I protocolli di legalità nelle procedure ad evidenza pubblica
La ratio delle procedure ad evidenza pubblica
In generale, per addivenire alla stipulazione di un contratto tra amministrazione pubblica ed operatore economico occorrono due fasi.
La prima, denominata “fase dell’evidenza pubblica”, ha inizio con la cd. determina (o delibera) a contrarre della pubblica amministrazione ed è caratterizzata dall’applicazione di regole pubblicistiche in ordine alle modalità di scelta del contraente.
La seconda fase, che ha inizio con la stipulazione del contratto pubblico, è caratterizzata dall’applicazione di regole schiettamente privatistiche per l’esecuzione del contratto.
Si definiscono ad evidenza pubblica le procedure attraverso le quali le pubbliche amministrazioni, in applicazione di peculiari regole pubblicistiche, affidano contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi o forniture ad operatori economici aventi determinate caratteristiche.
Per il tramite di tali procedure si determina la formazione della volontà negoziale dell’ente pubblico, nonché la modalità di scelta del contraente.
In particolare, in ossequio ai principi di derivazione europea di trasparenza, imparzialità, concorrenza e parità di trattamento, le procedure ad evidenza pubblica obbligano l’ente pubblico ad indire una gara pubblica ogni qual volta vi sia la necessità di affidare un contratto pubblico.
La ratio di fondo si rinviene nell’obbligo imposto dall’ordinamento comunitario alle amministrazioni pubbliche di agire in maniera trasparente e proporzionata, nonché di trattare gli operatori economici su un piano di parità ed in modo non discriminatorio.
L’intento del legislatore europeo e nazionale è quello di far rispettare le regole in materia di concorrenza e di evitare così di incorrere in limitazioni artificiose della concorrenza.
E’ pacifico, infatti, che la concorrenza sia limitata artificialmente laddove l’ente pubblico affidi l’appalto o la concessione con l’intento di favorire o svantaggiare in maniera indebita alcuni operatori economici.
Fondamento legislativo delle procedure ad evidenza pubblica
Il fondamento legislativo della procedura ad evidenza pubblica si rinviene, sul versante europeo, nelle norme a tutela della concorrenza, sancite agli articoli 101-105 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
Sul versante nazionale, il fondamento legislativo si desume dall’articolo 41 della Costituzione, il quale sancisce che l’iniziativa economica privata è libera e che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana; nonché dall’art. 117, comma 1, lettera e) della Costituzione, il quale espressamente stabilisce che lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza.
Alla luce di ciò, per un verso, la tutela della concorrenza nell’ordinamento giuridico italiano è garantita e protetta dalla Carta costituzionale; per altro verso, è considerata una materia di peculiare rilevanza data la sua collocazione all’interno dell’elenco delle materie concernenti la legislazione esclusiva dello Stato.
Pare opportuno sin da subito evidenziare che, ai fini della tutela della concorrenza, l’uso della procedura ad evidenza pubblica è imposto dal legislatore nazionale sia per l’affidamento dei contratti pubblici disciplinati dal D.lgs. n. 50/2016 (“Codice dei contratti pubblici”), sia per l’affidamento di contratti pubblici esclusi dall’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici, come ad esempio i contratti attivi.
Tale regola si desume dall’art. 4 del D.lgs. n. 50/2016, il quale precisa che anche per l’affidamento dei contratti pubblici esclusi dall’ambito di applicazione oggettiva del D.lgs. n. 50/2016 vige il rispetto dei principi di economicità, efficacia, parità di trattamento, trasparenza, pubblicità ed imparzialità.
Sicché la pubblica amministrazione deve necessariamente ricorre ad una procedura ad evidenza pubblica in tutti i casi in cui debba procedere all’affidamento di contratti pubblici.
I protocolli di legalità e la legislazione antimafia
Accanto a tali regole, volte alla tutela della concorrenza e della parità di trattamento nella scelta del contraente, il legislatore nazionale ne prevede altrettante, volte alla tutela della legalità ed alla prevenzione della corruzione.
Circa quest’ultimo aspetto, a mezzo del combinato disposto dell’art. 19 del D.L. n. 90/2014, convertito dalla legge n. 114/2014 e dell’articolo 213 del D.lgs. 50/2016, il legislatore ha per un verso attribuito all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) l’attività di vigilanza sui contratti pubblici e l’attività di regolazione degli stessi; per altro verso, ha affidato all’ANAC compiti di prevenzione e di contrasto dell’illegalità e della corruzione nelle pubbliche amministrazioni.
La prevenzione della corruzione e dell’illegalità viene posta in essere per il tramite di affidamenti di compiti di trasparenza: ad esempio, la gestione della Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici, nella quale confluiscono tutte le informazioni contenute nelle banche dati esistenti, anche a livello territoriale, per garantire accessibilità unificata, pubblicità e tracciabilità delle procedure di gara.
Sotto altro profilo, misure di prevenzione dalla corruzione sono contemplate nella cosiddetta legislazione antimafia, di cui al D.lgs. n. 159/2011.
In particolare, l’art. 83 del D.lgs. n. 159/2011 sancisce che le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, nonché i concessionari di opere pubbliche devono acquisire la documentazione antimafia di cui all’art. 84 del D.lgs. n. 159/2011 prima di stipulare i relativi contratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici.
Sulla base delle considerazioni suesposte è evidente come l’attenzione del legislatore, consapevole dell’incidenza socio-economica della materia dei contratti pubblici nella società civile, sia focalizzata nell’adottare quanto più possibile misure che prevengano la corruzione e che tutelino la legalità, la trasparenza e la concorrenza.
In tale contesto, accanto alle misure dettate dal legislatore nazionale (anche in applicazione della normativa europea in tema di appalti pubblici e concessioni), si registra negli ultimi anni il crescente utilizzo di meccanismi da parte delle stazioni appaltanti volte a rafforzare la tutela della legalità e la prevenzione dalla corruzione.
In particolare, le pubbliche amministrazioni, in veste di stazioni appaltanti, utilizzano sovente i cosiddetti protocolli di legalità nelle procedure ad evidenza pubblica.
Sul piano prettamente pratico, le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che l’operatore economico accetti in via preventiva specifiche clausole contenute nei protocolli di legalità aventi ad oggetto determinate condizioni per la partecipazione alla gara pubblica, la cui ratio è quella di prevenire e contrastare tentativi di infiltrazione mafiosa.
Il dibattito giurisprudenziale
In disparte il piano di operatività pratica, pare opportuno evidenziare che l’utilizzo dei protocolli di legalità nelle procedure ad evidenza pubblica è oggetto di dibattito giurisprudenziale.
In particolare, si registrano differenti orientamenti giurisprudenziali in ordine alla copertura legislativa, alla natura giuridica, nonché alla legittimità.
Con riferimento al primo aspetto, in ossequio al principio di legalità dell’azione amministrativa, pare opportuno evidenziare che a mezzo dell’art. 1, comma 17, della Legge n. 190/2012, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, il legislatore abbia fornito adeguata copertura legislativa ai protocolli di legalità.
In particolare, l’art. 1, comma 17, della Legge n. 190/2012 sancisce che <<le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti d’integrità costituisce causa di esclusione dalla gara>>.
Tuttavia, da una prima lettura della norma, pare che il legislatore si focalizzi non sui protocolli di legalità tout court, bensì sulle clausole contenute nei protocolli di legalità e del loro mancato rispetto.
Proprio su tale osservazione, anche dopo l’introduzione della suesposta copertura legislativa, si registrano orientamenti giurisprudenziali non univoci in ordine alla natura giuridica dei protocolli di legalità.
Un primo filone giurisprudenziale propende per la natura di atto politico (dunque, atto non amministrativo) di indirizzo non vincolante in capo alla pubblica amministrazione.
Un secondo orientamento giurisprudenziale ritiene che i protocolli di legalità rientrino nella disciplina degli accordi tra pubbliche amministrazioni ex art. 15 della Legge n. 241/1990.
Con la precisazione che l’art. 15 della Legge n. 241/1990 menziona esplicitamente gli accordi tra pubbliche amministrazioni, ma è pacifico che siffatti accordi possano essere conclusi anche tra pubbliche amministrazioni e soggetti privati.
Secondo questa lettura, i protocolli di legalità sarebbero degli accordi tra pubbliche amministrazioni ed operatori economici aventi ad oggetto lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune, ovvero la prevenzione della corruzione.
Con il corollario che, in applicazione dell’art.15 della Legge n. 241/1990, il quale a sua volta richiama l’art.11 della Legge n. 241/1990, tali accordi devono essere stipulati per iscritto a pena di nullità, devono essere motivati ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 241/1990 e ad essi si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili.
L’orientamento giurisprudenziale amministrativo non è univoco anche con riferimento alla legittimità dell’utilizzo dei protocolli di legalità nelle procedure ad evidenza pubblica.
Infatti, un primo filone giurisprudenziale propende per l’illegittimità dei protocolli di legalità, specie con riferimento all’informazione antimafia di cui all’art. 91 del D.lgs. n. 159/2011.
In particolare, l’art. 91 del D.lgs. n. 159/2011 prevede che le stazioni appaltanti debbano acquisire l’informazione antimafia (cioè l’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte delle imprese) prima di stipulare contratti e subcontratti che hanno un determinato valore economico, valore indicato alle lettere a), b) e c) dell’art. 91 del D.lgs. n. 159/2011.
Spesso accade nella prassi che le stazioni appaltanti predispongano dei protocolli di legalità aventi ad oggetto l’acquisizione di informazioni antimafia con riferimento a contratti il cui valore economico si attesta sotto la soglia prevista dall’art. 91 del D.lgs. n. 159/2011.
In tale circostanza parte della giurisprudenza amministrativa ritiene che siffatti protocolli siano illegittimi.
L’assunto muoverebbe dalla considerazione che è solo il legislatore che può prevedere dei valori contrattuali predeterminati (come quelli di cui all’art. 91 del D.lgs. n. 159/2011) e non l’autonomia pattizia.
La ratio troverebbe giustificazione nel fatto che è il legislatore a dover operare un bilanciamento di contrapposti interessi peculiari: l’esigenza pubblica alla prevenzione e l’esigenza alla libertà di impresa e di iniziativa economica privata.
Sulla base di tali considerazioni, stipulare dei protocolli di legalità il cui oggetto sia prevedere dei valori contrattuali predeterminati convenzionalmente, ancorché più bassi rispetto a quelli indicati all’art. 91 del D.lgs. n. 159/2011, sarebbe illegittimo.
Di tutt’altro avviso è un secondo orientamento giurisprudenziale, il quale ritiene che i protocolli di legalità all’interno di procedure ad evidenza pubblica siano del tutto legittimi, poiché essi riguarderebbero non obblighi nuovi, ma semplicemente un rafforzamento di obblighi già esistenti nell’ordinamento nazionale (in tal senso si è pronunciata l’ex AVCP, ora ANAC).
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Francesca Miniscalco
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