I rapporti tra principio di colpevolezza, responsabilità oggettiva e preterintenzione
Affinché possa affermarsi la responsabilità penale dell’autore di un fatto tipico ed antigiuridico è necessario accertarne la colpevolezza.
La categoria dogmatica in questione è stata ed è tuttora oggetto di vivo interesse giurisprudenziale e dottrinale, in ragione dell’assenza di un’espressa definizione normativa. In realtà, pur se vi fosse, non vi è dubbio che ne risulterebbe complesso l’accertamento in concreto, in virtù della sua natura inestricabilmente connessa a valutazioni di carattere soggettivo. La dottrina tradizionale ritiene che la colpevolezza sia espressione della rimproverabilità del fatto di reato al suo autore, e la stessa Corte Costituzionale, con sentenza 364/1988, si è pronunciata in tal sensoSostanzialmente, ciò che si critica dell’orientamento suddetto è il rischio di confondere la rimproverabilità giuridica con quella morale, giudizi la cui coincidenza non può dirsi certamente automatica e necessaria; un simile rischio può, però, dirsi verosimilmente insussistente, laddove si consideri che ciò che rileva ai fini dell’applicazione della legge penale è la capacità del soggetto di determinarsi nel senso del lecito piuttosto che dell’illecito.
È proprio alla luce di quest’ultimo rilievo che si suole comunemente individuare nel giudizio di colpevolezza componenti sia empiriche che normative, dovendosi accertare la capacità dell’agente di indirizzare i propri istinti, nonché la concreta possibilità di esigere una condotta conforme al precetto.Com’è naturale ritenere, il fondamento di dette valutazioni risiede nella considerazione per cui l’uomo è libero, quindi capace di dominare ed orientare i propri impulsi psichici; ed è proprio in tal senso che gli elementi soggettivi di dolo e colpa, oltre che sul piano della tipicità del fatto, rilevano anche sotto il profilo della colpevolezza. A ben vedere, conclusioni differenti svuoterebbero di contenuto il disposto del terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, che individua nella pena una funzione rieducativa per il reo: non ha senso condannare un soggetto incapace di autodeterminarsi, o rispetto al quale non sia esigibile una certa condotta. Proprio sotto questo profilo, può certamente affermarsi che il principio di colpevolezza svolge un’irrinunciabile funzione limitativa della potestà punitiva dello Stato.
Odiernamente, sulla scorta della già citata sentenza 364/1988, non vi è dubbio che il principio di colpevolezza sia costituzionalizzato nella previsione del primo comma dell’art. 27. I Giudici delle Leggi hanno rilevato che la personalità della responsabilità penale non indica soltanto l’esclusione della responsabilità altrui, bensì che il reato deve essere opera dell’autore sia sotto il profilo della causazione materiale, che con riguardo agli aspetti strettamente soggettivi: in altri termini, deve potersi affermare che l’autore abbia scelto di agire per l’illecito. Il discorso fin qui sviluppato è preliminare allo studio del problema della responsabilità oggettiva, vale a dire l’insieme delle ipotesi fondanti sull’accertamento della causalità materiale tra condotta ed evento, ma prescindenti dall’elemento psicologico.
Sebbene il carattere personale della responsabilità penale conduca logicamente all’incostituzionalità di tutte quelle disposizioni strutturate secondo le linee della responsabilità oggettiva, deve evidenziarsi che la stessa ha fondamento nella legge ordinaria all’art. 42, 3 comma del codice penale, laddove si afferma che “la legge determina i casi in cui l’evento è altresì posto a carico dell’agente”. La Corte Costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi sulla questione, innanzitutto con la più volte menzionata sentenza 364/1988, dalla quale si desume che l’Ordinamento Giuridico non contempla un generico divieto di responsabilità oggettiva, ma che detto divieto sussiste soltanto con riguardo agli elementi essenziali della fattispecie, ovverosia quelli che determinano il disvalore del fatto. Muovendo da quest’ultimo assunto, i Giudici delle Leggi sono successivamente tornati sul problema, dichiarando con sentenza 1085/1988 l’incostituzionalità dell’art. 626 cp, nella parte in cui non estendeva la disciplina del furto d’uso alle ipotesi in cui la mancata restituzione della cosa fosse dipesa dal caso fortuito/forza maggiore, qualificando come elemento essenziale della fattispecie la mancata restituzione della cosa, per la cui imputabilità all’agente è necessaria la sussistenza dell’elemento psicologico.
Quanto alla categoria del reato preterintenzionale, definito puntualmente dall’art. 43 cp, la questione della sua riconducibilità allo schema della responsabilità oggettiva è logica conseguenza del fatto che l’evento per cui l’agente è chiamato a rispondere è più grave di quello effettivamente voluto, e quindi ad una prima analisi non appare sorretto da componenti subiettive. In sostanza, il reo si rappresenterebbe e vorrebbe il solo evento che poi, nei fatti, non si verifica, o si verifica in forma aggravata. Circa l’inquadramento dogmatico della categoria in discorso, si distinguono tendenzialmente due orientamenti: ad avviso della dottrina maggioritaria, il reato preterintenzionale configurerebbe un’ipotesi di dolo misto a colpa, posto che l’evento più grave non sarebbe voluto. Altro orientamento giunge a conclusioni parzialmente diverse, ritenendo che il delitto preterintenzionale sarebbe riconducibile alla struttura della colpa, sia sotto il profilo della non volizione dell’evento, quanto, soprattutto, con riguardo alla prevedibilità dello stesso (colpa cosciente). In sostanza, essendo l’evento più grave di regola prevedibile secondo l’id quod plerumque accidit, un più attento controllo del decorso causale certamente ne impedirebbe il verificarsi, cosicché anche nella realizzazione di una fattispecie di reato, l’agente è chiamato al rispetto delle regole di cautela, per evitare il prodursi di conseguenze più gravi di quelle volute.
In conclusione, e che si propenda per l’orientamento tradizionale, e che si condividano le argomentazioni da ultimo esposte, può ritenersi soluto il problema della riconducibilità del reato preterintenzionale allo schema della responsabilità obiettiva, posto che l’evento più grave sarà in ogni caso sorretto dall’elemento psicologico, sia pure nella forma colposa.
FONTI: C. Fiore e S. Fiore, Diritto Penale, Parte Generale, V Ed., Utet.
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Patrizia Picciano
Laureata in Giurisprudenza con lode presso l'Università degli Studi del Molise, con una tesi in Diritto Civile dal titolo "Clausole di prelazione e di gradimento".
Tirocinante della Suprema Corte di Cassazione.
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