limite, purché ciò sia effettuato tramite una transazione di mano in mano.”

In base a questo hadith, i musulmani possono vendere questi sei prodotti solo se si seguono i suoi orientamenti. Come già specificato nel primo paragrafo, in relazione al ribā al-fadl, dagli Hàdìth del Profeta,  si evince che gli scambi devono avvenire in maniera equa e corretta, ossia per quantità corrispondenti. Pertanto, possiamo ribadire che scambi dei “beni usurari”, detti anche ribawi[30] devono avvenire simultaneamente (yadan bi-yad) e per quantità uguali (mithl bi-mithl).

È doveroso effettuare un’analisi circa le diverse scuole di giuristi[31], ed è importante specificare che in relazione al divieto di usura, le quattro scuole principali[32] si sono divise: da un lato, troviamo l’interpretazione degli hanafiti e degli hanbaliti, e dall’altro lato troviamo gli shafiiti e i malikiti.

La scuola hanafita ritiene che tutte le operazioni in cui le condizioni di simultaneità e di equivalenza non siano applicate, devono esser considerate vietate anche quando i beni di scambio[33] sono della medesima natura, ovvero hanno lo stesso peso o misura.[34]

Per gli esegeti di codesta scuola, la ragion d’essere del divieto di ribā al-fadl risiede nell’eccesso del controvalore delle prestazioni reciproche derivante da una disuguaglianza tra due oggetti della stessa specie e la stessa quantità. Esplicativo di questo principio è l’esempio di Bilal.[35] Si narra che il Profeta abbia chiesto a Bilal la provenienza dai datteri che possedeva e si riferisce che Bilal abbia risposto nel seguente modo: “Io possedevo datteri di qualità inferiore e ho scambiato due misure di questi datteri, contro una misura di qualità migliore.” Sentendo la sua spiegazione il Profeta esclamò: “questo è chiaramente ribā. Non farlo di nuovo, anzi, quando  desideri acquisire i datteri di qualità superiore, prima devi vendere i datteri di qualità inferiore e successivamente, con i proventi della vendita, puoi acquistare i datteri di qualità superiore che  desideri.”

Il bene di scambio a cui si fa riferimento nel sopracitato episodio, è un bene ribawi, ma è opinione diffusa che il principio espresso nell’episodio di Bilal, possa essere applicato anche ai beni non appartenenti alla categoria ribawi.

Gli esegeti della scuola Shafiita ritengono che il ribā al-fadl sia relativo allo scambio di generi alimentari e allo scambio di denaro.[36] Sostanzialmente si ritiene che gli individui facessero affari con questi prodotti non solo per le loro esigenze, ma anche per realizzare un profitto illegalmente guadagnato.

È per questa ragione che gli shafiiti ritengono che gli scambi dei generi alimentari e delle monete[37] devono essere effettuati di mano in mano, oppure in base al peso o alla misura, ovviamente sei i beni sono misurabili e possono essere pesati. Ad esempio, la vendita di grano deve avvenire con uno scambio di altro grano, deve essere utilizzata la medesima misura o il medesimo peso, ossia la stessa quantità e infine, lo scambio deve avvenire di mano in mano.

Per quanto concerne il ribā al-nasi’a, gli esegeti, appartenenti alla scuola Shafiita, ritengono che il divieto di ribā connesso con la proroga del termine, possa esser limitato alle sole transazioni relative ai prodotti alimentari e ai metalli preziosi.

È opportuno specificare che, in base alla sopracitata scuola, le operazioni economiche devono essere conformi alle prescrizioni proibitive della Shari’a in materia di ribā.

Procediamo ora con l’analisi della scuola Malikita e Hanbalita. Le suddette scuole individuano ulteriori criteri per fondare la teoria del profitto illecito. Tant’è vero che ritengono, che il ribā espressamente vietato sia il ribā al-nasi’a. Questo tipo di ribā è il peggiore, in quanto a causa della concessione e della proroga del termine, il ribā non può essere giustificato neanche nei casi di estrema necessità.

L’impatto di una rigida e rigorosa ispirazione morale della legge sacra, attraverso la quale si può stabilire il perfetto ordine nella società, (ordine fondato su dei precetti di giustizia ed equità), è considerato, in primo luogo, limitativo della libertà degli individui nella stipulazione dei contratti e, in secondo luogo, impeditivo per lo sviluppo del commercio e delle attività economiche nei paesi dell’Islam.

1.3. Il fondamento giustificativo del divieto di riba 

Per quanto concerne la giustificazione razionale del divieto di ribā’[38], sono stati posti in evidenza alcune esigenze: a) assicurare una corrispondenza matematica tra le prestazioni; b) evitare lo sfruttamento economico; c) procedere con una contrazione del commercio di valuta e di generi alimentari; d) creare un collegamento tra liceità del guadagno e rischio produttivo; e) utilizzare il denaro e i mercati per allocare e moderare i rischi [39].

In epoca odierna,  numerosi giureconsulti musulmani hanno tentato di discernere gli strumenti che fossero atti a consentire lo sviluppo delle attività economico-commerciali nei Paesi islamici. Partendo dal fatto che la teoria del prestito ad interesse, così come  veniva applicata ai tempi del Profeta Maometto, non fosse più conforme con le esigenze del mondo contemporaneo, è stata doverosa  una nuova classificazione del ribā’, la quale si doveva adeguare alle attuali dinamiche finanziarie e produttive. Pertanto, era necessario che le proposte volte a porre il sistema bancario islamico in armonia con il divieto di ribā’ fossero atte, allo stesso tempo, a renderlo dinamico e coerente con le esigenze di sviluppo[40].

A titolo esemplificativo possiamo alludere al Codice Civile Egiziano del 1949, il quale, assieme al Codice Iracheno del 1951, ha consentito di dare concretezza all’idea fondamentale di sviluppo giuridico dei Paesi arabi, mediante la ricezione di un diritto moderno, ma pur sempre nel rispetto della “tradizione giuridico islamica” locale. [41] Tra le disposizioni più significative possono citarsi:

– l’art. 226, il quale prevede, in caso di mora del debitore, un interesse legale del quattro per cento per le transazioni civili e del cinque per cento per i prestiti commerciali; in tal caso le regole processuali risultano favorevoli al debitore, poiché non è sufficiente, affinché decorrano i suddetti interessi, un’intimazione, anche ufficiale, ad opera del creditore, il quale è tenuto a dedurre in giudizio la propria pretesa, specificando nel relativo atto che il proprio diritto non si limita alla restituzione del capitale, ma comprende anche gli interessi di mora.

– l’art 227 recita: “Le parti del contratto possono concordare un differente tasso di interesse, in cambio di una dilazione nel pagamento o in ogni altra situazione, condizione che questo tasso non superi il sette per cento. Se esse concordano un interesse che supera questo tasso, detto interesse sarà ridotto al sette per cento, ed ogni eccedenza già pagata dovrà essere restituita.” Il differente tasso di interesse a cui si fa riferimento nell’art. 227, richiama la disposizione dell’art. 226, che indica i tassi di interesse legali, i quali possono esser disattesi dall’autonomia privata con il limite espressamente previsto dal sopracitato art. 227.

– l’art. 229, a tenore del quale, in caso di mala fede del creditore nel reclamare il pagamento del debito, il giudice è autorizzato a ridurre gli interessi legali ovvero ad esentare del tutto il debitore dal pagamento di interessi;

– l’art. 232, in cui si sancisce il divieto di anatocismo detto Fawa’id ‘ala Mutajammid al-Fawa’id, il quale è consentito in base al codice previgente, a condizione che l’interesse sugli interessi non decorresse per oltre un anno e che fosse consentito da un’apposita pattuizione tra concedente e debitore (in assenza della quale il creditore poteva deferire la soluzione del problema al tribunale) – con il divieto assoluto si assiste ad una chiara assimilazione dei precetti islamici in tema di ribā’  ; nella medesima disposizione si prevede che l’ammontare degli interessi non può essere superiore a quello del capitale, pur se questa disposizione, adottata con tutta probabilità in stretta conformità al precetto coranico di cui alla Sura III, versetto 130, prima parte (“O voi che credete non cibatevi dell’usura, che aumenta di doppio in doppio”), non si applica per gli investimenti produttivi a lungo termine;

– l’art. 542, che prevede la gratuità del prestito nel caso le parti non pervenissero ad un accordo sul tasso di interesse;

– l’art. 544, relativo alla restituzione anticipata del prestito, la quale può essere effettuata dal debitore senza che necessiti il consenso del creditore, né è ammissibile una clausola contrattuale che la escluda; al debitore è però consentita la suddetta restituzione solo se siano trascorsi sei mesi dalla conclusione del contratto, avendo poi sei mesi per dare esecuzione al proprio intento (in ogni caso, gli interessi sul prestito decorrono per l’intero periodo di sei mesi).

Sulle disposizioni del Codice civile egiziano è possibile rilevare due letture in relazione al divieto di ribā’: la prima viene proposta da IBRAHIM ZAKI AL-BADAWI, il quale riafferma l’importanza del divieto di usura e censura la sua obliterazione ad opera della codificazione; la seconda teoria viene proposta da ABD AL-RAZZÀQ AHMAD AL-SANHÙRI, il quale ha sviluppato un’articolata difesa del Codice civile sulla base del principio di necessità.[42]

Le esigenze di sviluppo hanno portato ad una pluralità di veri e propri sotterfugi legali (hiyal), tra i quali, ad esempio, la vendita a termine seguita dall’acquisto in contanti, oppure schemi contrattuali che trovano, singolarmente, accoglienza e sviluppo in ambienti tradizionali dove le pratiche elusive esprimono l’esigenza di attenuare le difficoltà nella vita quotidiana degli islamici.

Le argomentazioni che limitano l’ambito di applicazione del ribā’ risultano più articolate. Si può partire dall’argomentazione in base alla quale il relativo divieto concernerebbe le sole persone fisiche, poichè le persone giuridiche non avrebbero facoltà di commettere atti religiosamente riprovevoli e, pertanto, non sarebbero censurabili sotto questo profilo[43].

In relazione alla linea permissiva sono state delineate le misure idonee a ridurre le ipotesi di sfruttamento. Pertanto è stata proposta la nazionalizzazione in taluni stati delle attività bancarie e la compartecipazione della banca e dei depositanti nei profitti e nelle perdite, così da rimuovere le similitudini tra interesse e usura[44].

Coloro i quali supportano l’abbandono dell’interesse come perno dell’attuale sistema bancario, sottolineano la necessità di una graduale costruzione di differenti schemi di sviluppo economico, i quali sono alternativi alla logica del profitto. Questi schemi partono dal presupposto che la proibizione islamica del ribā’ persegue lo scopo di evitare che un soggetto riceva una ricompensa, come tipicamente avviene nel prestito ad interesse, in cui il concedente non si impegna in alcun tipo di attività per conseguire il guadagno che riceve. L’abolizione dell’interesse come cardine del sistema economico sarà possibile solo qualora si osservino i precetti islamici in modo assoluto e nella loro totalità. La ragione del contrasto con le concezioni dei rapporti economici viene ravvisata nel fatto che questi sono basati su una logica materialistica, mentre gli insegnamenti dell’Islam si fondano sulla soddisfazione spirituale.

Questo punto di partenza teologico – filosofico è condotto a conseguenze operative coll’imputare allo Stato l’obbligo di individuare i mezzi che assicurino il denaro necessario per progetti economici e sociali alternativamente al prestito con interesse[45]. In quest’ottica possiamo comprendere quale funzione venga attribuita al sistema bancario nello Stato islamico. Essa, infatti non si occupa esclusivamente di concedere mutui onerosi o assicurare il credito, bensì, si occupa di agevolare i membri della comunità per i loro bisogni finanziari in cambio di corrispettivi da essi sostenibili.[46]

Lo Stato, infatti, deve agevolare l’esercizio di questa funzione garantendo al creditore un’adeguata compensazione, nel momento in cui il debitore sia divenuto incapace di restituire la somma attribuitagli a causa di eventi che si collocano al di fuori della propria sfera di controllo.

Ne consegue che la completa abolizione dell’interesse può essere attuata, con apprezzabili probabilità di successo, qualora lo Stato islamico doti delle necessarie risorse finanziarie, in cambio della partecipazione ai relativi profitti, organizzazioni di carattere cooperativo che perseguano molteplici scopi.[47]

A ciò si deve aggiungere il fatto che il sistema bancario dovrebbe essere completamente riorganizzato[48],in quanto vi è l’assenza di adeguati strumenti per supportare le imprese con la necessaria liquidità, oltre che la necessità di comporre il conflitto tra l’azione regolativa delle banche centrali, la quale risulta finalizzata alla protezione dei risparmiatori, ed i principi PLS. Sarebbe necessario procedere con un  collegamento tra le banche commerciali e uno stretto controllo delle importazioni e delle esportazioni da parte dello Stato. In relazione alle importazioni, le banche commerciali, si sostiene, dovrebbero erogare il credito necessario all’importatore richiedendo o una percentuale dei relativi profitti ovvero il pagamento di importi prefissati determinati in base alle spese di erogazione del credito all’importatore.[49] Inoltre, il credito per le attività industriali, agricole e commerciali dovrebbe essere integralmente gestito da organizzazioni cooperative ed infine, sarebbe auspicabile che lo Stato assicuri crediti individuali senza interessi per venire incontro a particolari casi di difficoltà personali[50].

Merita, peraltro, sviluppare una distinzione all’interno di prestiti ad interesse che subiscono restrizioni differenti in quanto, in riferimento a taluni, si propende per un ambito di applicazione più esteso. L’alternativa meritevole di attenzione si articola nel ribā’ di produzione e nel ribā’ di consumo[51], distinzione adottata per laprima volta da M. al-Daoualibi, in occasione della Conferenza tenutasi a Parigi il 7 luglio 1951, intitolata “La Théorie de l’usure en droit musulman” il quale, sulla base della necessità di distinguere tra interesse nei prestiti di consumo e interesse correlato ad investimenti produttivi, afferma che l’Islam dovrebbe consentire quest’ultimo.

La proibizione si accentrerebbe in particolar modo su quest’ultimo, poiché maggiormente suscettibile di favorire lo sfruttamento dei meno abbienti da parte dei capitalisti. Per quanto concerne il ribā’ di produzione, questo si innesterebbe nelle pratiche di finanziamento che i piccoli risparmiatori sono soliti concedere alle grandi imprese: in tale ipotesi muta radicalmente l’oggetto della tutela, poiché, se nel prestito con interesse per scopi di consumo era il debitore a dover ricevere adeguata protezione dall’ordinamento giuridico, nel finanziamento di attività produttive sarà il creditore a necessitare di adeguate garanzie nei confronti di colui al quale ha concesso il capitale. In questo secondo caso, sarebbe opportuno consentire l’interesse in quanto esso è lo strumento migliore per rendere fruttiferi i risparmi che chi ha concesso il prestito ha accumulato con il proprio lavoro; più precisamente, detto interesse costituirebbe il mezzo per la conservazione del potere di acquisto del denaro, così che esso dovrebbe considerarsi valido o libero (mubah) se non oltrepassa la svalutazione della moneta in periodi di instabilità finanziaria, in tal modo rispettando pienamente il precetto coranico che richiede l’equilibrio di valore nelle transazioni economiche[52]. In tal senso rinveniamo l’opinione di chi ritiene che la proibizione dell’interesse sul denaro prestato a un debitore economicamente forte ne consolidi ulteriormente la sua posizione sul piccolo risparmiatore. Quest’ultimo non potrà dedicarsi ai doveri (zakat[53] e sadaqat[54], ossia, forme di elemosina nei confronti dei poveri) previsti dal Corano nei confronti dei confedeli. In conclusione, possiamo affermare che il prestito usurario viene sempre colpito da nullità assoluta.[55]

La predeterminazione di comportamenti economici, i quali siano rispettosi dell’etica islamica, presenta un ulteriore profilo altamente problematico: molti studiosi, nelle discussioni finalizzate alla costruzione dei relativi modelli, ricorrono al libero ragionamento soggettivo (ra’y), senza prestare la dovuta attenzione alle specifiche metodologie sviluppate originariamente dalla giurisprudenza islamica per la deduzione di norme, principî e regole di condotta dalle radici  del diritto musulmano (usùl al-fiqh). Inoltre, i risultati dell’attività di ricerca mostrano che la distribuzione delle risorse secondo i precetti sciaraitici funzionerebbe in un mondo nel quale gli standards di comportamento suggeriti fossero generalmente osservati, ciò che comporta l’impossibilità di considerare la letteratura economico-giuridica in questo settore come una descrizione fedele della realtà dei paesi islamici.

In particolare, per valutare la fondatezza della critica allo status quo economico nell’Islam, merita considerare la pretesa inidoneità dei meccanismi sviluppati dal diritto musulmano nel campo delle attività non umanitarie; il prestito (qard) nel diritto islamico è stato considerato, difatti, unicamente come strumento di supporto nei confronti di soggetti che versassero in particolare stato di bisogno. Ne consegue che, non esistendo meccanismi adeguati per la concessione di prestiti a fini diversi dagli scopî umanitari, coloro che ne necessitano debbono ricorrere, si è detto, a sotterfugî legali per poterne disporre. Tale situazione deriva, secondo alcuni, dalla mancata promozione di un punto di vista, che si fa risalire allo stesso Profeta Maometto, il quale ha incoraggiato i proprî seguaci a saldare i loro debiti personali nel modo migliore, anche con valori quantitativamente superiori rispetto all’ammontare originario[56].

1.4. Dal riba teorico al dibattito sulla pratica dell’interesse nelle banche islamiche 

Purtroppo, come dice Maxime Rodinson nel suo “Islam e finanza”, non siamo in grado di sapere quale fenomeno commerciale fosse denominato con il termine ribā, pertanto esso ha dato luogo a molte discussioni di carattere interpretativo. È stato asserito che il termine ribā significasse semplicemente “usura”, ovvero interesse a tassi eccessivi per prestiti al consumo, mentre i tassi più moderati per i prestiti di investimento erano leciti. Questa è un interpretazione per così dire modernista, avversata da autorità religiose e sostenitori dell’economia islamica, la quale però è tornata di attualità recentemente (1992), in occasione di un ricorso alla Alta Corte pakistana avverso un pronunciamento della Corte Federale Sciariatica, a parere della quale, con il termine ribā si indicano tutte le forme di interesse proibite dall’Islam. Tuttavia, la Corte Federale Sciariatica ha   evidenziato che, la pratica in uso presso le banche islamiche non è conforme alla legge sciariatica e importanti norme relative al sistema bancario pakistano sono avverse alla legge islamica stessa, e come tali dovrebbero esser abrogate.

La pronuncia dell’Alta Corte circa il ricorso in parola non è nota, tuttavia di fondamentale importanza per il nostro studio sono le motivazioni addotte dalla Corte Federale pakistana, la quale ha stabilito che il significato letterale del termine ribā è “accrescimento” e pertanto esso non determina né il pretendere qualcosa in più, né il dare qualcosa in meno rispetto al capitale. Inoltre, ha affermato che non solo l’usura propriamente detta, ma qualunque interesse preteso sul capitale concesso, ricade entro la nozione di  ribā , ed infine ha stabilito che non sussiste differenza tra i prestiti destinati al consumo e quelli destinati all’investimento produttivo.

Nonostante nell’economia islamica imperi questo divieto, l’Islam riconosce la produttività potenziale del capitale finanziario o della moneta. Ci si potrebbe chiedere se, di questo passo, non si arrivi ad una contraddizione formale. La soluzione sta semplicemente, nel considerare giusta la remunerazione del capitale prestato che abbia svolto effettivamente una funzione produttiva, e come tale si sia trasformato da capitale potenzialmente produttivo a capitale realmente produttivo. In altri termini, il prestito è consentito se all’interesse indipendente dal profitto o dalla perdita ottenuta dall’investimento, si sostituisce un lucro per il prestatore quale risultato di una reale attività economica. Questo è il fondamento teorico del cosiddetto “Sistema dei profitti e delle perdite” o, nella sua sigla inglese “PLS”. Vedremo successivamente, che il sistema contrattualistico e operativo in uso presso le banche islamiche si fonda su tale base.

La letteratura sulla questione del ribā è molto ampia, data la rilevanza che essa presenta nei Paesi musulmani, pertanto si sono sviluppate nel tempo diverse concezioni. Una delle primissime analisi sul problema dell’interesse bancario venne condotta da Mohammad Hatta[57], un autorevole economista, in una serie di articoli pubblicati prima della seconda Guerra Mondiale e nei primi anni ’50. Egli, in uno dei suoi scritti, “Il ruolo della banca nella società”, affronta in termini filosofici il concetto di “rente”, ossia interesse,  individuando il suo diretto corrispettivo nel termine arabo ribā[58]. Il concetto di “rente” viene considerato dalla religione come una pratica haram, cioè come una pratica vietata. Tuttavia, si deve precisare che Hatta pone delle limitazioni: haram è il ribā considerato come “rente al consumo”, il quale deve essere tenuto distinto dal cosiddetto “rente produttivo”. La differenza tra i due è sostanziale non formale. Come affermato precedentemente, il denaro concesso in mutuo è assimilabile ad un capitale vero e proprio, il quale risulta produttivo per natura. Essendo investibile è virtualmente fonte di reddito per lo stesso mutuatario. Il rente non rappresenta nulla di più di un prezzo per avere la possibilità di utilizzare a proprio vantaggio un bene che non è proprio.

Hatta concorda con la teoria in virtù della quale il rente produttivo equivale ai profitti ottenuti dal capitale investito, tuttavia egli aggiunge una condizione: il tasso di interesse non può risultare troppo elevato. A sostegno di questa teoria, Hatta riporta l’esempio di una banca, la Bank Pasar, la quale praticava tassi d’interesse elevatissimi, pari al 40 per cento ogni 40 giorni ovvero pari al 360 per cento annuo. In questo caso, Hatta ravvede l’ipotesi di ribā, nonostante tali capitali venissero impiegati per scopi produttivi. L’autore di cui si discorre propugnava l’istituzione di una banca da parte dei musulmani, come motore fondamentale dello sviluppo dei quei Paesi e vedeva con favore che tale istituto fosse gestito e posseduto dallo Stato. Tutto ciò doveva funzionare sulla base della riscossione e concezione di interessi, dimostrando di non essere contro questa pratica, ma di condannarla solo ed esclusivamente nel caso in cui i tassi siano troppo elevati. Hatta non riusciva a concepire una banca priva di interesse, tanto che smentiva coloro che si ostinavano ad affermare che la banca islamica non lo praticasse. Egli riteneva che gli interessi attivi rappresentassero il mezzo di sostentamento principale della banca, con il quale far fronte ai costi di gestione. Senza questo elemento esplicitamente denominato per quello che in realtà era, le banche islamiche pretendevano dai clienti somme a titolo di “spese amministrative” ma, si badi bene, su base percentuale nell’ordine dell’1,5 per cento mensile. Hatta rivela la farisaicità della pretesa, notando: “ un rimborso calcolato in percentuale sulla somma di denaro data in prestito non è altro che rente, anche se si tratta di farlo passare per costo amministrativo”[59]. Le teorie di Hatta risalgono al periodo tra le due Guerre e sono servite ad ampliare il dibattito in corso nei paesi islamici. Tuttavia si possono registrare dei punti di vista alternativi, tutti espressi da ulama, i quali hanno considerato in maniera del tutto diversa il problema. Possiamo citare diverse opinioni: da H. M. Bustami, secondo il quale qualunque forma di interesse, qualunque aspetto gli si voglia dare per camuffarla è vietata, ad Hasan che, invece, sostiene che l’interesse applicato in ragione non troppo elevata è addirittura indispensabile alla dinamica economica.

Un’opinione interessante si rileva in K. H. Muttaquieu, ex direttore del Consiglio Indonesiano degli ulama: l’attività finanziaria improntata ai principi dell’Islam è perfettamente lecita e meritevole, poiché tali principi vietano l’inutilizzazione della ricchezza donata da Allah all’uomo, il quale deve farla fruttare avendola a disposizione e facendone partecipe la collettività.

L’attività bancaria e finanziaria agisce da catalizzatore dei processi economici, veicolando quello che potremo chiamare “capitale sociale a disposizione di tutti”. Muttaquieu esorta i musulmani ad investire il surplus posseduto, trasformandolo da entità fissa a flusso di circolazione monetaria e finanziaria. Quel che per Muttaquieu, invece,  assimilabile al ribā è lo sfruttamento connesso esplicitamente per mezzo di tassi di interesse troppo elevati.

Piccinelli, sulla scorta di un’interpretazione di alcuni versetti coranici, esorta i dotti ad effettuare un trattamento differenziato circa la considerazione da parte del testo sacro sul ribā, ovvero dei particolari tipi di contratti che portano la possibilità di applicazione dall’interesse nelle operazioni finanziarie. Posto sotto questa luce, “l’accrescimento” viene visto con benevolenza, tanto da considerarlo lecito, qualora sorga da uno scambio o dalla prestazione di un servizio.

Altri autori, al contrario, condannano decisamente tutte le forme di ribā, poiché nel suo primo tipo il ribā al-fadl si verifica solamente quando esiste uno squilibrio nelle controprestazioni.

Tutto ciò porta a far sì che nel diritto musulmano, la preferenza venga accordata a contratti di scambio nei quali la prestazione e la controprestazione siano adempiute contestualmente[60].

A questo punto è possibile definire il ribā nella sua essenza: esso è costituito da qualsiasi beneficio o arricchimento che non rappresenti il corrispettivo esatto di un servizio o di un’attività esercitata dall’uomo. Emerge a questo punto, dalla interpretazione concorde dei passi del Corano e, in particolare della sura II, versetto 275, un parametro essenziale e decisivo per poter arrivare alla determinazione della liceità o meno dei negozi patrimoniali e bancari, e cioè della presenza del rischio commerciale e imprenditoriale, ovvero, per quanto concerne i contratti bilaterali.

In specie, per quanto concerne gli interessi in campo bancario, possiamo affermare che l’obiezione mossa nei confronti del divieto di interesse muove da considerazioni di giustizia. Per la visione giuridica musulmana “un corrispettivo di godimento di un capitale” che venga fissato nel suo ammontare ex ante, indipendentemente dall’effettivo uso da parte del mutuatario non è legale perché si scontra con la funzione sociale del capitale, garantita da un’operazione finanziaria o commerciale equilibrata.

Il principio cardine utile per affermare la liceità o meno del ribā è il seguente: il ribā non può essere definito come qualsiasi forma di lucro iniquo in quanto non derivante da lavoro e dall’attività dell’uomo ovvero che porti in sé conseguenze non conciliabili con i criteri di solidarietà che debbono ispirare i rapporti patrimoniali sia a livello interpersonale sia internazionale. L’Islam non concepisce un’economia svincolata da criteri di valutazione etica che coinvolgano ogni settore dell’agire umano: non sussiste un homo economicus indipendente e distinto dal mu’min, ossia il credente. In questo senso, il divieto di ribā assume un significato diverso, senza dubbio più ampio, divenendo fattore di equilibrio dei rapporti economici, anche nei loro aspetti giuridici e sociali: non è solo una questione di lecito o illecito. È una questione connessa con la filosofia della funzione del capitale messo al servizio della società, ovvero utilizzato per la sua distruzione. Ecco emergere la funzione, ben più ampia di quanto non si possa immaginare considerando il divieto di ribā come divieto di applicazione dell’interesse tout court, di controllo sociale e morale di ogni attività economica di redistribuzione della ricchezza.

Tale concezione islamica ritiene perciò che accumulare capitali attraverso l’applicazione dell’interesse sia niente altro che egoismo, modo di diversione della pubblica ricchezza verso un’oligarchia già detentrice di sostanze che vengono prestate, molto diverso dal modo lecito, più usuale, dell’arricchimento per mezzo del lavoro, dell’attività quotidiana.

1.5. Le soluzioni alla questione del riba 

Arrivati a questo punto bisogna che ci addentriamo nel sistema bancario islamico, o per meglio dire, nelle procedure e nei meccanismi giuridici già sperimentati ed adottati allo scopo di adeguarsi ai dettami della legge islamica. In altre parole, vedremo in che cosa consiste quello sforzo creativo per seguire la “retta via” da parte del credente anche nel campo dell’economia.

In questo senso ci si è mossi in due direzioni: la prima riprendendo dalla dottrina giuridica tradizionale quegli schemi già giudicati leciti e dunque attuati nella pratica, e la seconda direzione, attingendo dalla contrattualistica di derivazione occidentale, purgandola per quanto possibile degli aspetti inaccettabili e quindi non “importabili” ed inseribili nell’ordinamento giuridico islamico.

Per quanto concerne le esperienze già in uso nei Paesi islamici, possiamo affermare che esse si basano su un principio fondamentale, sintetizzabile con le seguenti parole: “La nozione di profitto si contrappone a quella di interesse: esso non è predeterminato e fisso, ma incerto e variabile e può anche essere negativo. Esso viene calcolato ex post in quanto rappresenta in ogni caso il risultato di una attività (al-tigara)  posta in essere. Al tasso di interesse come meccanismo di allocazione delle risorse finanziarie, nel sistema economico islamico viene sostituito, pertanto il tasso di profitto che costituisce la misura reale della crescita effettiva del capitale attraverso il suo impiego e investimento.”

Il sistema creato sulla scorta di questo principio è ben diverso dal sistema delle banche di stampo occidentale. La banca come il cliente sono sottoposti nel loro operare all’eventualità della cattiva riuscita dell’intrapresa economica. A mio avviso si tratta di una differenza sostanziale rispetto all’altro sistema. In esso il prestatore di capitali necessari può disinteressarsi, una volta determinatosi la prestito, della sorte dei fondi, essendo tenuta la controparte in ogni caso alla restituzione del capitale e degli interessi maturati.

Al contrario, nel sistema islamico la banca ha un ruolo più attivo. Attraverso gli strumenti contrattuali, che mi riservo di analizzare in maniera dettagliata nel prossimo capitolo, si attua un particolare tipo di cogestione nella quale entrambi i soggetti possiedono un preminente interesse alla felice riuscita dell’investimento.

Tra gli strumenti contrattuali possiamo evidenziare il contratto di murabaha (vendita a prezzo fisso), quello di bay’ mu’aggal (vendita a rate), il contratto di istisna (contratto di industria per la produzione e la fornitura di un dato prodotto), i quali assieme al leasing, costituiscono i principali strumenti di credito alle imprese. Questi contratti fanno a loro volta parte di un particolare tipo di contratti: strumenti di finanziamento su base reale ovvero di mezzi di anticipazione di beni.

Il fatto che la banca acquisti in anticipo, per conto dell’azienda, il bene di cui essa ha bisogno, sostenendo in questo modo il rischio finanziario, fa sì che l’operazione venga facilmente accettata. Per questo tipo di contratti, vi è una sorta di presunzione relativa di liceità, pertanto il controllo sciariatico risulta più tenue nei loro confronti. I servizi che la banca rende ai clienti non presentano problemi di sorta per quanto riguarda il loro compenso: si tratta di ricompensare il prestatore di un servizio con la sola condizione che questo avvenga dopo, e quindi a compimento dell’opera promessa, non pretendendo la commissione anticipatamente. Naturalmente i contratti più interessanti, data la loro diversità  dagli schemi occidentali a cui siamo abituati, cono quelli che, come dice Piccinelli: “si muovono all’interno di uno schema di partecipazione nei profitti e nelle perdite (Profit-loss sharing) che costituiscono lo strumento “tipico” per attuare la compartecipazione nella gestione e nel rischio commerciale e finanziario di una determinata impresa”.[61]

Per quanto concerne, invece, il modo di reperimento dei fondi necessari alla banca per l’attuazione dei contratti di compartecipazione nelle attività imprenditoriali private, possiamo notare che alla stregua dei fatti si presentano non molto dissimili da quelli in uso presso le banche occidentali. I conti di deposito, i fondi di investimento comuni o individuali ed infine le emissioni di titoli di reddito fisso rappresentano tutti i modi di reperimento dei fondi necessari. È doveroso specificare che anche qui, tuttavia, impera il principio della necessaria corrispondenza tra il risultato reale dell’azione nel campo della finanza ed il lucro che ne è derivato. I depositi a risparmio e i conti correnti non vedono remunerazione alcuna dei fondi depositati, questa viene infatti riservata solo ai cosiddetti “conti e depositi di investimento”.[62]

Alla banca verrà attribuito un riconoscimento, che si concretizza in un compenso per la sua attività di intermediazione.

Per concludere l’analisi degli aspetti generali della teoria e della dottrina, che vengono applicate alla banca islamica, è doveroso compiere un’ ultima considerazione prima di passare, nel prossimo capitolo, ad una analisi più esaustiva delle tecniche contrattuali[63] tipiche del sistema bancario islamico.

Confrontando i due sistemi giuridici operanti nei paesi islamici, ossia shari’a e qanun[64], come nota Piccinelli: “tra il diritto musulmano, il quale, ha il suo fondamento nell’immutabile rivelazione divina e la legislazione emanata da mutevoli organi statali[65]”, emergono dei conflitti che talvolta risultano difficili da comporre.

La banca islamica, come istituzione operante in un campo prettamente terreno, risulta assoggettata alle leggi dell’economia e della finanza, mentre per quanto concerne l’aspetto giuridico, risulta assoggettata alla legislazione dello Stato nel quale è sita la sede.[66]

È doveroso precisare, che la necessità di aderire agli schemi che vengono impartiti dalla shari’a, si fa più pressante in Paesi che osservano la suddetta legge con maggior rigore, mentre ad esempio il Codice Civile egiziano lascia più spazio all’autonomia contrattuale e alla creatività giuridica che si rispecchia nei singoli istituti.

Alcuni autori, come abbiamo già visto, giudicano “veramente islamici” esclusivamente quei contratti che prevedono la partecipazione ai profitti e alle perdite. In questo modo viene posta in evidenza una visione più restrittiva, considerando poco ispirati ai principi sciariatici tutti quei contratti bancari che non includono un rischio.[67]

Come nota Mohammed Ariff: “naturalmente, l’attività bancaria svolta secondo i principi islamici comporta rischi maggiori, ma è proprio la condivisione dei rischi che giustifica, all’interno del sistema islamico, la partecipazione ai profitti e quindi la riscossione di un utile sul capitale impiegato…”.

Nonostante vi siano stati diversi tentativi per giustificare la preferenza ad una tipologia contrattuale piuttosto che un’altra, il giudizio unanime della maggioranza degli interpreti sostiene che non vi sia alcuna differenza tra ribā ed interesse, e che sia dal Corano sia da altre fonti risulti inequivocabilmente che qualora si verifichi qualsiasi tipo di pagamento supplementare a quanto è stato prestato si sia in presenza di ribā.

2. Gharar

2.1. Definizione di gharar

La preoccupazione di proteggere gli esseri umani dalla loro stessa follia e dalla stravaganza è una caratteristica importante del Corano, il quale ha, di conseguenza, vietato i giochi d’azzardo e i giochi comportanti un qualsiasi rischio.[68] La shari’a ha, pertanto, stabilito che gli interessi ottenuti dalla vendita rappresentano un ingiustificato arricchimento, e come tali sono vietati. Questa politica esclude ogni elemento di incertezza o di rischio puramente speculativo.[69] Questo tipo di rischio, infatti, è stato ritenuto inaccettabile e come tale equivale alla speculazione a causa della sua intrinseca incertezza.

La maggior parte dei casi di gharar, portati a conoscenza dei primi giuristi musulmani sono tratti da contratti di vendita, siano essi reali o ipotetici. Questo perché il contratto di vendita è considerato dalla legge coranica, come il contratto tipico, quello su cui gli altri contratti sono modellati.  Al fine di evitare di incorrere nel divieto di gharar, le parti contraenti devono accertarsi entrambe che sia il soggetto contraente sia i prezzi di vendita sussistano,inoltre è necessario verificare che i beni oggetto di scambio possano essere consegnati[70], è doveroso specificare le caratteristiche, ed infine, è importante definire la data della consegna futura.

La parola araba gharar è priva di una precisa definizione universalmente accettata, tuttavia il suo significato generico corrisponde all’incertezza non qualificata e non quantificata, ovvero può assumere il significato di caso, frode, azzardo o rischio.

I dottori della legge islamica attribuiscono al vocabolo il significato di incertezza e vi ricomprendono quella parte di rischio che non è prevedibile e non ha probabilità misurabili, come ad esempio la vendita di una cosa che non è disponibile o la vendita condizionata all’accadimento di eventi casuali.

Nel gharar si identifica anche qualsiasi sotterfugio, frodi nascoste all’interno di un accordo o transazione economica, tuttavia solo quegli accordi che presentano come elemento predominante il rischio o l’incertezza vengono vietati dal Corano e di conseguenza alcuni aspetti sono quindi accettabili.[71]

Le definizioni circa il termine gharar, che ci vengono fornite dagli studiosi, sono generalmente incomplete e non ci danno una definizione esaustiva. Pertanto, ritengo sia doveroso far riferimento alle diverse definizioni degli autori individuati da N. A. SALELH, nell’opera “Unlawful gain and legitimate profit in Islamic law”. Egli fa riferimento in particolar modo a IBN QAYYIM AL-JAWZIYYA, il quale descrive il divieto di gharar , come l’oggetto che il venditore non è in grado di consegnare al compratore, poiché non si ha la certezza che il bene esista veramente[72]. Tuttavia, è giusto dire che l’autore era interessato solo a contestare coloro che avevano scambiato il gharar per la non-esistenza della materia, piuttosto che configurarlo come rischio di incertezza che getta un’ombra sul bene stesso.[73]

AL-QARAFI ha equiparato il gharar ad un oggetto la cui materialità è incontrollata, come un uccello in volo o un pesce nell’acqua ( beni di cui non si ha certezza di possesso). Ma anche qui la definizione è stata una risposta a coloro che avevano confuso il gharar con l’ignoto (majhul). Il termine majhul viene a sua volta descritto dallo stesso autore come uno oggetto esistente, le cui caratteristiche non sono note, come ad esempio la vendita di ciò che è nascosto in una manica.

Un altro autore[74] ha adottato, più o meno, la definizione che Furuq da di gharar, ma ha aggiunto l’ elemento essenziale della mancanza di conoscenza (jahl), dicendo che lo jahl realizza gharar nelle seguenti circostanze: quando non sia possibile sapere se l’oggetto esiste o, qualora si abbia certezza della sua esistenza, se possa essere consegnato al compratore, o quando la mancanza di conoscenza riguardi l’identificazione del genere o della specie a cui l’oggetto appartiene oppure sia relativa alle sue caratteristiche , al suo quantum, alla sua identità, o alle sue condizioni. [75]

IBN JUZAY[76], evidentemente consapevole della difficoltà di definire  il termine gharar, ha dato un elenco di dieci ipotesi che costituiscono, a suo avviso, un gharar proibito. A titolo esemplificativo, riporto il punto cardine del suo elenco: l’ipotesi in cui ci si trovi nella difficoltà di mettere l’acquirente in possesso del bene oggetto della transazione, come ad esempio la vendita di animali randagi o la vendita di cuccioli non ancora nati. [77]

Dall’analisi degli autori contemporanei, si evince che essi hanno effettuato un’analisi del gharar dal punto di vista del singolo oggetto e hanno trascurato gli effetti che esso produce sul prezzo del bene. Tuttavia, SALELH esamina il suddetto divieto sia dal punto di vista dell’oggetto, sia dal punto di vista degli effetti che produce sul prezzo.

Sulla base delle definizioni di cui sopra, il rispetto delle seguenti tre regole dovrebbe, in linea di principio, evitare il gharar in qualsiasi transazione: a) si dovrebbe conoscere l’esistenza dei controvalori scambiati; b) si dovrebbe essere a conoscenza delle caratteristiche dei controvalori scambiati, della specie del bene oggetto di vendita, della quantità dei beni da acquistare e della data in cui avverrà la prestazione futura; c) il controllo delle parti circa i controvalori scambiati deve essere effettivo.[78]

Infine, necessita richiamare l’ottima traduzione del termine arabo gharar che è stata pubblicata dal professore MUSTAFÀ AL-ZARQUA: “ Gharar è la vendita di beni non ancora esistenti o le cui caratteristiche sono incerte, le condizioni in cui viene effettuata la transazione sono la causa natura rendendola simile al gioco d’azzardo”.[79]

2.2. Le fonti del divieto di gharar

Il divieto di gharar trova la sua giustificazione in primis nel Corano, tuttavia una miglior esplicazione del divieto ci viene fornita dagli Ahàdíth del Profeta.

Il Corano correla strettamente il divieto di gharar a quello di maysir[80], in quanto riferisce la sura V, versetto 90, sia al divieto di rischio e incertezza, sia al divieto dell’azzardo.

“Il gioco d’azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono immonde opere di Satana. Evitatele affinché possiate prosperare…” (Corano sura 5 ,versetto 90). Il Corano fa espressamente riferimento al divieto del gioco d’azzardo, in quanto esso non da certezza sull’esito della giocata e non da sicurezza circa la vincita.  Il testo sacro riconduce ogni gioco alle lotterie, le quali prevedono la vincita di premi collegati all’estrazione di numeri. Si richiama, in questo senso il divieto di aleatorietà[81].

Come già specificato, è grazie agli Ahàdíth del Profeta, che possiamo comprendere al meglio il divieto di gharar. Tuttavia, si evidenzia che Maometto, non si riferisce al gioco d’azzardo, bensì al divieto applicato alle transazioni commerciali.

Il Profeta, infatti, ha vietato l’acquisto di animali non ancora nati perché ancora nel ventre materno, ha vietato la vendita di latte della mammella in quanto non misurabile, la vendita di frutti non ancora maturi, la vendita di uova non fecondate, l’acquisto dei bottini di guerra prima della distribuzione, la distribuzione dell’elemosina prima che essa venga recepita[82].

L’incertezza è l’elemento dominante nel divieto in esame, il quale può essere spiegato anche attraverso il problema dell’asimmetria informativa che ha come oggetto la non conoscenza da parte di uno dei contraenti degli aspetti riguardanti il genere, la specie, la quantità e le caratteristiche del bene oggetto del negozio ovvero i termini di pagamento, la consegna del bene e la sua reale esistenza.

In sostanza, il divieto di gharar, così come spiegato da Maometto, previene il mancato adempimento di una delle due parti contraenti: il venditore[83].

In conclusione, è doveroso evidenziare che il divieto di gharar assume due connotazioni differenti. La prima, è quella fornitaci dal Corano, il quale correla il divieto di gharar all’incertezza del gioco d’azzardo; la seconda, è quella fornitaci da Maometto, il quale correla il sopracitato divieto alle transazioni commerciali. Pertanto, è possibile affermare che grazie agli Hàdíth il divieto di gharar subisce un’evoluzione, come dall’altro canto, è accaduto al divieto di ribā.

3. Maisir 

3.1. Definizione di maisir 

Il termine maysir era originariamente correlato ad un antico gioco d’azzardo arabo, il quale prevedeva l’uso di frecce senza punta e senza piume per le scommesse sui cammelli macellati e squartati.[84]

Il divieto di maysir nasce dal presupposto che un apparente accordo tra le parti, circa la pattuizione del premio, è in realtà il risultato di un incentivo immorale, fornito da false speranze, per le parti di ottenere indebitamente profitto dal contratto.[85]

Ci si riferisce al fatto che le parti avessero scarsa considerazione del rischio di perdita, ma d’altro canto, non si ritiene che le parti avrebbero partecipato al gioco d’azzardo in attesa di perdere. Vi era, pertanto, la speranza per le parti di poter trarre profitto.

I giuristi hanno esteso questo divieto ad ogni forma di speculazione e ad ogni contratto aleatorio, richiamando in tal senso il divieto di gharar. Questi divieti sono strettamente collegati tra loro: dove ci sono elementi di gharar, solitamente sono presenti elementi di maysir.

Il divieto è stato esteso anche a quei contratti in cui gli obblighi e vantaggi di una delle parti non sono completamente definiti al momento in cui il contratto è stipulato.

Nonostante l’imprecisione del Corano circa il concetto, la qualificazione giuridica del maysir era inattaccabile. In seguito, è stato lasciato ai giuristi il compito di applicare il termine a particolari tipi di gioco d’azzardo[86]. Essi hanno fatto questo, estendendo ed estrapolando il divieto coranico per applicarlo completamente ad ogni tipo di assunzione di rischi e ad ogni tipo di gioco d’azzardo, sulla base di alcune autorevoli dichiarazioni attribuite al Profeta.

I giuristi sono giunti alla conclusione che se una determinata attività potrebbe essere dichiarata o in qualche modo definita come qimār[87], questa deve esser chiaramente considerata illegale. I principi morali su cui si basa l’obiezione giuridica al gioco d’azzardo consta nel fatto che, anche se il gioco d’azzardo non costituisse frode, il vincitore non guadagna quello che vince e il perdente perde per puro caso[88].

Il gioco d’azzardo è stato definito come una transazione in cui l’atto di rendere qualcuno proprietario di una ricchezza (o di un bene di valore) è subordinata ad una condizione che ha entrambi i  lati uguali, cioè il cui esito è incerto. Di conseguenza, ci sono due possibilità: ottenere profitto ovvero sofferenze per la totale perdita. Pertanto, possiamo dire che il gioco d’azzardo è un’attività in cui i giocatori trasferiscono volontariamente denaro o qualche altro oggetto di valore, tuttavia questa transazione è subordinata all’esito di un evento futuro incerto.[89]
Attualmente, potremo collocare il maysir nei contratti di assicurazione, quando, il titolare della polizza contribuisce ad una piccola quantità di premi nella speranza di ottenere una somma maggiore, il contraente perde il denaro pagato per il premio quando l’evento che è stato assicurato non si verifica.

3.2. Giustificazione del divieto di maisir nelle fonti

Circa l’analisi delle fonti è doveroso concentrarsi sulla sura II, versetto 219, il quale suggerisce che qualora chiedano del vino e del gioco d’azzardo, i fedeli devono rispondere che in entrambi i casi c’è un grande peccato e qualche vantaggio per gli uomini, ma in entrambi i casi il peccato è maggiore del beneficio.[90]

“O voi che credete! Non accostatevi all’orazione se siete ebbri  finché non siate in grado di capire quello che dite; e neppure se siete in stato di impurità finché non abbiate fatto la lavanda (a meno che non siate in viaggio). Se siete malati o in viaggio, o se uscite da una latrina, o avete avuto rapporto con le donne e non trovate acqua, fate allora la lustrazione pulverale con terra pulita, con cui sfregherete il viso e le mani. In verità Allah è indulgente, perdonatore.”[91]

Con questo versetto si delinea la fase intermedia della proibizione del consumo di bevande alcoliche nell’Islàm. La prima fase, nota come fase della disapprovazione viene celebrata con la sura II, versetto 219 , la fase intermedia si individua nella sura IV, versetto 43, ed infine,  per l’ultima fase, denominata fase del divieto assoluto, si deve fare riferimento ai versetti 90 e 91, contenuti nella sura V.

Il versetto 90 sancisce: “O voi che credete, in verità il vino, il gioco d’azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie, sono immonde opere di Satana. Evitatele, affinché possiate prosperare.” Come affermato pocanzi, il versetto 90 conclude la rivelazione coranica a proposito degli alcoolici. Il versetto 91, della medesima sura, ribadisce il concetto espresso nel versetto 90, affermando che con il vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra i credenti, e l’unico suo scopo è quello di indurli al peccato[92].

 

 

 


[1] G. M. Piccinelli,  Banche islamiche in contesto non islamico. Materiali e strumenti giuridici, Istituto per l’Oriente, Roma 1996, p. 17 .
Il Corano è la fonte per eccellenza. È il libro che contiene l’insieme delle rivelazioni che il Profeta Muhammad ritenne d’aver ricevuto testualmente in arabo da Dio, attraverso un messaggero celeste, poi identificato nell’arcangelo Gabriele. Secondo quanto ritiene la dogmatica  musulmana il Corano è la parola testuale di Dio, donde la formula che precede ogni citazione coranica: “ Dio Altissimo dice”.
[2] H. Algabid,  Les banques islamiques, Parigi, p. 32
[3] L. Nonne,  Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. secondo. 
[4] L. Nonne,  Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. secondo.
[5]Con il termine Ahadith si indicano i racconti, le narrazioni, ma ha un significato molto più importante perché è parte costitutiva della cosiddetta Sunna, la seconda fonte della Legge islamica ( shari’a ) dopo lo stesso Corano.
[6]Il termine si fa derivare dal verbo nasa’a, nel senso di posporre, rinviare o attendere (F. Al-Omar – M.  Abdel-Haq, Islamic Banking. Theory, Practice & Challenges, cit, p. 8).
[7] M. Abu al-Saud, Islamic View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 79. M. Muslehuddin, Banking and Islamic Law, cit., p. 102, traduce letteralmente il termine nasi’ah come “dilazione concessa al debitore”.
[8] L. Nonne,  Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. secondo.
[9] La costruzione giuridica in materia di ribā’ è, difatti, principalmente basata sugli Ahàdìth del Profeta. Maometto (che nella sua forma originale araba significa “il grandemente lodato”) nacque, secondo alcune fonti tradizionali, il 26 aprile 570 a Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabī I dell’anno 11 dell’Egira (equivalente all’8 giugno del 632) a Medina e ivi fu sepolto, all’interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c’è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa di tradizionisti.La sua nascita sarebbe stata segnata da eventi straordinari (teofanici), come una immensa luce che avrebbe brillato da Oriente ad Occidente. Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh di Mecca, Maometto era l’unico figlio di ‘Abd Allāh b. ‘Abd al-Muṭṭalib ibn Hāshim e di Āmina bint Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch’esso appartenente ai B. Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una Rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di Dio, unico e indivisibile. In effetti il concetto di monoteismo era diffuso in Arabia da tempi più antichi e il nome Allah (principale nome di Dio nell’Islam, significa semplicemente “Iddio”. Gli abitanti dell’Arabia peninsulare e di Mecca – salvo pochi cristiani e zoroastriani e un assai più consistente numero di ebrei – erano per lo più dediti a culti politeistici e adoravano un gran numero di idoli. Questi dèi erano venerati anche in occasione di feste, per lo più abbinate a pellegrinaggi (in arabo: mawsim). Particolarmente rilevante era il pellegrinaggio panarabo, detto hajj, che si svolgeva nel mese lunare di Dhu l-Hijja (“Quello del Pellegrinaggio”). In tale occasione molti devoti arrivavano nei pressi della città, nella zona di Mina, Muzdalifa e di ‘Arafa. Gli abitanti di Mecca avevano anche un loro proprio pellegrinaggio urbano (la cosiddetta umra) che svolgevano nel mese di rajab in onore del dio tribale Hubal e delle altre divinità panarabe, graziosamente ospitate dai Quraysh all’interno del santuario meccano della Ka’ba. Maometto, per la tradizione islamica, era solito ritirarsi a meditare in una grotta sul monte Hira vicino Mecca. Secondo tale tradizione, una notte, intorno all’anno 610, durante il mese di Ramadan, all’età di circa quarant’anni, gli apparve l’arcangelo Gabriele (in arabo Jibrīl o Jabrā’īl, ossia “potenza di Dio”: da “jabr”, potenza, e “Allah”, Dio) che lo esortò a diventare Messaggero (rasul) di Allah con le seguenti parole: «  Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato,  ha creato l’uomo da un grumo di sangue! Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo,  Colui che ha insegnato l’uso del calamo,  ha insegnato all’uomo quello che non sapeva » Turbato da un’esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnūn, “impazzito”, significa letteralmente “catturato dai jinn“) tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore. Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi che gli parlavano. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e nel girarsi vide Gabriele sovrastare con le sue ali immense l’intero orizzonte (per quel “gigantismo” che caratterizza le “realtà angeliche”, anche in contesti diversi da quello islamico) e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo messaggero. Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che alcuni indicano come cristiano ma che, più verosimilmente, era uno di quei monoteisti arabi (ḥanīf) che non si riferivano tuttavia a una specifica struttura religiosa organizzata. Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero seguito (fatra), Gabriele tornò di nuovo a parlargli per trasmettergli altri versetti e questo proseguì per 23 anni, fino alla morte nel 632 di Maometto. Al contrario di una “utile” tradizione che vorrebbe Maometto “analfabeta” (così da rendere del tutto impossibile l’accusa che il Corano fosse una sua personale elaborazione poetica), il profeta dell’Islam era uomo tutt’altro che ignorante, vuoi per la sua professione di commerciante che l’aveva portato in contatto con altre lingue e altre culture, vuoi per alcuni episodi della sua stessa vita (come una sua correzione e la sua firma, secondo una tradizione riportata da Tabari, apposte nel Trattato di Ḥudaybiyya). L’equivoco deriva dall’espressione a lui riferita di al-Nabī al-ummī che può voler dire in effetti “il profeta ignorante” ma anche, e più verosimilmente, “il profeta della comunità (araba)” o “il profeta di una cultura non basata su testi sacri scritti”. Peraltro a Istanbul, presso l’antica residenza dei sultani ottomani del Topkapi, è conservato (ed è tuttora oggetto di venerazione) una lettera autografa attribuitagli nella quale intima ai cristiani copti di convertirsi all’Islam. Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Gibrīl, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse a Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr (destinato a succedergli come califfo, guida della comunità islamica che si fondò con lenta ma sicura progressione malgrado l’assenza di precise indicazioni scritte e orali in merito) e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti “Dieci Benedetti” . La Rivelazione da lui espressa dunque – raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell’Islam – dimostrò la validità del detto evangelico per cui “nessuno è profeta in patria”. Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ‘Uthmān b. ‘Affān a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thābit, segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo Sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayat). Nel 619, l'”anno del dolore”, morirono tanto suo zio Abu Talib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l’amata Khadìja. Fu solo dopo ripetute insistenze che Maometto contrasse nuove nozze, tra cui quelle con Aisha bt. Abi Bakr, figlia del suo più intimo amico e collaboratore, Abu Bakr. L’ostilità dei suoi concittadini tentò di esprimersi con un prolungato boicottaggio nei confronti di Maometto e del suo clan, con il divieto di intrattenere con costoro rapporti di tipo economico commerciale, i troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto. Nel 622 il crescente malumore dei Quraysh nel veder danneggiati i propri interessi – a causa dell’inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe radicato con gli altri arabi politeisti (che con loro proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della umra del mese di rajab) – lo indusse a rifugiarsi con la sua settantina di correligionari, a Yathrib, duecento miglia più a nord di Mecca, che mutò presto il proprio nome in al-Madīnat al-Nabī, “la Città del Profeta” (Medina). Il 622, l’anno dell’Egira (emigrazione), divenne poi sotto il califfo ‘Omar ibn al-Khattàb il primo anno del calendario islamico, utile alla tenuta dei registri fiscali e dell’amministrazione in genere. nizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò un Patto (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo Ṣaḥīfa) che fu accettato da tutte le componenti della città-oasi e che vide la nascita della Umma, la prima Comunità politica di credenti. Nello stesso tempo, con i suoi seguaci, condusse attacchi contro le carovane dei Meccani e respinse i loro contrattacchi che tendevano a metter fine alle azioni ostili che i musulmani portavano contro le loro carovane. Maometto, nel corso di quel confronto armato che portò alla prima vittoria di Badr, alla disfatta di Uhud e alla finale vittoria strategica di Medina (Battaglia del Fossato) contro le tribù arabe politeiste di Mecca e i loro alleati, espulse tutti gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma di violazione del Patto di Medina e di tradimento dei musulmani. In occasione dei due primi fatti d’armi furono esiliate le tribù ebraiche dei Banū Qaynuqā e i Banū Naḍīr, invece dopo la vittoria del Fossato (Yawm khandaq), gli islamici decapitarono circa 700 uomini ebrei della tribù Banu Qurayza Banū che si erano arresi ai musulmani dopo 25 giorni di assedio, mentre le donne e i bambini furono venduti come schiavi sui mercati d’uomini di Siria, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene. Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare su Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a Hunayn contro l’alleanza che s’imperniava sulla tribù dei Banu Hawazin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabūk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche. Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Grande Pellegrinaggio detto anche il “Pellegrinaggio dell’Addio”, senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma.
[10] “Scambiate oro per oro, argento per argento, grano per grano, orzo per orzo, datteri per datteri, sale per sale, misura per misura e di mano in mano. Se i beni sono di genere differente, allora scambiateli senza alcun limite, purché ciò sia effettuato tramite una transazione di mano in mano” F. E. Vogel, The Islamic Law of Finance, cit., p. 73.
[11] I beni a cui si fa’riferimento sono i beni sopracitati, quali oro, argento, grano, orzo, datteri, sale.
[12] L. Nonne,  Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. secondo.
[13] L. Nonne, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. secondo.
[14] L. Nonne, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. secondo.
[15] G. M. Piccinelli, Banche islamiche in contesto non islamico, cit., pag. 24, in particolare, nell’individuare un’analogia tra ribā’ e ingiustificato arricchimento, sottolinea come il primo “assurg[a] a elemento di valutazione etico-sociale e di riequilibrio delle situazioni negoziali squilibrate”.
[16] Per un analisi  più esaustiva si rimanda alla nota n°49 de “Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto” di L. Nonne, par. secondo.
[17] M. Abu al-Saud, Islamic View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 81
[18]  E’ doveroso specificare che la numerazione delle sure  non è cronologico, bensì in relazione alla loro lunghezza.
[19] Mi riservo di esplicitare la sura II, versetto 275 in ultima analisi.
[20] “…perché praticano l’usura – cosa che era loro vietata – e divorano beni altrui. A quelli di loro che sono miscredenti, abbiamo preparato un castigo atroce.”, sura IV, versetto 161, Corano.
[21] Ci si riferisce ai versetti 131 e 132 della sura III, dedicata alla famiglia di Imran.
[22] Il Messaggero a cui allude il Corano è Maometto.
[23] H. Algabid, Les banques islamiques, pag. 37.
[24] In questi versi notiamo come sia netta e assoluta la condanna dell’interesse sul denaro, dell’usura, della speculazione finanziaria sull’oro e sulle valute.
[25] Si fa riferimento ai versetti 277 – 281.
[26] Per completezza riportiamo i versetti 277 – 281:
  • versetto 277: “In verità coloro che avranno creduto e avranno compiuto il bene, avranno assolto l’orazione e versato la decima, avranno la loro ricompensa presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno afflitti.”
  • versetto 278: “O voi che credete, temete Allah e rinunciate ai profitti dell’ usura se siete credenti.”
  • versetto 279: “Se non lo farete vi è dichiarata guerra da parte di Allah e del Suo Messaggero; se vi pentirete, conserverete il vostro patrimonio. Non fate torto e non subirete torto.”
  • versetto 280: “Chi è nelle difficoltà, abbia una dilazione fino a che si risollevi. Ma è meglio per voi se rimetterete il debito, se solo lo sapeste!”
  • versetto 281: “E temete il giorno in cui sarete ricondotti verso Allah. Allora ogni anima avrà quello che si sarà guadagnato. Nessuno subirà un torto.”
[27] Con il termine jahiliyya si indica il prestito ad interesse, che veniva praticato durante il periodo preislamico.
[28] F. Castro, “Il modello islamico”, pag. 15 e ss.
Per rigore si precisa che con il termine Sunna si indica anche il comportamento dei Compagni del Profeta e delle personalità delle prime generazioni dell’Islàm. Fonti di cognizione della Sunna sono i racconti o hadìth, i quali possono essere classificati nel seguente modo:
  • sahìh: narrazione esatta, i racconti sono perfetti e non vi è nessun anello mancante nella catena dei trasmettitori,
  • hasan: narrazione di perfezione minore rispetto alla precedente, ma con valido carattere normativo,
  • da’if: narrazione debole, inferma, non può essere addotta a scopo puramente edificatorio, ma alla quale non può essere riconosciuto carattere normativo.
[29] Per esempio Rida disse: “Il divieto di vendita delle due forme di denaro per eccellenza ( oro e argento) e dei prodotti alimentari di base, a meno che non si tratti di consegna immediata dei controvalori,  non ci da né una spiegazione del riba, che è proibito nel Corano, né ci esplica la restrizione del riba per vendite.”
[30] I beni a cui si fa’riferimento sono i beni sopracitati, quali oro, argento, grano, orzo, datteri, sale.
[31] Per completezza si specifica, che le scuole di giuristi si sono divise, per diversi secoli, sulla base della collocazione geografica: scuola di Medina, di Mecca, di Kufa, di Basra. In esse si riunivano musulmani sunniti e non, accomunati dal fine di elaborare dottrine giuridiche. In un secondo momento i non sunniti organizzarono scuole separate, tuttora sopravviventi: la scuola hanafita, la scuola medinese, la scuola shafita e la scuola hanbalita.
[32] Vedi nota n° 33.
[33] Vedi nota n° 32.
[34] I. Karich, Le système financier islamique de la religion à la banque, pag. 49.
36] Ovviamente si fa riferimento, in questa sede, all’oro o all’argento, in quanto questi venivano utilizzati come moneta di scambio.
[37] Vedi nota n° 32.
[38] Sulla identificazione di un possibile ruolo in termini di strumento di estensione analogica, che la giustificazione razionale (hikma) del divieto di prestito ad interesse può svolgere, si è soffermato lo studio di A. Saeed, Islamic Banking and Interest. A Study of the Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, cit., p. 35 s., il quale fa notare come, utilizzando il solo strumento della causa efficiente (illa), qualunque transazione che comporti un incremento oltre e al di sopra del capitale, sia per ciò solo da considerare proibita come ribā’, mentre, nel caso venga data preminenza alla giustificazione razionale del divieto – da intendersi come l’esistenza di una specifica situazione di ingiustizia relativa ad una particolare transazione di prestito –, allora non può considerarsi proibito a tale titolo ogni contratto che contempli un incremento siffatto, ma solo quelli che implichino un’ingiustizia a danno di una delle parti. L’assenza di un’enfasi sugli aspetti etici del divieto nella discussione giuridica in tema di ribā’ viene stigmatizzata in senso negativo, poiché il privilegiare l’aspetto legalistico in confronto alle conseguenze etiche del medesimo condurrebbe a configurare un precetto sciaraitico privo di significato. Per un’analisi più esaustiva si rimanda a L. Nonne, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, nota 50, par. terzo.
[39] Si precisa che, se un rischio moderato giustifica l’eccesso nel rapporto di scambio tra le prestazioni, un eccesso troppo intenso o troppo lieve determina il divieto di ribā’, pertanto possiamo affermare, che quest’ultimo svolge la funzione di regolatore e moderatore dei rischi degli operatori del mercato.
[40] L. Nonne, , Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. terzo.
[41] I due Codici a cui si fa’ riferimento, come, peraltro, il Codice siriano, sono accomunati dalla recezione del modello di codificazione civile predisposto da al-Sanhuri. L’idea sanhuriana di integrare il diritto europeo moderno con il diritto musulmano ha consentito la coesistenza di norme talora estranee al primo e talora sconosciute al secondo. Si precisa che il codice civile egiziano consente il pagamento degli interessi legali di mora e nello stesso tempo, stabilisce il limite massimo che le parti possono convenzionalmente applicare nei loro rapporti. Di singolare importanza in questo senso, è l’intervento dell’Alta Corte Costituzionale Egiziana ( sentenza 20/1985), attraverso la quale, si diede risposta al quesito posto dal Rettore dell’Università islamica al-Azahr circa la legittimità costituzionale dell’ art. 226 del Codice Civile. L’Alta Corte respinse la questione in base al principio per cui la legge non dispone che per l’avvenire.
[42] Per una migliore comprensione si rimanda al saggio di L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. terzo, in nota 56.
[43] Per una esaustiva trattazione si rimanda a L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par terzo, in nota 60.
[44] L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto,par terzo.
[45] L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. terzo.
[46] L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. terzo.
[48] Inoltre, ulteriori problemi sono: la differenza di tassazione nei prestiti ad interesse, laddove questo può essere dedotto dall’imponibile in quanto costituisce un costo per l’ottenimento del credito, e quella relativa ai profitti ritraibili dal modello partecipativo, i quali sono suddivisi tra banca ed imprenditore nell’importo residuo a seguito della tassazione; il mancato compiuto sviluppo di strumenti per la collocazione di fondi a breve o a brevissimo termine, al di fuori dei mercati monetari internazionali basati sull’interesse; l’assenza di un prestatore di ultima istanza per le banche islamiche, le quali non possono ricorrere alle banche centrali convenzionali in quanto governate dalla logica dell’interesse.
Per una più esaustiva comprensione si rimanda a L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, in nota 74, par. terzo.
[49] M. Abu al-Saud, Islamic View of Riba (Usury and Interest), cit., p. 92.
[50] L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par. terzo.
[52] L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, par quarto.
[53] Consiste in una tassa prelevata dai patrimoni più consistenti dei musulmani, il cui pagamento costituisce un dovere religioso. F. Al-Omar – M. Abdel-Haq, Islamic Banking. Theory, Practice & Challenges, cit., p. 6 s., precisa che il prelievo delle somme a titolo di zakat costituisce per le persone facoltose uno strumento di purificazione della loro ricchezza e delle loro anime, non effettuandosi, peraltro, al di sotto di un determinato limite di esenzione, individuato, insieme alla percentuale dovuta, dalla Sharī ۚa (il tasso è pari al 2,5 percento del valore complessivo di capitale e profitti, al netto dei debiti non coperti e della svalutazione, mentre in agricoltura esso varia dal 5 al 10 percento, a seconda del tipo di irrigazione posta in essere). La distribuzione di quanto raccolto viene poi effettuata secondo modalità organizzative di carattere collettivo, a conferma del rilievo pubblico che questa pratica assume. Per completezza si riportano i versi del Corano, sura IX, versetto 60: “Il frutto delle decime e delle elemosine appartiene ai poveri, ai bisognosi, e agli incaricati di raccoglierle, e a quelli di cui ci siam conciliati il cuore, e così anche per riscattar gli schiavi e i debitori, e per la lotta sulla via di Dio e pel viandante”. E sempre in relazione alle elemosine, alla domanda su quanto si dovesse dare in elemosina, il Corano risponde laconicamente: “ Donate il superfluo” ( sura II, versetto 219).
[54] É sostanzialmente un’elemosina volontaria. Secondo quanto appreso da A. Saeed, in  Islamic Banking and Interest. A Study of the Prohibition of Riba and its Contemporary Interpretation, nella terminologia coranica zakat e sadaqat venivano utilizzati come sinonimi, tuttavia il diritto islamico ha successivamente operato una distinzione tra i medesimi restringendo il significato del primo al versamento obbligatorio e riservando unicamente al secondo una caratterizzazione in termini di volontarietà.
[55] Si veda L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, nota 84  par. terzo.
[56] L. NONNE, Il prestito ad interesse nel diritto islamico tra solidarietà e profitto, cit, par. terzo.
[57] Mohammad Hatta (12 agosto 1902 – 14 marzo 1980) è nato a Bukittinggi, West Sumatra, Indie Orientali Olandesi (oggi Indonesia). E ‘stato primo vice presidente dell’Indonesia, più tardi gli è stata attribuita anche la carica di primo ministro del Paese. Conosciuto come “Il Proclamator”, lui e un certo numero di indonesiani, tra cui il primo presidente dell’Indonesia, Sukarno, lottò per l’indipendenza dell’Indonesia dagli olandesi. Nonostante i suoi sforzi per ottenere l’indipendenza indonesiana, ha studiato in Olanda dal 1921 fino al 1932. Mohammad Hatta è spesso ricordato come Bung Hatta ( ‘Bung’ è un titolo affettuoso utilizzati per affrontare i colleghi, conosciuti agli inizi del 1900 ed è ancora usato da indonesiani).
[58] Egli ritiene che il termine “rente”, al pari del termine “ribā, indichi un’elevata percentuale di denaro, da restituirsi in sovreppiù dopo aver goduto di un prestito al consumo. Per Hatta, il sovrappiù, se elevato nel suo ammontare, ha il potere di privare l’individuo della sua libertà, e pertanto lo denomina “mudharat”, ossia una cosa malvagia.
[59] Mohammad Hatta, Bank dan rente, ( La banca e l’interesse), in Bebereqa Fasd Ekonomi, pag. 203-209 cit. in AA. VV. “Islam e finanza”.
[60] In particolar modo, si fa riferimento all’ipotesi in cui i beni oggetto dello scambio siano mutevoli, nella qualità e nel valore, tutto ciò al fine di evitare che una delle parti possa, attraverso illecita speculazione, trarre beneficio che non sia proporzionato, equo e giustificato in relazione sia all’attività posta in essere sia allo scopo che si intende realizzare attraverso l’attività stessa. La regola che sta a fondamento di questa attenzione al sinallagma è ricavabile da alcuni hadith del Profeta: “ l’oro per l’oro, l’argento per l’argento, l’orzo per l’orzo e il sale per il sale”, cui si aggiunge “senza differenza di qualità e quantità e da mano in mano”. Si vuole evitare che sorga il pericolo della mancata specularità tra le prestazioni.
[61] Per completezza si precisa che i contratti possono essere anche NO PROFIT- LOSS SHARING, anche se per una trattazione più esaustiva si rimanda al capitolo successivo, paragrafo
[62] Si precisa che una volta portate le relative disponibilità in fondi di investimento godranno di una partecipazione nei profitti annui.
[63] Si tratta di strumenti dati per configurare un modello di banca più rispondente alla esigenza di coniugare shari’a ed economia.
[64] Qanun (in arabo: قانون) si riferisce alle leggi promulgate dai sovrani musulmani, in particolare i sultani ottomani, in contrasto con la shari’a, l’organismo di diritto elaborato dai giuristi musulmani. Il termine proviene dalla parola greca kanon (κανών). E ‘usato molto comunemente in India.
[65]G.M. PICCINELLI, Contratti bancari islamici per il credito e l’investimento, pag 135.
[66] In relazione all’aspetto giuridico, possiamo affermare che la banca islamica è assoggettata ad una legge derivante dall’uomo, e non una legge divina, la quale sostanzialmente deve essere rispettata a prescindere dal luogo in cui è sita la banca.
[67] Il rischio, come abbiamo già visto, rappresenta elemento essenziale per giustificare il lucro, almeno per quanto concerne i negozi, come quelli bancari, che non offrono un palese scambio di merci contro denaro.
[68] N. A. SALELH, Unlawful gain and legitimate profit in Islamic law, cit. pag 62.
[69] F. AL-OMAR e M. ABDEL-HAQ, Islamic Banking,pag  9.
[70] Si precisa, infatti, che il Profeta ha vietato l’acquisto di animali non ancora nati perché ancora nel ventre materno, ha vietato la vendita di latte della mammella in quanto non misurabile, la vendita di frutti non ancora maturi, la vendita di uova non fecondate, l’acquisto dei bottini di guerra prima della distribuzione e la distribuzione dell’elemosina prima di essere recepita.
[71] Infatti, in molti casi l’incertezza può essere eliminata ponendo l’attenzione sull’oggetto della vendita e sul prezzo eliminando così l’ambiguità. Quest’ipotesi si configura in relazione ad alcuni prodotti che si stanno insediando all’interno della finanza islamica, la quale pur vietando contratti come futures, forward, opzioni e derivati, ha permesso l’imbarco di contratti basati sulla vendita di beni non ancora disponibili come il salam e l’ istina ovvero lo sviluppo di forme assicurative basate principalmente sul concetto di solidarietà e di mutua assicurazione.
[72] Si pensi, ad esempio, a frutti non ancora maturi o ad animali non ancora nati.
[73] I. Q. AL- JAWZIYYA, I‘lam al-muwaqqi‘in, Vol. I, pp. 357-361.
[74] SANHURI, Masadir al-haqq, Vol. III, pag. 49.
[75] Per completezza si specifica che anche la mancanza di conoscenza della data relativa alle prestazioni future genera gharar.
[76] Autore appartenente alla scuola Malikita.
[77] Per completezza si  riportano, qui di seguito,  le ulteriori ipotesi di gharar proibito individuate da I. JUZAY:
  • quando si ha mancanza di conoscenza (jahl) del prezzo del bene ovvero, quando non si conosce il bene da acquistare, come se il venditore dicesse al potenziale acquirente: “Ti vendo ciò che ho nascosto nelle maniche” (quest’ipotesi richiama il pensiero di AL-QARAFI);
  • quando non si è a conoscenza delle caratteristiche del bene o del prezzo, come se il venditore dicesse all’acquirente: “ Ti vendo un pezzo di stoffa che ho a casa”; ovvero l’ipotesi in cui un articolo venga venduto senza che il venditore descriva il bene all’acquirente;
  • quando non si conosce l’ammontare del prezzo o la quantità dei beni;
  • quando non si conosce la data della futura prestazione;
  • quando si verificano due vendite in un’unica transazione, come se si vendesse un articolo a due prezzi differenti, uno tramite pagamento in contanti e uno tramite il credito;
  • l’ipotesi di vendita di un bene che non è previsto viva lungo, come ad esempio la vendita di un animale malato;
  • Bay‘ al-hash, ossia un tipo di vendita, il cui esito è determinato dal lancio di una pietra (si tratta dell’odierno lancio della moneta);
  • Bay‘ munabadha, ossia una vendita attraverso la quale, il venditore getta un pezzo di stoffa al compratore e l’operazione di vendita si realizza senza dare all’acquirente la possibilità di esaminare correttamente il bene oggetto della transazione;
  • Bay‘ mulamasa, vendita dove l’affare viene concluso toccando l’oggetto della vendita, senza effettuare alcuna analisi.
[78] N. A. SALELH, Unlawful gain and legitimate profit in Islamic law, pag. 66.
[79] “Gharar is the sale of probable items whose existence or characteristics are not certain, due to the risky nature which makes the trade similar to gambling.” Affermazione riportata all’interno della pubblicazione “A Basic Guide to Contemporary Islamic Banking and Finance”, MAHMOUD AMIN EL-GAMAL, 1 Giugno 2000, Rice University.
[80] Il maysir rappresenta un ulteriore divieto posto dal Corano, di cui mi riservo di spiegare nel paragrafo successivo. Anticipo che si tratta del divieto di gioco d’azzardo.
[81] Il termine aleatorietà deriva dal  latino alea,  che significa dado. Per aleatorietà  si intende la caratteristica di un evento il cui verificarsi non dipende da nulla di ben definibile. Lo stesso Corano richiama, come esempio tipico, il gioco dei dadi, in quanto non si hanno certezze circa il numero che uscirà, ogni volta che questo verrà lanciato.  Tuttavia, possiamo far riferimento anche al gioco delle carte, per le quali ci si affida alla sorte.
[82] Per completezza, si specifica che gli Ahàdíth del Profeta richiamano anche l’ipotesi di acquisto di animali che non possono esser facilmente catturati:  pesci nel mare,  uccelli nel cielo, vitelli non ancora nati  che sono nel grembo materno. Si tratta di animali di cui il venditore non può avere certezza di possedere al momento della transazione, poiché i pesci potrebbero non esser pescati, ovvero gli uccelli potrebbero non esser cacciati, ovvero il vitello potrebbe non nascere o addirittura potrebbe nascere privo di vita.
[83] Sembra quasi che Maometto stesse dando un’anticipazione del  nostro Codice Civile (1942), richiamando l’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento di cui agli artt. 1453-1462.  Ipotesi in virtù della quale, “nei contratti a prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno” (Art. 1453 c.c.). È chiaro che nelle ipotesi configurate da Maometto, non si prevedesse il risarcimento del danno, tuttavia egli pone comunque il divieto di stipulare contratti che non possano essere adempiuti o comunque contratti stipulati con l’inganno (si pensi al contratto Bay‘ munabadha, ossia la vendita attraverso la quale, il venditore getta un pezzo di stoffa al compratore e l’operazione di vendita si realizza senza dare all’acquirente la possibilità di esaminare correttamente il bene oggetto della transazione).
[84] Gli arabi pagani praticavano la  macellazione di un cammello, il quale veniva diviso in varie parti, sia grandi che piccole. Ad ogni parte del cammello macellato veniva dato un nome, e il nome veniva poi inciso su  una freccia. Successivamente, tutte queste frecce venivano unite insieme ad altre frecce sulle quali non si incideva niente, e venivano presi i nomi di tutti coloro che stavano prendendo parte al gioco. Infine, veniva estratta una freccia e il  nome inciso su di essa, determinava colui che avrebbe ricevuto il premio e quale parte del cammello spettasse al vincitore. A coloro i quali spettavano le frecce vuote, non solo non ricevevano alcuna quota di cammello, ma addirittura dovevano pagare per l’intero prezzo del cammello.
[85] F. AL-OMAR e M. ABDEL-HAQ, Islamic Banking,pag 10.
[86] Non si faceva differenza tra le diverse modalità di gioco d’azzardo: poteva trattarsi sia di un gioco che prevedeva un premio (previo pagamento di una quota di partecipazione), sia di un gioco che prevedeva una scommessa. Infatti, la figura dell’odierno allibratore, era molto diffusa nei Paesi Islamici.
[87] Con il termine qimār si è soliti indicare il gioco d’azzardo. Sostanzialmente esso equivale al maysir  citato nel Corano, la differenza tra i due termini consta nel fatto che al primo si fa riferimento nella Sunnah e al secondo nel Corano. Ma il significato di questi due termini è il medesimo.  Sayyiduna Umar ibn Abd Allah ha detto: “ maysir è qimār” . Lo stesso è stato narrato da Mujahid, Said ibn al-Musayyib, Hasan al-Basri, Muhammad ibn Sirin e Ata ibn Abi Rabah .
[88] Si sottolinea in tal senso, il termine “guadagno”, poiché con il gioco d’azzardo, il vincitore trae sì profitto, tuttavia questo non può essere considerato come un guadagno visto che egli non ha materialmente svolto alcuna attività, se non quella di affidarsi al fato che per un assurdo motivo l’ha premiato.
[89] Ad esempio: A dice a B: “Se oggi piove, vi darò 100, e se non piove, allora dovrete darmi 100.”
[90] Ti chiedono del vino e del gioco d’azzardo. Di’: “In entrambi c’è un grande peccato e qualche vantaggio per gli uomini, ma in entrambi il peccato è maggiore del beneficio!”
Ad Allah piacque che il Corano scendesse sul Suo Inviato (pace e benedizione su di lui), in un arco di tempo lungo ventitrè anni. Si trattava infatti di costruire una comunità di credenti che avesse in sé doti di solidità e di coesione eccezionali. La maggior parte degli arabi della jahiliya (lett. l’ignoranza, la condizione dell’uomo prima che gli giunga la luce della Parola di Allah) avevano stili di vita ed etiche personali particolarmente discutibili. L’abuso di alcool era diffuso e riguardava anche il notabilato delle città. Nella Sua Lungimiranza e Magnanimità Allah formulò per gradi la Sua legge a proposito dell’ebbrezza. In questa prima “comunicazione” attirò l’attenzione sulla nocività spirituale del vino (e del gioco d’azzardo).
[91] Sura IV ( le Donne), versetto 43. Quando il Corano si riferisce all’“ impurità”, si richiamano  due tipi di impurità: una maggiore e una minore. Quella maggiore è relativa allo stato di janaba (“junub” ), che consiste nell’impurità rituale conseguente al rapporto sessuale, all’emissione di seme (o liquido prostatico) e alla mestruazione nella donna. Lo stato di impurità maggiore viene rimosso mediante il “ghusl”, la lavanda completa di tutto il corpo. L’impurità minore, invece, è conseguenza di una qualsiasi emissione di orina, feci, aria intestinale, del sonno profondo, della perdita di conoscenza e di tutti quegli stati che non permettono il controllo degli sfinteri (crisi epilettiche, accessi di follia, febbri ecc.). Per rimuovere questa impurità è necessario l’“udhù”,  che consiste nel lavare le mani, sciacquare la bocca e il naso, lavare il viso, gli avambracci, passare le mani bagnate sulla testa e sui capelli.
Per quanto concerne la lustrazione “pulverale”, detta “tayammum”, si deve precisare che questa viene permessa qualora non sia possibile effettuare il ghusl.  Pertanto, essa va’ effettuata in mancanza di acqua o nel caso in cui sia sconsigliato servirsene per motivi di salute o impurità dell’acqua. La lustrazione pulverale consiste nel battere le mani sulla terra (roccia, sabbia ecc.) scuoterle e passarle sul viso e sulle braccia.
[92]In verità col vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal ricordo di Allah e dall’orazione. Ve ne asterrete?”, sura V, versetto 91.

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Elisabetta Sini Spanu

Nel 2010 conseguo la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Sassari, con la votazione di 110/110 e lode. Due anni dopo conseguo il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le professioni legali della medesima Università. Nel 2015 supero brillantemente l'esame di abilitazione all'esercizio della professione forense. Nel 2020, dopo un percorso di studi e approfondimento di tre anni, conseguo - con lode - il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione in diritto civile dell'Università degli Studi di Camerino. Attualmente PhD in Economics - Institution, Businesses and Quantitative Methods (International and Industrial doctorate) at University of Perugia.

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